Nella foto: il segretario del Partito democratico metropolitano di Milano Pietro Bussolati.
di Gianni Barbacetto
A Milano ha vinto il sì. È l’unica grande città italiana che al referendum ha dato credito alla proposta di Matteo Renzi. Come ogni cosa, anche questa può essere letta da due opposti punti di vista. La prima è quella del Pd milanese, che gioisce per il successo locale e lo spiega così: “A Milano ha vinto il sì perché siamo stati capaci di far discutere la città sul merito della riforma”, garantisce il segretario del Partito democratico metropolitano Pietro Bussolati. “La città si conferma il punto più all’avanguardia nell’innovazione politica”. Isola felice in una città metropolitana, in una regione, in un’Italia che sceglie invece a maggioranza il no. Hanno sbagliato tutti gli altri, noi siamo più avanti, sembra dire Bussolati, siamo “all’avanguardia nell’innovazione politica”.
Giudizio legittimo; che non tiene però conto di alcuni elementi. Il primo è che è difficile affermare che la minoranza che a Milano ha votato sì lo abbia fatto ragionando e dando un giudizio positivo sulla riforma di Renzi, mentre, chissà perché, la maggioranza che ha votato no nel Paese l’ha fatto non scegliendo nel merito ma per pura prevenzione antirenziana. In realtà, il giudizio sulla riforma costituzionale e quello su Renzi si sono incrociati e sovrapposti tra i votanti del no come in quelli del sì. E a dare retta all’aria che tirava a Milano prima del voto, il sentimento prevalente era: “La riforma non è un granché, ma dobbiamo votare sì per garantire la continuità del governo, la sopravvivenza di Renzi, la stabilità dei mercati”. Altro che “far discutere la città sul merito della riforma”.
Il secondo elemento su cui riflettere è la distribuzione del voto a Milano. C’è un parallelo tra il sì e il voto al Pd alle ultime elezioni amministrative: vincono senza problemi nei quartieri del centro, mentre nelle periferie nord (Quarto Oggiaro, Musocco, Niguarda eccetera) e sud (Rogoredo eccetera) prevale il no. Si ripropone la divisione tra la Milano di via Montenapoleone e piazza Gae Aulenti, una città soddisfatta, ricca, occupata, scolarizzata e avanti con gli anni, che in prevalenza ha votato Giuseppe Sala sindaco e poi, il 4 dicembre, sì al referendum; e quella delle periferie e dei giovani che rifiutano l’establishment e non perdono occasione per dire no al potere, sia quando si presenta con il volto sorridente e rassicurante del sindaco-commissario di Expo, sia quando il sorriso è quello del presidente del Consiglio che prometteva una riforma al mese.
Milano non è solo la più grande città del Paese per ricchezza prodotta. È anche il laboratorio politico in cui nascono fenomeni destinati a consolidarsi nel Paese. Ed è la città più sensibile d’Italia ai discorsi sulla governabilità, sull’equilibrio, sulla stabilità, in nome dei daneé da conservare, dei soldi da moltiplicare, del potere da accrescere. A Milano si è affermato un banchiere che si chiamava Michele Sindona, che insegnava ai milanesi come non pagare le tasse (e, già che c’era, riciclava i soldi di Cosa nostra). A Milano è nato il craxismo, poi il bossismo, poi il berlusconismo. A Milano, proprio nel centro, collegio 1, veniva eletto il senatore Marcello Dell’Utri, ora in carcere per i suoi rapporti con la mafia.
I suoi elettori si sono ora convertiti alla “governabilità” di Renzi e al sostegno del sì. Felici del passo avanti. Ma il Pd, invece di gioire acriticamente considerando Milano “all’avanguardia nell’innovazione politica”, forse farebbe bene a interrogarsi perché, in tutta questa modernità, ha conquistato il centro ma ha perso le periferie e i giovani.
Il Fatto quotidiano, 9 dicembre 2016