Ma l’America è lontana
di Saverio Lodato
Maria Falcone? Non pervenuta.
Rosy Bindi? Non pervenuta (ma a lei va tutta la nostra solidarietà per le offese-minacce ricevute dal De Luca).
Claudio Fava? Non pervenuto.
Giuseppe Di Lello? Non pervenuto.
Nando dalla Chiesa? Non pervenuto.
Giovanni Impastato? Non pervenuto.
Roberto Saviano? Non pervenuto.
E potremmo continuare con il lungo e stupefacente elenco del silenzio degli innocenti sul “caso Di Matteo”.
Dopo la decisione di Nino Di Matteo di restare a Palermo a fare il suo lavoro di pubblico ministero nel processo per la Trattativa Stato-Mafia, nonostante le gravissime minacce di morte che lo riguardano, ci saremmo infatti aspettati – era lecito, legittimo, perfino ovvio, aspettarsi – che le “personalità non pervenute” avessero battuto un colpo.
Anche un semplice colpettino. Magari una dichiarazioncina di rito alle agenzie di stampa. Giusto per dire che stanno, almeno idealmente, dalla parte di questo magistrato per la cui vita teme lo stesso Capo dello Stato e, per riflesso pavloviano, l’intero Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma, un ti siamo vicini che non si nega a nessuno.
E invece niente. Niente di niente. Bocca chiusa da parte degli uomini e delle donne simbolo dell’antimafia italiana. Che poi qualcuno di loro rappresenti un’antimafia remota o eccessivamente vintage, poco importa.
Sono forse diventati tutti pavidi? Hanno perso il dono della favella dopo che per decenni su argomenti del genere hanno detto la loro? Quale sguardo di Medusa hanno incrociato che li ha pietrificati? O tirano forse a campare, visto che ormai si parla di una Mafia che ha sinistramente assunto le fattezze di uno Stato?
L’interrogativo resta. Noi cercheremo di sforzarci cercando una risposta. E vogliamo prenderla molto alla lontana. Da quanto è recentemente accaduto negli Stati Uniti per le elezioni presidenziali. Vediamo.
A poche ore dal voto, l’Fbi ha sconvolto l’andamento della competizione elettorale rivelando che aveva riesumato la corrispondenza elettronica di un candidato (la Clinton) per verificare l’esistenza di un profilo eventualmente penale nei comportamenti della persona finita sotto inchiesta. Sappiamo come è andata a finire.
È vero che la Clinton non ha gradito, ha strillato un po’ all’indirizzo del direttore dell’Agenzia investigativa che la stava mettendo disinvoltamente sulla graticola, ma non si è mai sognata di pretendere che le e-mail del suo presunto scandalo che la riguardava fossero “tombate” per legge.
È qui veniamo a palla, come usa dire, con l’argomento che ora ci interessa.
Un capo dello Stato che in America si fosse comportato come si è comportato qualche anno fa in Italia Giorgio Napolitano, quando pretese che le sue telefonate con un indagato fossero distrutte “per legge”, sarebbe stato interdetto su due piedi, con conseguente applauso dell’intera opinione pubblica statunitense. Né miglior fine avrebbero fatto quegli editorialisti americani che avessero imitato Eugenio Scalfari quando sentenziò che i giudici di Palermo avrebbero dovuto staccare lo spinotto appena si accorsero che l’indagato Mancino Nicola e il presidente Giorgio Napolitano si intrattenevano telefonicamente. E infatti nessun giornalista americano, per quanto ne sappiamo, ha fatto un simile salto della quaglia. Per il momento fermiamoci qui.
Resta il fatto che quel macigno si è abbattuto sulla volontà di una parte esigua della magistratura italiana di fare chiarezza sui rapporti intrattenuti per oltre mezzo secolo dallo Stato e dalla Mafia. È stato un segnale. Un avvertimento. Un minaccioso non plus ultra piovuto su Palermo dal Colle più alto.
Va anche detto, però, a parziale discolpa di Scalfari che, dopo l’enunciazione di quella sua bislacca teoria, non abbiamo sentito nei media particolari voci fuori dal coro. Tutti, anche le firme più eccelse, tranne rarissime eccezioni, si sono defilate. Alla chetichella. Zitte zitte. Preferendo scrivere di altro. Con buona pace della nobile guerra da combattere contro la mafia, contro tutte le mafie, e contro tutti i loro complici.
È naturale, poi, che, una volta rotte le dighe, siano tornati a circolare i monatti, i quali adesso non si accontentano più di sparare ad alzo zero contro Di Matteo ma, sentendo l’odore del sangue, pretenderebbero una sorta di “pulizia etnica” per chiuderla definitivamente con questa vera e propria “rottura” dell’antimafia.
Ma dicevamo delle Grandi Voci che si sono fatte mute. La nostra piccola risposta all’enorme interrogativo sollevato potrebbe allora essere questa: sono ancora sotto choc a causa del “trattamento Napolitano”.
Perciò fanno finta di non sapere, di non vedere. Sanno che mettersi contro la mafia militare è un modo per sparare contro la Croce Rossa. Ma imbarcarsi in una campagna contro le complicità di Stato è ben altra storia. Ecco che Nino Di Matteo diventa un problema.
E’ diventato un problema.
E il processo di Palermo un fastidioso convitato di pietra.
19 Novembre 2016