di Salvatore D’Albergo*
Cosa deve intendersi per “revisione costituzionale”? Se guardiamo al chiaro e inequivoco pensiero dei costituenti, nonché al primo quarantennio della storia repubblicana, essa non può certo, come pretende l’ideologia dominante, significare una revisione sistemica che stravolga l’impianto “rigido”della Costituzione, (con l’introduzione ad esempio del presidenzialismo o l’introduzione di funzioni e ruoli diversi tra Camera e Senato). Nell’attuale peculiare contesto politico, in cui l’attacco alla Costituzione nata dalla Resistenza è uno dei punti cardine del programma del governo Letta (fortemente voluto e sostenuto dal presidente Napolitano, rieletto – caso unico nella storia repubblicana – per un secondo mandato), anche parlare di “manutenzione” della Costituzione può risultare ambiguo…
Nel clima sempre più dissacrante e al tempo stesso ovattato che da oltre un trentennio tende a delegittimare la Costituzione del 1948, sotto il duplice attacco di progetti di alterazione dell’ordinamento della Repubblica e del sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, si è finito per perdere di vista – proprio da parte dei giuristi, che fanno della “ragionevolezza” il criterio fondante del diritto, e per esso, della Costituzione – la funzione che è assegnata al principio di “rigidità” che si avvale di maggioranze “qualificate” per la legittimità delle leggi di “revisione costituzionale” che si rendono opportune nello scorrere della vita politica e istituzionale.
Infatti, dimenticando che il potere di revisione è stato previsto per fare da ponte tra la generazione della Costituzione vigente e le generazioni future, non si è esitato – sin dall’epoca della prima Commissione che ha cominciato ad occuparsi di progetti di revisione più o meno “organici” o “radicali” (la commissione Bozzi, degli anni 1983-85) – ad assumere come naturale una problematica che, sotto la nomenclatura delle “riforme istituzionali”, tendeva non già ad affrontare singoli qualificanti aspetti di rinnovamento normativo – suggerito di volta in volta dall’esperienza maturata, per poi eventualmente sfociare nell’emanazione di specifiche leggi di revisione costituzionale –, ma mirava, in senso del tutto opposto, ad incidere profondamente ed incautamente sul sistema di governo.
Quello che ha reso pericoloso e incontrollabile il fenomeno “revisionista” che bussa ancora prepotentemente alle porte anche predisponendo metodi illegittimi di condizionamento del lavoro di competenza delle due Camere tramite una “convenzione” (interna o esterna, comunque estranea al procedimento di revisione previsto nell’articolo 138 C.), è che una parte di esponenti politici e studiosi danno l’idea di sorvolare sulla consistenza delle proposte in campo, sia adducendo che sarebbero mature esigenze di “adeguamento” dell’organizzazione costituzionale al mutare dei tempi; sia riassumendo il tutto nel segno di una “manutenzione” della macchina politico-istituzionale nel contesto di una realtà mutevole.
Il rischio che si corre, così, è che nel corpo elettorale, interessato a capire le cose anche per l’eventualità che si debba ricorrere al voto referendario cosiddetto “confermativo”, si disperda quella capacità di leggere quel che si vorrebbe ammannire al popolo sovrano, dopo che questo ha avuto la lucidità di interpretare a dovere il tipo di riforma “massimalistica” deliberata dalla maggioranza di centro-destra nel 2006, facendo fallire il grave tentativo di manomettere l’intero impianto costituzionale, per gli effetti indiretti che si sarebbero riversati dalla Seconda alla Prima Parte dell’assetto normativo.
Urge pertanto una precisazione teorico-politica pregiudiziale che – tenuto conto anche dell’esperienza attestata dalle vicende complessive della storia costituzionale italiana – faccia emergere il connotato che la funzione assegnata al procedimento di revisione ha avuto e deve mantenere, come strumento di accompagnamento dell’evoluzione della società e dello Stato in un processo che non ne alteri l’identità: mediante l’intervento di aggiornamenti sensibili al maturare di singole questioni, affrontate cioè con intento strettamente “emendativo” di singole norme, come del resto avviene esemplarmente negli USA, ove la rigidità costituzionale è stata introdotta.
Per quanto riguarda l’Italia, nel corso di ben dieci legislature sono state effettuate poco più di una decina di revisioni, sparse qua e là nel sistema normativo, senza che né in sede politica né in sede culturale se ne rammenti la peculiare collocazione, sfuggente anche al più meticoloso osservatore delle dinamiche che hanno attraversato il nostro ordinamento. Basti pensare all’equiparazione nel 1963 della durata quinquennale del Senato a quella della camera (da 6 a 5 anni); all’inammissibilità dell’estradizione dello straniero per reati politici (1967); alla disciplina dello stato d’accusa del presidente Consiglio dei Ministri (1989); alla limitazione del potere del Presidente della Repubblica di sciogliere le camere (1991): in questi ed in altri pochi casi si tratta di specifiche norme o di singoli istituti di circoscritto valore politico, suggerite da motivazioni legate alle circostanze via via occorse. Persino la modifica del numero dei deputati e dei senatori (articoli 56, 57, 60) del 1963 – che oggi viene riproposta, in collegamento però con la stessa forma di governo – non ha presentato problemi di particolare peso, configurandosi come una variante plausibile di un criterio di rappresentatività degli organi del potere legislativo.
Tutto ciò appare ancor più degno di attenzione, ove si pensi che la svolta che in Francia ha aperto la strada al c.d. “semipresidenzialismo” di stampo gollista – e che il centrodestra, ma non solo, vorrebbe copiare per il caso italiano – ha trovato la sua incubazione nella crisi algerina. Essa ha messo a repentaglio la tenuta del sistema parlamentare, minato in Francia da una crisi che in Italia, nonostante la cosiddetta conventio ad excludendum dei comunisti dal governo, si è potuto evitare sino a quando – anche per impulso di poteri occulti, come la “P2” – non si è aperta una stagione interminabile di tentativi di eversione vera e propria, persino ricorrendo alla violazione dell’articolo 138 C., pur di attuare revisioni “sistemiche” e non di singoli aspetti della normativa costituzionale: violazioni che incombono anche oggi, nel segno della cosiddetta “convenzione” con insostenibile potere “redigente”, limitativo del potere autonomo delle Camere.
Ci pensino, pertanto, quanti parlano di “manutenzione” della Costituzione. Essa, come tale, se può aver rilievo, può solo evocare, come si è detto, interventi su specifiche norme o su singoli istituti di circoscritto valore politico, del tutto estranei, quindi, alla prospettiva di una revisione sistemica, di un profondo stravolgimento della Costituzione, che agita i due partiti su cui si regge il “governo del presidente”.
* già ordinario di Diritto pubblico nell’Università di Pisa
(29 maggio 2013)