by Federico Dezzani
L’attentato di Berlino si è attenuto al solito copione: il terrorista, identificato grazie ai documenti rinvenuti sulla scena del crimine, è stato liquidato a distanza di pochi giorni, portandosi nella tomba gli scomodi ed inconfessabili segreti sull’attentato. C’è però una novità di rilievo: il tunisino Anis Amri è stato fermato e poi ucciso dalla polizia italiana, alle porte di Milano. C’è da chiedersi perché questo capitolo della strategia della tensione europea sia iniziato tragicamente in Germania e si sia concluso col lieto in fine in Italia, in un momento di forti tensioni italo-tedesche, ruotanti attorno al salvataggio di MPS ed al futuro dell’eurozona. L’insediamento di Marco Minniti al Ministero degli Interni non lascia dormire sonni tranquilli in vista delle prossime elezioni legislative.
Un assist angloamericano all’Italia, ai danni della Germania?
Il terrorismo che martoria l’Europa da ormai due anni è tanto sanguinario quanto prevedibile. Si potrebbe anzi dire che i diversi attacchi siano una variante dello stesso copione: strage, rivendicazione da parte dell’ISIS grazie alla solerte Rita Katz, rapida identificazione dei terroristi (spesso attraverso i documenti abbandonati sul luogo del crimine), breve latitanza, blitz delle forze dell’ordine che uccidono i terroristi, archiviazione del caso. Il lavoro degli investigatori e della magistratura, che un tempo si protraeva per anni se non per decenni, è stato ormai sostituito da questo schema da b-movie: crimine, caccia al cattivo, sparatoria, morte del cattivo, titoli di coda.
Non fa eccezione la recente strage di Berlino, di cui abbiamo già evidenziato tutte la caratteristiche che consentono di catalogarlo tra gli attentati di matrice ISIS/NATO: dinamica identica a quella di Nizza, concomitanza con l’assassinio dell’ambasciatore Andrei Karlov, attribuzione al Califfato grazie all’israeliana Rita Katz, svolta nelle indagini tramite il provvidenziale rinvenimento della carta d’identità del terrorista, etc. etc.
Il finale non ha riservato sorprese, avverando così la nostra facile profezia: il presunto responsabile dell’attentato, il tunisino Anis Amri, è stato ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia, portandosi nella tomba tutte le preziose informazioni di cui era in possesso. Il fatto che nessuno terrorista sia catturato vivo e portato in un’aula di Tribunale, consente di fare qualche congetturata sulla rete “dell’ISIS”: è un’organizzazione non verticale, caratterizzata cioè da una gerarchia a più livelli come la mafia o la camorra, bensì piatta, dove la manodopera (gli islamisti che compiono gli attentati) sono in diretto contatto con i membri dei servizi segreti occidentali. Ecco perché, a operazione conclusa, devono essere necessariamente eliminati: la loro testimonianza in un’aula di giustizia sarebbe dinamite.
C’è, però, una novità di rilievo nel caso dell’ultimo attentato tedesco: per la prima volta dalla strage di Charlie Hebdo, l’Italia gioca un ruolo di primo piano. Il tunisino è fermato e poi neutralizzato dalla polizia italiana, a Sesto San Giovanni, provincia di Milano: la trama dell’attacco terroristico, iniziata tragicamente a Berlino e proseguita con molti passi falsi da parte della autorità tedesche, si conclude così col lieto finale in Italia. È un caso fortuito, dovuto soltanto al peregrinare di Amri alla ricerca di un riparo, oppure nasconde un messaggio?
Nelle stesse ore in cui il tunisino entrava in Italia per andare incontro al suo destino, la notte tra il 22 ed il 23 dicembre, il governo Gentiloni varava il decreto “salva-risparmio” per la nazionalizzazione di MPS, sperando così di aggirare il salasso del “bail-in”, così caro all’establishment tedesco: “Mps, portavoce Dijsselbloem: aiuti Stato solo dopo bail-in” titola la Reuters nel pomeriggio del 23 dicembre 1. C’è un nesso tra l’uccisione di Anis Amri e la ventilata nazionalizzazione di MPS? È possibile incastonare i due avvenimenti in un unico ragionamento coerente? Crediamo di sì.
Cominciamo col dire che l’epilogo di Anis Amri è, come il resto di questa triste vicenda, riconducibile alla galassia dei servizi segreti: tutto è stato scientificamente pianificato perché il tunisino arrivasse fino a Sesto San Giovanni e lì fosse liquidato in un conflitto a fuoco. La notizia del ritrovamento dei documenti e la conseguente “gigantesca caccia all’uomo” risale alla mattina del 21 dicembre: tutte le forze dell’ordine tedesche e quelle di mezza Europa sono mobilitate per stanare il tunisino.
Ciononostante, Anis Amri riesce ad aggirare i controlli non solo della Germania in pieno stato d’allerta, ma pure quelli di un altro Paese in emergenza terrorismo, la Francia. Anis Amri varca il confine franco-tedesco, si muove indisturbato nel territorio francese e raggiunge la Savoia: c’è da chiedersi se avrebbe potuto fare lo stesso in Austria o Svizzera, dove “l’ISIS” non è così “radicato”. Raggiunta Chambéry, Anis Amri prende nella prima serata del 22 dicembre un treno diretto in Italia e varca un altro confine senza problemi, quello franco-italiano: raggiunge quindi Torino alle 20.30
Si potrebbe dire: Anis Amri ce l’ha quasi fatta a fuggire! La meta del suo viaggio, quella Sesto San Giovanni dove conta forse di trovare rifugio presso la comunità mussulmana locale, è più vicina che mai: ha già percorso 1.500 chilometri e superato due frontiere senza essere scoperto e non dovrebbe certo incontrare ostacoli nell’ultimo miglio. Il tunisino è alla stazione di Milano verso l’una di notte: lì prendo un ultimo treno, quello che lo porta alla destinazione finale. Siamo a Sesto San Giovanni, tre di notte del 23 dicembre: la fuga di Anis Amri, cominciata a Berlino, può dirsi conclusa con successo.
Ed invece il destino, o meglio sarebbe dire i servizi segreti che hanno vegliato su Amri fino a quel momento, gli giocano un brutto scherzo.
“Le tre di notte in piazza I Maggio, zona stazione. Una volante del commissariato viene inviata dopo una chiamata: qualcuno ha udito degli spari” 2: una telefonata anonima, in seguito al rumore di presunti spari, fa correre una volante verso la stazione ferroviaria di Sesto San Giovanni. Immaginiamo la scena: due poliziotti a bordo di una volante, notte fonda, una piazza semi-deserta, qualche immigrato che bazzica la stazione, una richiesta d’intervento per presunti spari.
C’è un uomo che cammina nella Piazza, “una persona sospetta di origine magrebina” 3: come possa un magrebino essere sospetto alla stazione di Sesto San Giovanni, uno tra migliaia, è già un mistero. I due poliziotti comunque lo fermano: “non ho documenti, ma sono calabrese” è la risposta 4. I solerti tutori della legge però non abboccano e chiedono all’uomo di svuotare sul cofano dell’auto il contenuto dello zaino che porta con sé. Scrive Repubblica 5:
“A quel punto Anis Amri, invitato a svuotare lo zainetto, ha infilato la mano dentro il suo bagaglio e ha estratto la pistola con la quale ha cominciato a sparare ferendo alla spalla Christian Movio. A quel punto l’altro agente, Luca Scatà, che era a qualche metro di distanza dal tunisino, ha premuto il grilletto della sua pistola d’ordinanza e lo ha ferito mortalmente. (…). Nello zainetto Anis Amri non aveva nulla di particolare: uno spazzolino, un dentifricio e un sapone da barba. Durante la fuga dalla Germania verso l’Italia si era disfatto anche del suo telefonino.”
Davvero uno strano bagaglio, quello di Anis Amri: ha viaggiato per tre Paesi e per 1.500 chilometri, portando con sé uno zaino contente uno spazzolino, un dentifricio, una schiuma da barba ed una… pistola. Non gli conveniva viaggiare disarmato e spacciarsi semplicemente per uno dei milioni di clandestini che girano per l’Europa senza documenti? Ed il colpo sparato dalla sua calibro 22? Dritto alla spalla dell’agente di polizia, una parte del corpo tutt’altro che vitale, tanto che Christian Movio si farà immortalare, ferito ma sorridente, già la mattina successiva, in un servizio speciale di Repubblica.
Il terrorista, intanto, come i suoi compagni di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Zavantem, di Nizza, etc. etc., è morto e testimoni che possano confermare o confutare la versione ufficiale di quel 23 notte, non ci sono. Nelle stesse ore, il neo-ministro degli Interni, Marco Minniti, darà la conferma: l’uomo ucciso è “senza ombra di dubbio Anis Amri” 6.
Se calcolassimo a tavolino le probabilità di questo evento si verifichi, che risultato avremmo? Uno su 1.000.000, uno su 10.000.000? Una volante, chiamata per presunti spari, ferma un magrebino in una stazione del milanese e, guarda caso, quell’uomo è l’autore della strage di Berlino del 19 dicembre, un fuggitivo che ha già percorso indisturbato 1.500 chilometri e varcato due confini, per poi finire ammazzato nel cuore della notte a Sesto San Giovanni. Crederci, è un atto di fede.
Ad apporre il sigillo dei servizi anglo-israeliani anche sulla morte del tunisino, interviene la solita Rita Katz: il cadavere di Anis Amri è appena arrivato all’obitorio e “l’ISIS”, appreso della sua morte, pubblica attraverso la sua agenzia di stampa Amaq (sic!) un video dove il giovane presta giuramento al Califfato. In sostanza i servizi segreti atlantici dicono: è una nostra operazione, dall’inizio alla fine.
Nelle mattina del 23 dicembre, i principali siti d’informazione non avevano però aperto con i fatti di Milano, bensì con la notizia che il Consiglio dei Ministri aveva varato un decreto “salva-risparmi” da 20 €mld e che la nazionalizzazione di MPS, fallito l’aumento di capitale sul mercato, era ormai imminente: la decisione del governo italiano di entrare con denaro pubblico nel capitale della banca è finalizzata ad evitare l’applicazione del “bail in”, i cui effetti sarebbero esplosivi e, come abbiamo più volte sottolineato, capaci di innescare la dissoluzione dell’eurozona. Il problema è che tra Roma e Bruxelles, o meglio tra Roma e Berlino, non è stata raggiunta nessuna intesa che dispensi l’Italia dall’adozione del “bail in” nel caso di MPS: nel pomeriggio del 23, il portavoce del presidente dell’Eurogruppo, il filo-tedesco Jeroean Dijsselbloem, ribadisce che l’intervento
dello Stato italiano in MPS è subordinato alla preventiva applicazione del “bail in”. “Le regole sono queste” 7 ripetono i falchi teutonici: una vera grana per il governo filo-atlantico di Paolo Gentiloni.
Nella precedente analisi avevamo già evidenziato come la strage di Berlino fosse un avvertimento lanciato dall’establishment euro-atlantico alla Germania, affinché non adottasse politiche tali da portare l’eurozona e l’Unione Europea al collasso. Dopo la guerra economica sferrata contro Volkswagen, e l’assalto speculativo di George Soros a Deutsche Bank, si passa all’artiglieria pesante col terrorismo: la situazione nell’eurozona è infatti critica e le probabilità che l’euro imploda, se Berlino non cede sul “bail in” e sul rigore fiscale, non sono mai state alte come adesso.
Il “finale” della strage di Berlino, con l’uccisione di Anis Amri per mano della polizia italiana dopo il fallimento delle forze dell’ordine tedesche, è coerente con questa interpretazione: la storia dell’attentato del 19 dicembre “racconta” che nel braccio di ferro tra Italia e Germania su MPS e sui conti pubblici, l’establishment euro-atlantico, quello che controlla anche l’ISIS, è dalla parte di Roma contro Berlino, a favore del salvataggio delle banche contro il “bail in”, per la salvaguardia dell’euro contro la sua implosione, per gli Stati Uniti d’Europa contro il ritorno agli Stati sovrani.
A qualcuno sembrerà fanta-politica: ma è un ragionamento coerente e basato sulle dinamiche internazionali sviluppatesi in questi ultimi anni. Servirà la strage di Berlino a piegare la classe dirigente tedesca e ad evitare il “bail in” del Monte dei Paschi di Siena? Considerando i precedenti fallimenti dei casi Volkswagen e Deutsche Bank, la risposta è no.
Concludiamo con una nota: l’ingresso ufficiale dell’Italia nella strategia della tensione targata “ISIS” è coinciso con l’insediamento di Marco Minniti al Ministero degli Interni. Già sottosegretario di Stato del governo Renzi con delega alla sicurezza ed ai servizi segreti, il neo-ministro ha assunto le redini del Viminale con la certezza che un attentato fosse imminente. Scrive Repubblica 8:
Solo martedì scorso, al Viminale, nella riunione del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo, i vertici delle nostre forze dell’ordine e della nostra Intelligence avevano misurato l’urgenza del cambio di passo dalle parole di Marco Minniti, il nuovo ministro dell’Interno che, non più tardi dell’autunno scorso, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla Sicurezza nazionale, avvertiva di quanto fosse “ragionevole l’aspettativa di un nuovo attentato in Europa”.
L’intuizione di Marco Minniti si è rivelata corretta, perché a distanza di due giorni il terrorista di Berlino “è piovuto” in Italia, consentendo così all’Italia di liquidarlo ed infliggere un pesante smacco alle autorità tedesche. L’affiatamento di Minniti con i servizi segreti atlantici risale a decenni addietro: ex-comunista, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi del governo D’Alema, “interventista” convinto a fianco della NATO durante le guerre di Jugoslavia, Afghanistan e Libia, entrato nell’orbita di Francesco Cossiga (il ministro degli Interni ai tempi del sequestro Moro), con cui ha dato vita alla fondazione Intelligence Culture and Strategic Analysis, Minniti è tra i massimi esperti italiani “di intelligence”. È, tradotto in poco parole, l’uomo cui i servizi angloamericani ed israeliani passano le direttive, poi trasmesse al governo di turno.
C’è da augurarsi che l’episodio di Sesto San Giovanni sia un caso isolato e non sia il prodromo, piuttosto, di una più ampia strategia della tensione in vista delle prossime elezioni. Gestita dal Viminale, obviously
24 dicembre 2016