Tonino Dessì
I giornali legati ai poteri finanziari hanno scritto in questi giorni a caratteri cubitali che se vince il NO sono a rischio quattro grandi banche italiane.
Mai firma più impudente si sarebbe potuta apporre al condizionamento di un voto popolare.
Altro che “merito”, altro che discussione sulla semplificazione istituzionale e sull’efficienza della decisione politica per l’interesse generale.
Quando degli istituti finanziari entrano in crisi, emergono sempre cause attribuibili a gestioni azzardate se non clamorosamente incompetenti, frodi fiscali e finanziarie a danno dell’erario, ruberie selvagge ai danni degli investitori onesti e dei risparmiatori fiduciosi, cospicui e occulti trasferimenti di danaro verso grumi di potere politico-economico parassitari, rapporti col sottomondo mafioso, emolumenti stratosferici (altro che i costi dei parlamentari) a presidenti, componenti di consigli di amministrazione, pseudomanager di provenienza politica o comunque piazzati in quegli incarichi tramite lottizzazioni governative, nazionali e locali.
Quel mondo di dilapidatori, di biscazzieri, di ladri, di corruttori e di corrotti non trema tanto per gli effetti del referendum su discutibili e divisive riforme costituzionali.
Trema perché teme che in conseguenza di un voto che proprio il Governo, il suo Presidente, la sua maggioranza spuria, hanno provocato con intenti plebiscitari, questi stessi possano andare in crisi.
La vedono come la crisi di un assetto politico che evidentemente è giudicato “amico” di quel mondo, ancor più “amico” degli stessi “governi tecnici”, che pure si son rivelati in passato tutt’altro che avversi.
C’è una ragione tutta ideologica e politica, retrospettiva e insieme di prospettiva, in questa torva, prepotente, terroristica intimidazione.
Parliamoci chiaro.
Il rigurgito di revanscismi anticostituzionali di ogni genere, preesistenti e accumulatisi in Italia in sessantotto anni, mai era stato catalizzato e interpretato con tanto spregiudicato cinismo strumentale da un partito di governo e dal suo leader.
Craxi era stato certamente meno violento, lui che pure non difettava di aggressività. Berlusconi e Fini erano stati più cauti, nell’evitare di provocare un clima così apertamente e frontalmente divisivo, sino a quando hanno tentato un colpo di mano analogo a questo e son stati sconfitti proprio sul terreno referendario.
Ci voleva un partito che si giovasse di un’etichetta di centrosinistra, per fare il lavoro sporco, dividendo quel “partito costituzionale” culturalmente trasversale e socialmente diffuso che finora aveva sempre compattamente, nei momenti cruciali, protetto il Paese da ogni eversione e da ogni sovversione, per tentare di isolarne la componente più rigorosa, per andare, insieme ai poteri più antipopolari, alla resa dei conti.
A volte vengo criticato con una punta di ironia per il ricorso a termini desueti, che qualche sensibilità avverte come un po’ antistorici.
Ma lo uso ugualmente, questo termine.
Patriottismo.
E in particolare “patriottismo costituzionale”.
Chi voterà SI voterà contro gli interessi generali dei cittadini, della Repubblica, della democrazia.
Non ci son più spazi per accedere a un piano astrattamente tecnico di confronto.
Quella strada l’abbiamo percorsa fino in fondo, con pacatezza e con diligenza persino commovente, talvolta, da parte di persone chiamate a cimentarsi con temi giuridici complessi, ai quali molte di loro non erano aduse.
Tutti gli argomenti del SI sono stati smontati.
Non erano e non sono sostenibili e i loro sostenitori hanno ormai rinunziato ai temi di merito per ripiegare sul populismo, sull’antipolitica, sulla menzogna più spudorata, sull’evocazione di destabilizzazioni che sarebbero improbabili, se non se ne creassero le condizioni nel momento stesso in cui le si agita e le si brandisce come mazze per aggravare il clima del confronto.
Dire NO è diventata questione di emergenza nazionale.
NO all’avventura, NO al condizionamento della vita pubblica da parte dei i poteri finanziari, NO alla rivincita dei nemici della Costituzione.
Il 4 dicembre difendiamo la Repubblica.
30 Novembre 2016