“Il sonno della ragione genera mostri”, Francisco Goya, 1797
di Gianfranco Pagliarulo
Perché Scalfari, qui ed ora, scrive che “oligarchia e democrazia sono la stessa cosa”?
Tralasciamo le ragioni della critica a ciò che, con tutta evidenza, è un ossimoro; concentriamoci sui motivi per cui uno dei più autorevoli sacerdoti del pensiero democratico-liberale si pronunzia in modo così categorico su di una materia sulla quale, quantomeno dal tempo della Liberazione, il pensiero occidentale e il senso comune hanno considerato i termini oligarchia e democrazia in fiera contrapposizione, conferendo al primo un valore negativo e al secondo un significato positivo e di progresso.
E’ ragionevole pensare che sia il segno – uno dei tanti – d’un cambiamento d’epoca. Certo, il lunghissimo dopoguerra è terminato nel 1989, ma non è subentrato sic et simpliciter un nuovo ordine mondiale (o meglio occidentale), bensì una lunga e tormentata fase di navigazione a vista. E’ giunto il momento – sembra di intendere – di trarre le debite conclusioni dalle premesse del 1989 e da tutto quello che è avvenuto dopo, e rimodellare le forme delle istituzioni in modo coerente con i principi ispiratori del mondo in cui viviamo.
La democrazia che abbiamo conosciuto dal 1945 era incardinata sul suffragio universale, su manifestazioni variegate di partecipazione popolare, che andavano da eterogenee modalità di controllo popolare (la stagione consiliare in Italia) al referendum, sulla funzione storicamente determinata dei partiti come raccordo fra istituzioni e popolo (una volta si diceva fra Stato e masse), sul ruolo attivo e consapevole dello Stato nell’economia, sulla funzione trainante del lavoro come ordinatore della vita sociale.
Da quell’inizio si è sgranata l’epoca d’oro della democrazia in occidente, col coniugarsi tutto sommato virtuoso fra rappresentanza e welfare.
Di quei presupposti è rimasto ben poco. Alla categoria onnicomprensiva dei lavoratori si è sostituita una congerie di definizioni corrispondenti alla sua parcellizzazione e frantumazione, alla distruzione della loro identità.
Con la progressiva dissoluzione delle più varie modalità di partecipazione e di controllo e con la mutazione genetica dei partiti politici, alla democrazia rappresentativa si sta lentamente sostituendo quella che Emilio Gentile definisce “democrazia recitativa”, dove i protagonisti sono i governanti e il popolo svolge sempre più funzione di comparsa, quando non diserta il palco, per esempio astenendosi dal voto. Intanto cambia tutto: non solo attori, spettatori, palco, ma persino teatro.
La dimensione sovranazionale – Commissione Europea, Bce, Fmi, Wto, Banca Mondiale – non rispetta il criterio democratico e perciò causa, per reazione, strappi di vario genere. Lo Stato, che per definizione copre una parte limitata di territorio, conta sempre meno. Il metodo del marketing si è progressivamente sostituito ai legami sociali che erano a base della rappresentanza politica. Il potere finanziario mai come oggi è levatrice del potere politico spesso surrogandolo in modo imbarazzante (vedi la richiesta della JP Morgan del 2013 ai Paesi europei di cambiare le Costituzioni nazionali).
Il potere politico diventa così l’esecutore di scelte e decisioni prese altrove. La caratteristica del potere finanziario è di essere oligarchico (decidono in pochi e autonominati), oscuro (i nomi dei “decisori” – Amministratori delegati, consigli d’amministrazione – sono ai più del tutto sconosciuti), teso alla realizzazione esclusiva dei suoi interessi, che sovente collidono con gli interessi collettivi. E’ così vero che si è giunti al grottesco di una crisi mondiale ancora in essere governata, in sostanza, dai responsabili stessi di tale crisi. Andrebbe approfondito il nesso fra potere finanziario e illegalità, tanto più diffusa quanto meno è controllato il soggetto da cui proviene.
La progressiva eclissi dei nessi fra potere e società, potere e morale, potere e responsabilità, assieme al paradosso dato dal fatto che la più grande concentrazione di potere privato opera come se fosse la più grande concentrazione di potere pubblico, ha causato sia la straordinaria ondata di diseguaglianza che attraversa l’occidente, sia il ritorno della guerra come forma relativamente normale di rapporto internazionale.
Si è così avviata – forse siamo ancora agli inizi – una nuova forma di biopolitica, come progressivo asservimento della vita biologica ad un dominio eterodiretto, dove politica ed economia si congiungono in un orizzonte non conosciuto, non controllato e del tutto pervasivo: non solo disoccupazione, guerra, strage di migranti, creazione e distruzione di bisogni, ma anche costruzione del senso comune subalterno grazie all’attuale sistema mediatico; più in generale sembra che il senso stesso della vita individuale venga spossessato, privato di valore e ridotto alla sua principale funzione di elemento base del mercato.
Questo sconvolgimento antropologico è alla base di azioni e controreazioni che costituiscono la quotidianità: il ritorno dei razzismi (in forme vecchie e nuove) e dei nazionalismi, lo sviluppo di un neofascismo e neonazismo dal profilo e dalla pericolosità non ancora sufficientemente analizzati, la violenza come modalità in espansione dei rapporti sociali, la crescita dell’illegalità e delle mafie, il germinare di pulsioni barbariche e nichiliste (guerra portata dall’esterno, guerra civile, bestialità dell’Isis); assieme a tutto ciò, davanti all’espandersi dell’ingiustizia sociale si diffonde lo smarrimento della speranza di cambiamento sostituita o da forme contemporanee di jacquerie verbale (basta con i politici, basta con la politica, ecc.) o, più semplicemente, da una rassegnazione come uniformarsi al volere altrui, come accettazione di ciò che viene ritenuto, o descritto, come inevitabile.
Da questa rassegnazione nasce una peculiare forma di indifferenza, come rinuncia, destrutturazione del punto di vista critico, isolamento, accettazione passiva e fatalistica della sconfitta sociale che spesso tracima in sconfitta esistenziale.
Sfumano perciò di senso concetti e parole fondamentali; democrazia e sovranità popolare assumono una connotazione indefinita e indefinibile, e permangono più come retaggio di un recente passato che come realistica prospettiva di regole e valori comuni.
Se questo quadro è verosimile, si spiega la ragione dell’improvviso endorsement di Scalfari nei confronti del concetto di oligarchia.
Per molti aspetti, la forma di governo oligarchica è già in essere; non è improprio parlare di elementi di oligarchia nella vita dell’Ue, né pare scorretto sostenere che il concetto stesso di governance alluda implicitamente ad un principio oligarchico, nella misura in cui scompare nel porto delle nebbie l’idea stessa di rappresentanza.
La parola governance è archetipica della neolingua, strano ircocervo un po’ italiano un po’ inglese, che ridefinisce le categorie del mondo contemporaneo alla luce della nuova distribuzione del potere. Dunque la questione dell’oligarchia non riguarda una possibile forma di governo del futuro, ma una forma di governo esistente e già in gran parte praticata, ma non ancora codificata
Che senso avrebbe, d’altra parte, l’enfasi non solo italiana ma occidentale sulla governabilità, se non nella proterva volontà di rafforzare il dominio del potere esecutivo su qualsiasi altro potere istituzionale? E non è forse il prevalere del potere dell’esecutivo un elemento non sufficiente ma necessario in una visione oligarchica del potere stesso?
Da ciò l’urgenza di una scelta: se si ritenga cioè che tale modalità di potere sia oggi la meno peggiore possibile, magari aggiornando il famoso aforisma di Churchill (“la democrazia è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre”); data questa scelta, si immagina che la democrazia, così come la abbiamo conosciuta e praticata, abbia concluso il suo ciclo storico e ci sia perciò bisogno di nuove forme di organizzazione dell’umana convivenza al tempo della globalizzazione e delle multinazionali; oppure se si sostenga che, proprio a causa di questo scenario del mondo contemporaneo, occorra un rilancio dei fondamenti della democrazia e della rappresentanza, per restituire ai popoli (ed alle persone) quei poteri e quella dignità che negli ultimi decenni sono stati progressivamente sottratti da un sistema che ai primi del 900 fu descritto come “il tallone di ferro”, qualche anno fa come “mostro mite” e che in ogni caso oggi condiziona in modo determinante il pubblico e il privato.
Siamo forse perciò nel passaggio conclusivo della fase iniziata col 1989; un passaggio in cui si decide che forma istituzionale dare al nuovo mondo che in gran parte c’è già, oppure lo si critica proponendone un’idea di superamento.
Scalfari, sua sponte, ha scelto: la repubblica oligarchica. Sta ad altri costruire un’alternativa di senso che riguardi, certo, la politica, le istituzioni, la società, ma attenga in ultima analisi al valore della vita nell’Anno Domini 2016.
ottobre 24, 2016