Compagne e compagni di iskrae.eu e della Sezione comunista Gramsci-Berlinguer di Pisa, Milano e del resto del paese, leggete e diffondete la cultura giuridico costituzionale comunista. Importante testo di Gaetano Bucci in ricordo del compagno Salvatore d’Albergo.
Parlamentarismo senza parlamento: a proposito dell’attacco al bicameralismo perfetto*
Gaetano Bucci**
1. Revisione costituzionale e forma di stato: violare il “divieto del discorso sui fini” prescritto dalla cultura “postdemocratica” dominante. 2.Forma di stato, forma di governo e sistema elettorale nell’impianto unitario della Costituzione italiana. 3. Le ambiguità e le insidie della revisione della forma di governo parlamentare
1. Revisione costituzionale e forma di stato: violare il “divieto del discorso sui fini” prescritto dalla cultura “postdemocratica” dominante
Nell’ultimo ventennio le forze politiche di “centrodestra” e di “centrosinistra” hanno avanzato incessantemente proposte di riforma costituzionale1, asserendo che fossero indispensabili per adeguare l’ordinamento nazionale alle evoluzioni dell’ordinamento dell’UE e specie alle nuove regole della governance economica considerate a loro volta necessarie per affrontare adeguatamente le «sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie».
Nella Relazione introduttiva al disegno di legge di revisione costituzionale (AS 1429), si legge infatti che la «stabilità dell’azione di governo» e l’«efficienza dei processi decisionali» costituiscono «le premesse indispensabili per agire, con successo, nel contesto della competizione globale»2.
Si deve rilevare a questo proposito, come le proposte di revisione presentate nel corso delle precedenti legislature che perseguivano similmente l’obiettivo di potenziare la “governabilità istituzionale” e la “stabilità economica” come condizioni necessarie per affrontare le dinamiche dei mercati concorrenziali3, abbiano mirato a depotenziare il ruolo “centrale” del Parlamento4 al fine di predisporre «un quadro di comando verticale» svincolato dagli ostacoli della dialettica sociale5 e quindi dalle istanze considerate incompatibili con le strategie dei «mercati finanziari»6 e delle «grandi agenzie internazionali»7.
Nel valutare l’attuale proposta di superamento del “bicameralismo paritario” non si può tuttavia non rimarcare come le complesse questioni da essa evocate, siano state già affrontate e risolte dai Costituenti in una prospettiva opposta a quella del rafforzamento dell’esecutivo e della stabilità del governo, ossia nella prospettiva della valorizzazione del ruolo delle forme organizzate del pluralismo sociale e politico e specie dei partiti considerati come strumenti di partecipazione dei cittadini alla determinazione degli indirizzi concernenti l’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, 2° co., C.).
La Costituzione ha infatti riconosciuto piena rilevanza all’esigenza di garantire alle minoranze spazi di effettiva agibilità nel Parlamento per porle in condizione di svolgere un ruolo attivo non solo nella fase elettorale, ma anche e soprattutto nella fase di determinazione della politica nazionale (art. 49 C.).
L’approvazione di un ordine del giorno favorevole al sistema proporzionale (o.d.g. Giolitti), testimonia del resto l’avversione dei Costituenti per il sistema maggioritario che nelle fasi precedenti si era rivelato inidoneo «a fare entrare nelle istituzioni le molteplici voci del Paese e a farle contare nella formulazione e nella attuazione dell’indirizzo politico». La rappresentatività delle istituzioni fu considerata pertanto come «la chiave per cogliere in modo continuo e ravvicinato i bisogni» della collettività e quindi come l’unico strumento capace di «consolidare le fragilità del sistema politico»8.
Sulla base di queste premesse, i Costituenti hanno scelto di superare la «storica contrapposizione tra Camera “alta” e Camera “bassa”» per introdurre la peculiare innovazione del sistema bicamerale “paritario” caratterizzato dall’elettività dei deputati e dei senatori e dall’eguaglianza delle funzioni delle due Camere , perché fondato sul principio unificante della sovranità popolare che implica un “coordinamento” e non una separazione tra i poteri», il quale deve essere svolto da un Parlamento posto al “centro” «non solo del sistema delle assemblee elettive ma anche del complessivo sistema istituzionale, compresi quindi il Governo e il Presidente della Repubblica»9 .
I Costituenti non hanno ritenuto inoltre di fissare limiti stretti in relazione al numero dei componenti delle Camere, perché consapevoli del fatto che «la riduzione del numero dei parlamentari» restringe le «possibilità di scelta» e quindi gli «spazi della rappresentanza», rischiando di escludere «dalla sfera pubblica» le voci dei cittadini, specie «quelle più scomode per i poteri politico-economici dominanti»10.
Essi non considerarono pertanto prioritarie le esigenze connesse alla efficienza e alla rapidità delle decisioni rispetto a quelle del pluralismo politico, sociale e istituzionale, perché ritennero che «la forza del Parlamento» in un sistema democratico derivasse principalmente dalla «sua capacità di rappresentanza»11.
Non si può non considerare in proposito, come la proposta di riduzione del numero dei parlamentari penalizzerebbe vieppiù la rappresentanza perché – ove approvata – verrebbe ad inserirsi nel quadro di «un sistema partitico […] coerente con una formula elettorale fortemente sbilanciata in senso maggioritario»12 e quindi «incentrato su due partiti o coalizioni tendenzialmente convergenti verso il centro» che esprimono «per lo più […] gli interessi socio-economici più forti»13.
La costruzione di un Parlamento «più autorevole, coeso ed efficiente» avverrebbe pertanto «grazie all’esclusione di una parte dei rappresentati dalla sfera della rappresentanza e della scelta politica»14.
Si comprende pertanto come le esigenze della governabilità non coincidano necessariamente con quelle della democrazia, ma possano anzi provocarne una regressione, specie quando acuiscono «il distacco rispetto alla rappresentanza e sacrificano il pluralismo reale e potenziale»15.
La proposta di revisione non pone soltanto la questione della riduzione della rappresentanza16, ma quella più ampia della compatibilità fra «un modello […] di governo che individua come proprio asse paradigmatico l’efficienza nella decisione» e la forma di stato democratico-sociale fondata sul principio della partecipazione effettiva «di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, 2° co., C.)17.
La proposta di riduzione del numero dei parlamentari appare pertanto coerente con la ratio complessiva del disegno di legge costituzionale che mira a rafforzare il ruolo del Governo «all’interno della prospettiva efficientistica e tecnocratica che domina la scena europea»18.
Le modalità adottate per la discussione e l’approvazione19 in prima lettura del disegno di legge costituzionale, hanno rivelato del resto come i “nuovi costituenti” considerino la democrazia come un «impaccio»20 o come «una pietra di inciampo che spezza il circolo potere-finanza»21.
La stessa «insofferenza» nei riguardi delle «forme politiche costruite dall’Europa nei secoli della sua storia»22 è stata espressa dai poteri economici in un report elaborato dagli analisti della banca d’affari statunitense JP Morgan (28 maggio 2013)23 che sollecita gli Stati a disfarsi delle Costituzioni adottate dopo la sconfitta del nazi-fascismo perché fondate su concezioni «socialiste […] inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea » e specie la realizzazione delle politiche di austerità considerate indispensabili per la soluzione della crisi.
Il documento evidenzia come le Costituzioni del secondo dopoguerra possiedano «limiti intrinseci» non solo di «natura economica», ma anche «politica», quali l’esistenza di «esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti», di «governi centrali deboli nei confronti delle regioni», di «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori» e di strumenti di controllo che consentono di contrastare le «proposte di modifica sgraditedello status quo».
Queste caratteristiche avrebbero impedito ai «Paesi della periferia» di realizzare pienamente le «riforme economiche e fiscali» prescritte per il ripianamento dei “debiti sovrani”, che sono stati in realtà prodotti dagli interventi pubblici di salvataggio delle banche e delle imprese responsabili della crisi24.
Per queste ragioni, gli analisti della JP Morgan, ritengono che i governi debbano svolgere un ruolo di “superburocrati” finalizzato a garantire l’applicazione delle “misure di rigore” prescritte dalle istituzioni tecnocratiche sovranazionali e internazionali (BCE; FMI)25.
Sin dagli anni novanta del Novecento si è perseguito del resto l’obiettivo di «autonomizzare le istituzioni politiche dal terreno sociale e dai suoi conflitti», affinché potesse applicarsi, senza ostacoli, il «paradigma governamentale con tutti i suoi corollari autoritari e familistici compreso il proliferare delle logiche mafiose di appartenenza» che dominano ormai in ogni ambito istituzionale26.
Si è assistito, pertanto, alla «paralisi della rappresentanza», al «congelamento della competizione politica», alla «perdita di significato delle promesse e dei programmi elettorali», all’affermarsi della logica della «condivisione e delle larghe intese» e al «predominio del governo nella sua versione tecnica ed esecutiva di volontà […] sovrastanti», ossia all’emergere di quei fenomeni sintetizzabili «nell’espressione “postdemocrazia”, che può assumersi nel significato di «divieto del discorso sui fini”»27.
La rimozione del discorso sui fini della forma di stato ha provocato infatti l’erosione dei fondamenti «del vivere comune», generando una fase politica «decostituzionalizzata» dominata dai «rapporti di forza» legittimati con le categorie dello «stato di necessità» e della «costituzione materiale»28. Ci troviamo pertanto dinanzi ad una “svolta autoritaria”29, che sembra riportarci ai primordi dello stato liberale ottocentesco30.
Il disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi costituisce il punto di approdo di questi processi, perché mira «a costituzionalizzare l’assetto più idoneo alla gestione oligarchica delle dinamiche economico-sociali» com’è comprovato dal fatto che «il governo […] persevera con un sovrappiù di populismo, nelle politiche pro-cicliche dei predecessori» (precarizzazione; tagli alla spesa; aumento della pressione fiscale sul lavoro), che provocano l’aumento della povertà e della disoccupazione, nonché la «disgregazione dell’apparato produttivo e del sistema formativo»31.
Si tratta, quindi, di una «riforma fondamentalmente conservatrice» che mira a stabilizzare la «lunga regressione che ha qualificato l’ultimo ventennio politico», contrassegnato da processi di «forte verticalizzazione del potere»32.
Se si vuole conseguire pertanto una consapevolezza critica33 sulle motivazioni reali che sorreggono la proposta di revisione avanzata dal Governo34 per rilanciare su tale base una «politica costituzionale»35 coerente con il senso e la direzione del programma di trasformazione economica e sociale recepito dall’art. 3, 2° co., C., occorre violare il «divieto del discorso sui fini» imposto dalla cultura “post-democratica”36 dominante e riaprire una riflessione sulle ragioni37 che indussero i Costituenti a superare sia il modello “autoritario” dello stato liberale, sia quello “totalitario” dello stato fascista-corporativo per fondare un modello di democrazia sociale incentrato sulla sovranità del popolo lavoratore38.
La discussione su un disegno di legge costituzionale che mira a modificare radicalmente il ruolo e la struttura del Parlamento, non può pertanto essere affrontata soltanto confrontando la validità dei modelli istituzionali considerati più idonei a potenziare l’efficienza dei processi decisionali39, ma richiede una riflessione sul ruolo che nella fase attuale si vuole attribuire al Parlamento della Repubblica democratica fondata sul lavoro, ossia a quell’organo costituzionale che «dopo il disastro dittatura fascista» è riuscito a conferire una nuova legittimazione allo Stato garantendo l’espressione del «confronto» e del «conflitto»40, considerato come il «sale della democrazia»41
Nell’affrontare questa riflessione non bisogna però dimenticare che la forma di governo è posta al servizio dei fini perseguiti dalla forma di stato e che pertanto le revisioni della Seconda Parte devono potenziare e non stravolgere i Principi fondamentali e le previsioni della Prima Parte della Costituzione42.
I costituzionalisti pur riconoscendo l’unitarietà dell’impianto costituzionale tendono tuttavia a non utilizzare come criterio di analisi la categoria della forma di stato, per evitare il rischio di doversi pronunciare sulla filosofia politico-sociale ad essa sottesa, travalicando così i confini del proprio ambito disciplinare.
Per salvaguardare una presunta purezza metodologica si finisce pertanto col ripiegare su una linea difensivistica che si traduce in proposte emendative, le quali finiscono però col legittimare le strategie controriformatrici che puntano a manipolare la forma di governo parlamentare per giungere a neutralizzare i principi di democrazia politica, economica e sociale posti a fondamento della Costituzione.
Un’analisi esaustiva delle proposte di revisione della forma di governo non può prescindere pertanto dalla considerazione dei principi e dei fini perseguiti dalla forma di stato e quindi dei “rapporti di classe” che condizionano il loro inveramento43.
Nei Principi fondamentali i Costituenti hanno voluto sintetizzare infatti le ragioni fondative dell’impianto costituzionale, che costituiscono ancora oggi l’epicentro intorno a cui si esprimono i conflitti sociali, i quali condizionano – in senso progressivo o regressivo – le vicende dell’ordinamento.
2.Forma di stato, forma di governo e sistema elettorale nell’impianto unitario della Costituzione italiana
Nella Costituzione repubblicana forma di stato, forma di governo e sistema elettorale sono stati concepiti come parti di un disegno organico e connessi in modo tale da potenziare il processo di emancipazione sociale delineato nei Principi fondamentali e nella Prima Partedella Costituzione.
In questo contesto risulta fondamentale la previsione di una forma di governo imperniata sul primato del Parlamento, in quanto organo recettivo delle istanze espresse dal pluralismo sociale e politico organizzato nelle formazioni di base, nei sindacati e nei partiti di massa44.
La centralità del parlamento presuppone tuttavia l’adozione di un sistema proporzionale “puro” idoneo a garantire la piena estrinsecazione della sovranità popolare45. Non a caso il processo di erosione dei fondamenti della democrazia-sociale è stato contrassegnato da un ripetuto attacco al sistema proporzionale: dal tentativo democristiano di introdurre la “legge truffa-maggioritaria” (1953), all’adozione del Mattarellum (1993) e in seguito del Porcellum (2005), rivelatosi peggiore della stessa “legge truffa”46.
Se dunque è vero che la scelta del sistema elettorale condiziona le caratteristiche della forma di Stato e della forma di governo, si possono comprendere le ragioni per cui i Costituenti hanno considerato il sistema proporzionale non come un mero meccanismo di traduzione dei voti in seggi, ma come lo strumento necessario per imprimere l’impulso al processo di trasformazione dei rapporti politici, economici e sociali nella direzione indicata dall’art. 3, 2° co., C.
Il metodo proporzionale – legittimato dall’“o.d.g. Giolitti”47 – fu infatti adottato per l’elezione dell’Assemblea costituente e in seguito per l’elezione del primo Parlamento repubblicano, perché venne riconosciuto come lo strumento più idoneo per collegare, in modo coerente, il suffragio elettorale al ruolo dei partiti di massa, del Parlamento e delle assemblee elettive locali in una prospettiva di collaborazione unitaria fondata sui valori e sui fini della Costituzione. Esso fu adottato in seguito per le elezioni dei Comuni, delle Province, delle Regioni, perché ritenuto conforme alla concezione di uno “stato-comunità” incentrato sul principio della “sovranità popolare”.
Il principio proporzionalistico costituisce lo strumento per realizzare in modo integrale il valore del pluralismo sociale, politico e istituzionale48 e rappresenta pertanto un principio “generale” espressivo dell’essenza del nostro ordinamento, come si desume dal fatto che risulta richiamato in varie disposizioni costituzionali e specie nell’art. 39 C. volto a potenziare il pluralismo sindacale.
Nel corso degli anni sessanta e settanta del Novecento, la cultura della “governabilità”, pur evocata dall’“o.d.g. Perassi”49, non riuscì a radicarsi proprio a causa della spinta impressa dal sistema proporzionale al protagonismo delle forze politiche e sociali, che riuscirono a rendere il Parlamento sede di elaborazione e di approvazione di indirizzi politico-economici definiti nel quadro della “programmazione globale” dell’economia.
Solo il sistema proporzionale puro riesce infatti a dare espressione alle variegate forme della sovranità popolare anche dopo lo svolgimento delle elezioni, com’è dimostrato dal fatto che è riuscito a garantire per una lunga stagione la democraticità del sistema, nonostante gli effetti della cd. conventio ad exludendum stipulata fra le forze di maggioranza per escludere i comunisti dal governo della Repubblica.
Il sistema proporzionale puro si contrappone pertanto sia al metodo uninominale-maggioritario ad uno o due turni (usato in Gran Bretagna, negli Usa e in Francia), sia ai c.d. “modelli misti” fondati su sofisticate commistioni tra criteri maggioritari e criteri proporzionalistici che risultano tuttavia “manipolati” per rispondere alle “convenienze” dei gruppi di potere.
Se muoviamo quindi dai caratteri della forma di stato e della forma di governo delineati dalla Costituzione, non possiamo non constatare come siano da considerarsi incostituzionali in quanto lesivi dei principi della democrazia e del pluralismo, sia il c.d. “mattarellum” che prevede una ripartizione “maggioritaria” di tre quarti dei seggi conquistati con il metodo “uninominale” e una ripartizione di un quarto dei seggi conquistati con il metodo “proporzionale”, sia il c.d. “porcellum” che sortisce un esito “maggioritario” esorbitante perché prevede un “premio” idoneo a duplicare i seggi acquisiti con una vittoria di stretta misura50.
Parimenti incostituzionale appare il disegno di legge in materia elettorale concordato nell’ambito del patto Renzi-Berlusconi che senza considerare le indicazioni contenute nelle motivazioni della sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale, fa rivivere le previsioni del “porcellum” sia pur aggravate dal fine di garantire gli interessi contingenti degli “stipulanti”51.
La Corte costituzionale ha stabilito invece che «il principio di eguaglianza del voto» costituisce un «principio fondante della nostra Costituzione», il quale esige che nel «circuito democratico definito dalla Costituzione», l’esercizio dell’elettorato debba avvenire «in condizioni di parità, poiché ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari dignità alla formazione degli organi elettivi» (v. sent. CC. 43/1961)52.
Le previsioni del “porcellum” producono invece «una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica che è al centro della forma di governo parlamentare e la volontà dei cittadini espressa mediante il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare secondo l’art.1, 2° co., della Costituzione» (v. sent. CC. 1/2014)53.
Per la Corte la «stabilità» costituisce quindi un «obiettivo legittimo», ma non un «fondamento» dello stato democratico e non può pertanto legittimare «una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare» (v. sent. CC. 1/2014).
Se il disegno di legge in materia elettorale frutto dell’accordo Renzi-Berlusconi – che fa rivivere sia pur peggiorate le previsioni del “porcellum” – fosse approvato, si assisterebbe alla reiterazione di un «colpo di stato […] tutte le volte che il corpo elettorale sarà chiamato a votare» perché verrà «ogni volta vilipeso, truffato e ripudiato» un «principio fondante della Costituzione, dello stato di diritto, della democrazia e della civiltà giuridica», ovvero il principio di libertà e di eguaglianza del voto sancito dall’art. 48, 2° co., C.54
Il disegno di legge presentato dal Governo viola infatti sia il principio della “libertà di voto” perché prevede le “liste bloccate”, sia quello di eguaglianza perché prevede un “premio di maggioranza” esorbitante che potrebbe consentire «a una lista che ha raggiunto il 30% dei voti […] di ottenere il 53% dei seggi, sottraendoli alla rappresentanza dei due terzi degli elettori»55. A ciò si aggiunga, la previsione di “soglie” di entità altrettanto abnorme da vanificare «i voti di milioni di elettori che non si riconoscono in nessuna delle due aggregazioni supposte maggiori»56.
Il “mattarellum”, il “porcellum” e il “renzusconum”57 si pongono quindi nel solco tracciato dalla “legge truffa” con cui le forze controinteressate all’attuazione della Costituzione tentarono già cinque anni dopo la sua entrata in vigore, di porre le premesse per un passaggio ad una “democrazia autoritaria”, definita oggi «governante» perché ritenuta capace di «tenere il passo con i nuovi ritmi e i nuovi modelli imposti dalla globalizzazione»58.
3.Le ambiguità e le insidie della revisione della forma di governo parlamentare
Il “potere costituentesco alla rovescia”59 dopo aver inferto alla forma di governo un rilevante vulnus con la revisione del Titolo V – che ha introdotto una sorta di “pseudo-federalismo” considerato prodromico ad un “presidenzialismo” (recte: premierato assoluto) respinto in seguito dal pronunciamento referendario del 2006 – continua a condurre la sua “guerra di posizione” sui due fronti della riforma elettorale e della riforma costituzionale che convergono verso il medesimo obiettivo, ossia quello di stravolgere le caratteristiche del modello costituzionale prefigurando un passaggio da «un sistema basato sulla rappresentanza e sulla centralità del Parlamento» a «un sistema basato sull’investitura del Capo politico e sulla centralità del Governo» e da «un sistema basato sulla distribuzione e l’equilibrio dei poteri ad un sistema basato sulla concentrazione dei poteri nelle mani del Capo politico», nonché «sull’indebolimento delle istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale e Magistratura)»60.
Il processo di controriforma è stato sostenuto da «una vera e propria offensiva culturale» che propugnando la riduzione dei “costi” e degli “sprechi” della “casta” è riuscita a porre la questione del superamento del bicameralismo paritario nei termini di una «sfida risolutiva tra conservazione e innovazione», ossia tra coloro che difendono «i privilegi e gli stipendi dei senatori» e coloro che propugnano «un Senato senza costi e senza indennità», non considerando come «in questa morsa […] rischino di essere stritolati […] gli istituti della politica e della democrazia»61 .
La proposta di riforma del Senato non mira infatti a introdurre un sistema “monocamerale” per rafforzare la sovranità popolare, ma ad alterare – con l’introduzione del “Senato delle autonomie” – la configurazione unificante del rapporto “sovranità-rappresentanza” delineata dall’art. 55 C. unitamente ai «delicati congegni di architettura istituzionale delineati dalla Costituzione repubblicana»62.
Nel discorso programmatico rivolto alle Camere il Presidente del Consiglio Letta, seguendo le sollecitazioni del Presidente della Repubblica Napolitano, sostenne che le riforme istituzionali si sarebbero dovute ispirare ai principi della «democrazia governante» ed indicò come obiettivo prioritario dell’azione di governo il superamento del bicameralismo paritario al fine di «snellire il processo decisionale», proponendo di attribuire «ad una sola Camera il compito di conferire o revocare la fiducia al Governo» e all’altra Camera (il“senato delle autonomie”) delle competenze differenziate63.
La proposta di revisione avanzata dal Governo Renzi si colloca nella prospettiva delle proposte precedenti, ossia in una prospettiva di «estremismo revisionista che sfocia nell’assolutismo maggioritario», perché non svuota soltanto il potere di un ramo del Parlamento, ma distorce la rappresentanza, ponendola al servizio di un «premierato assoluto con tensione alla monocrazia»64.
Essa prevede il passaggio da «una Camera elettiva» ad un organo che, nella versione originaria del disegno di legge costituzionale è denominato «Senato delle Autonomie» e risulta composto «da membri di diritto, eletti di secondo grado e nominati dal Capo dello Stato»65 (v. art. 2 ddlc. Renzi-Boschi), mentre nella versione approvata dal Senato, viene ridenominato «Senato della Repubblica» e risulta composto da «novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali» eletti dai Consigli regionali «fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori», nonché da «cinque senatori […] nominati dal Presidente della Repubblica».
In ambedue le versioni il Senato è però escluso dal circuito fiduciario e privato comunque «di ogni rilevante ruolo costituzionale entro la complessiva forma di governo», dovendo limitarsi «a esprimere pareri sulle leggi già approvate» che possono tuttavia essere superati facilmente dalla Camera, «essendo richiesta al massimo la maggioranza assoluta, vale a dire un quorum facilmente raggiungibile», specie se dovesse essere approvata «una riforma altamente distorsiva dei risultati elettorali […] come quella in discussione al Senato», che assegnerebbe la maggioranza assoluta alla singola lista o alla coalizione di liste che è riuscita ad ottenere il premio66.
Nella versione originaria della proposta di revisione si prevede che «le leggi di revisione della Costituzione e la altre leggi costituzionali» (v. art. 8 ddlc. Renzi-Boschi) restino di competenza bicamerale, mentre nella versione approvata dal Senato in prima lettura, dovrebbero rientrare nella suddetta competenza anche le «leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di referendum popolare», le «leggi che autorizzano la ratifica dei Trattati relativi […] all’Unione europea», le «leggi che danno attuazione all’art. 117, secondo comma, lett. p)» e la «legge di cui all’articolo 122, primo comma», oltre agli «altri casi previsti dalla Costituzione».
Sulla base di tali caratteristiche, si può quindi comprendere come la proposta di revisione si muova in una direzione opposta rispetto alle proposte avanzate dai Costituenti social-comunisti e rivendicate ancor oggi dal costituzionalismo democratico67 che puntano a rafforzare il processo di espansione della sovranità popolare non solo nei rapporti sociali ed economici ma anche in quelli politici e istituzionali.
I rappresentanti social-comunisti, ritenendo che all’unicità della sovranità dovesse corrispondere l’unicità della rappresentanza, proposero l’istituzione di una sola Camera per evitare una segmentazione del corpo elettorale sulla base di criteri che reputavano artificiosi, quali quelli della “rappresentanza degli interessi corporativi” o della “rappresentanza (diretta o indiretta) degli enti territoriali”.
Non riuscendo a superare la pregiudiziale dei bicameralisti contrari al cd. “governo di assemblea”, conseguirono tuttavia l’obiettivo di ottenere l’elezione a “suffragio diretto e universale” dei deputati e dei senatori (chiamati entrambi a “rappresentare la Nazione”) e la parificazione del ruolo delle Camere nel processo di elaborazione degli indirizzi legislativi finalizzati a rispondere alle istanze delle forme organizzate della sovranità popolare (artt. 1 e 49 C.).
Il disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi non mira a superare il bicameralismo per concentrare in una Camera sola la forza della rappresentanza, ma punta invece ad estromettere il Senato dal circuito politico-istituzionale con gli altri organi in ossequio ad un orientamento sconfitto in sede costituente propenso ad assegnargli una funzione “burocratico-corporativa”.
Lo scopo prioritario della proposta di revisione è tuttavia quello di eliminare una «istituzione rappresentativa»68 per sostituirla con un organo pletorico, «fragile e politicamente inutile»69 che sarà composto non più da «rappresentanti della Nazione», ma da «“mandatari” di enti regionali e comunali» irresponsabili nei confronti del «corpo elettorale» e quindi della sovranità popolare «dalla quale soltanto può derivare la rappresentanza politica»70.
Si può comprendere quindi come il bicameralismo possieda un senso solo se concepito in modo “paritario”, altrimenti in coerenza con la forma di stato recepita dalla Costituzione, si dovrebbe introdurre il sistema monocamerale come traduzione istituzionale del principio dell’unitarietà e dell’indivisibilità della sovranità popolare71, respingendo di conseguenza quelle proposte di riforma ispirate ad una “governabilità” antitetica alla “rappresentatività”, che vengono non a caso rilanciate nelle fasi di crisi allo scopo di favorire restaurazioni di tipo autoritario/plebiscitario funzionali alla garanzia dei profitti e delle rendite delle imprese industriali e finanziarie.
La proposta di revisione appare diretta quindi a imprimere «al sistema nel suo complesso […] una torsione fortemente maggioritaria e centrata sull’esecutivo», sminuendo drasticamente «i poteri del Parlamento, cui lo stesso Governo dovrebbe essere sottoposto per la fiducia, il controllo e la vigilanza»72.
Il predominio del Governo sul Parlamento è stato sancito in modo incisivo nel sesto comma dell’art. 12 del disegno di legge costituzionale che modifica l’art. 72 della Costituzione.
La norma attribuisce infatti al Governo la possibilità (recte: il potere) di chiedere alla Camera che «un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo, sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto a votazione finale entro sessanta giorni dalla richiesta»73.
Risulta evidente come questa previsione che rafforza le prerogative del Governo e comprime quelle del Parlamento, incida profondamente sugli equilibri costituzionali»74, distorcendo gravemente la forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione.
L’attacco alla democrazia sociale trova in questa previsione il proprio compimento, perché la sanzione del primato del governo sul parlamento nel processo di elaborazione degli indirizzi politico-legislativi aggiungendosi all’introduzione del principio del pareggio di bilancio, determina la piena integrazione fra la “governabilità istituzionale”75 e la “stabilità economica”76 che ripristina il nesso di compenetrazione organica fra lo stato-apparato e gli interessi economico-finanziari, su cui si incardinava lo stato liberale e lo stato fascista-corporativo77.
L’istituto del “voto a data certa” introdotto dal disegno di legge costituzionale, evoca del resto la cultura istituzionale sottesa alla previsione dell’art. 6 della Legge 24 dicembre 1925, n. 2263 che condizionava gravemente l’autonomia del Parlamento, attribuendo al Capo del Governo il potere di determinare la formazione dell’ordine del giorno delle Camere78.
Per contrastare questi processi di degenerazione istituzionale che nella fase della crisi capitalistica globale, si intrecciano con profondi processi di destabilizzazione sociale, si dovrebbe riprendere un percorso di lotta sociale e politica che assuma i principi fondamentali della Costituzione come assi di un processo di democratizzazione e socializzazione dell’organizzazione pubblica e privata del potere.
1*Questo scritto è dedicato alla memoria del professore Salvatore d’Albergo.
** Ricercatore confermato di Diritto pubblico nell’Università degli studi di Bari.
A. BURGIO, Il mantra mediatico delle riforme, il manifesto, 26 giugno 2014, osserva come nella fase della restaurazione neo-liberista, il concetto di “riforma costituzionale” sia stato utilizzato paradossalmente per indicare i vulnus alle conquiste di civiltà ottenute con le Costituzioni del secondo dopoguerra. Sul punto, cfr. anche L. CARLASSARE, Così si strozza la democrazia, intervista a cura di C. LANIA, in il manifesto, 25 luglio 2014. G. MONTEDORO, Mercati, democrazia e potere costituente: categorie giuridiche e necessità storica del cambiamento, in www.apertacontrada.it ritiene che dinanzi agli esiti disastrosi della crisi, la dottrina dominante dovrebbe avviare una riflessione critica sulle categorie neo-liberiste (governabilità, stabilità economica, ecc.) che per un trentennio hanno ostacolato la realizzazione dei progetti di emancipazione sociale recepiti dalle Costituzioni democratico-sociali, ponendo le premesse per l’avvento di una fase contrassegnata da una grave recessione e da una profonda destabilizzazione sociale. Il Presidente della Repubblica G. Napolitano, in una lettera pubblicata sulla rivista Reset del 28 dicembre 2014 (www. reset.it), ha sostenuto invece che le «sfide della competizione globale» impongono «una profonda […] operazione di riduzione della spesa pubblica» funzionale alle esigenze del «mercato» e dell’iniziativa privata. Il Presidente della Bce M. Draghi, dal suo canto, ha sollecitato gli Stati membri dell’UE a completare le “riforme strutturali” ritenute essenziali ai fini della soluzione della “crisi dei debiti sovrani”, anche se dovessero implicare ulteriori «cessioni di sovranità» (cfr. A. INDINI, Draghi getta la maschera: “Gli Stati cedano sovranità”, in www.ilgiornale.it, 8 agosto 2014). Il Presidente del Consiglio Renzi, ha interpretato «le parole di Draghi» come «le migliori risposte ai critici della riforma del senato», ribadendo la volontà di “riordinare” il Paese al fine di renderlo “maggiormente competitivo”. M. VILLONE, Renzi quando finisce una favola, il manifesto, 8 agosto 2014, ritiene invece che dalle dichiarazioni di Draghi, si possa evincere un disinteresse – da parte dell’UE e dei mercati – per le “riforme istituzionali”, considerate secondarie rispetto a quelle “strutturali” (come il Fiscal compact e l’introduzione del pareggio di bilancio).
2 cfr. Le locuzioni riportate in corsivo sono tratte dalla relazione al Disegno di legge costituzionale n. 1429 presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri (Renzi) e dal Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento (Boschi) concernente: «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione». Le motivazioni poste alla base del progetto di revisione paiono simili a quelle poste a fondamento dei progetti di riforma presentati nel corso delle legislature precedenti .
3 A. BURGIO, I pericoli per la democrazia, cit., evidenzia come le riforme ispirate alla “governabilità” abbiano rappresentato la bussola che ha «segnato la via italiana alla post-democrazia», ossia ad una nuova prospettiva dell’autoritarismo.
4 cfr. G. ZAGREBELSKY, Contro la dittatura del presente. Perché è necessario un discorso sui fini, Laterza, Roma-Bari, p.12.
5 cfr. sul tema, D. CHIRICO, Premesse ad una analisi giuridica della crisi economica sociale ed istituzionale, tra governance multilevel e democrazia, (di prossima pubblicazione), pp. 26 ss. (del dattiloscritto).
6 cfr. G. ZAGREBELSKY, Contro la dittatura del presente, cit.P. MADDALENA, vicepresidente emerito della Corte costituzionale, in un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano del 25 luglio 2014 (Sento l’eco della riforma piduista di Gelli, a cura di S. TRUZZI), evidenzia come le istituzioni sovranazionali e internazionali (BCE; FMI) siano occupate «dalle banche e dagli speculatori» e come «il potere finanziario» riesca di conseguenza a orientare la politica economica in funzione degli interessi del sistema bancario e non dei cittadini. Le responsabilità per gli effetti distruttivi delle politiche di austerità sono da imputare tuttavia agli esecutivi che, sottoscrivendo il fiscal compact, hanno reso i popoli «schiavi della speculazione finanziaria».
7 G. PICCIOLI, Vogliono gestire il dissenso senza disturbi, il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2014, sostiene che il governo Renzi, con il sostegno del Capo dello Stato, «stia facendo quanto gli chiede la finanza globale», ovvero «il traghettamento da una democrazia parlamentare a una presidenziale con forte connotazione autoritaria: l’unica forma di governo ritenuta idonea a governare la crisi e i suoi futuri «prevedibili sconvolgimenti».
8 M. VILLONE, La politica vince sul cabaret, in il manifesto, 26 giugno 2014. Per una ricostruzione del dibattito in materia nel corso dell’Assemblea costituente, cfr. M. LUCIANI, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme elettorali in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1991; R. CHERCHI, La forma di governo: dall’Assemblea alle prospettive di revisione costituzionale, in www.costituzionalismo.it , fasc. 1/2009.
9 cfr. S. D’ALBERGO, La funzione costituente del «Partito nuovo», in AA. VV., Novant’anni dopo Livorno. Il Pci nella storia d’Italia, a cura di A. HÖBEL e M. ALBERTARO, Editori Riuniti, Roma, 2014, pp. 252, 253.
10 cfr. A. ALGOSTINO, In tema di riforme costituzionali. Brevi note sulla proposta di riduzione del numero dei parlamentari, in riv. AIC, n. 2/2012, p. 7 e ID., A proposito di riforme costituzionali “incostituzionali” in Marx ventuno, n. 1/2013, p. 52.
16 A. ALGOSTINO, In tema di riforme costituzionali, cit., pp. 5, 7, sostiene che per recuperare il ruolo del Parlamento come organo della rappresentanza e dell’autogoverno dei cittadini, si dovrebbero realizzare interventi strutturali sul sistema elettorale, sulla democrazia interna dei partiti e in generale sull’intero sistemo politico nella prospettiva della rivitalizzazione della rappresentanza, ma si dovrebbe soprattutto «recuperare la sovranità popolare e l’autonomia della politica liberandole da uno status ormai ancillare rispetto alla sovranità dei mercati».
18 A. ALGOSTINO, In tema di riforme costituzionali, cit., p. 6, perveniva a queste conclusioni in riferimento alla proposta di riduzione del numero dei parlamentari contenuta nel ddlc. denominato nella vulgata politica, “abc costituzionale” presentato il 18 aprile 2012 in Commissione Affari costituzionali del Senato. Le medesime considerazioni valgono sostanzialmente anche in riferimento alla proposta contenuta nel ddlc. Renzi-Boschi. S. D’ALBERGO, La funzione costituente del «Partito nuovo», cit., p. 253, osserva che «quando si mira ad attenuare l’incidenza di un organo di rappresentanza politica si parte dalla diminuzione del numero degli eleggibili, in contemporanea con un’artificiosa differenza di funzioni» e pertanto ritiene che tutte le proposte di revisione che puntano a ridurre il numero dei deputati e dei senatori e ad alterare il ruolo del Senato, contrastino con i Principi fondamentali della Costituzione.
19 cfr. sul punto, F. BILANCIA, Oltre il bicameralismo paritario. Osservazioni a margine del ddl. Renzi. Sfidando il divieto di una discussione pubblica, in www.costituzionalismo.it, 2 aprile 2014
20 cfr. S. RODOTÀ, Una nuova politica costituzionale, la Repubblica, 18 marzo 2014. L. CARLASSARE, Così si strozza la democrazia, cit., sostiene che la decisione di “contingentare” i tempi del dibattito sulla proposta di revisione contrasta con lo spirito della Costituzione e specie con il fine dell’ art. 138 C., che è quello di garantire una discussione ed una approvazione delle modifiche da parte di «una maggioranza larga» e non «artificiale». G. AZZARITI, La costituzione strumento piegato al governo, in il manifesto, 27 luglio 2014, osserva come il termine «contingentare» esprima l’aridità della concezione di democrazia oggi dominante, ossia una concezione opposta a quella dei Costituenti che non avrebbero deciso di comprimere il dibattito con meccanismi giugulatori (“canguri”, “tagliole”, “ghigliottine”), perché consapevoli del fatto che i processi di riforma costituzionale servono a delineare «un ordine nuovo» destinato a proiettarsi «verso il futuro» e non verso l’orizzonte asfittico degli interessi delle maggioranze di governo. S. RODOTÀ, Renzi aizza tutti contro le Camere, (intervista a cura di D. PREZIOSI), il manifesto, 31 luglio 2014, osserva come le norme che derogano alle garanzie del dibattito parlamentare nell’ambito del procedimento di revisione costituzionale, debbano considerarsi di «stretta interpretazione» e che la decisione sulla loro applicazione non possa essere rimessa all’arbitrio delle maggioranze. F. CASSON, Decisione pericolosa della giunta», (intervista a cura di C. LANIA, il manifesto, 31 luglio 2014, evidenzia come l’art. 85-bis, comma 4, del Regolamento della Camera, vieti l’uso del cd. “canguro” «nella discussione dei progetti di legge costituzionale». L. PEPINO, La parentesi della Costituzione, il manifesto, 5 agosto 2014, evidenzia come dalle modalità prescelte per la discussione del ddl. costituzionale, si possa evincere come nell’ambito della maggioranza di governo sia diffusa una concezione di “democrazia governante” che «rifiuta il confronto e conosce solo le ragioni della forza e dei numeri» e una concezione della Costituzione come di un «patto imposto dai vincitori ai vinti». M. VILLONE, Sulle riforme costituzionali, il “canguro” è decisionista”, il manifesto, 31 luglio 2014, evidenzia come le proposte in materia elettorale e costituzionale avanzate dal Governo, si traducano in una «grande riforma costituzionale» che mira sia a ridurre la rappresentanza prefigurando uno scenario in cui «un partito del 40%» riesce a concentrare «il potere su sé stesso e soprattutto sul suo leader», sia ad alterare l’equilibrio tra i poteri mediante l’istituzione di un Senato non elettivo composto da «personale politico di seconda scelta». G. AZZARITI, Un delitto con tanti autori, il manifesto, 9 agosto 2014, osserva come dal comportamento remissivo adottato dalla maggioranza dei senatori in relazione ai vincoli imposti alla discussione, emerga la sussistenza di una inconsapevolezza sul fatto che si stesse esaminando «una riforma profonda […] dei poteri e degli equilibri definiti dalla Costituzione».
23 v. il documento intitolato: The euro area adjustment about half way there è consultabile (anche in versione italiana) sul sito culturaliberta.files.wordpress.com/jpm-the-euro. L. PISAPIA, Ricetta JP Morgan per un Europa integrata: liberarsi dalle costituzioni antifasciste, il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2013, evidenzia come proprio la JP Morgan sia stata la maggiore artefice dei progetti di “finanza creativa”, tanto che nel 2012 il governo statunitense l’ha individuata come responsabile principale della crisi provocata dall’uso dei mutui subprime.
24 V. GIACCHÈ, Titanic Europa, Aliberti, Roma, 2012, pp. 44, 45, sostiene che gli interventi realizzati dai pubblici poteri per salvare le banche e le imprese in crisi, non siano serviti a ripristinare il funzionamento del sistema economico, ma solo a trasformare il debito privato in debito pubblico, determinando un’ingiusta “socializzazione delle perdite”. Sul tema, cfr. anche P. BEVILACQUA, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. XII; P. SAVONA, Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi. Il caso Italia, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ), 2012, pp. 13, 19, 20.
25 S. RODOTÀ, Una nuova politica costituzionale, cit., osserva come, nell’epoca della «globalizzazione del mondo e della sua riduzione alla dimensione finanziaria», la «politica» sia divenuta «ancella dell’economia» e sia stata «declassata» in virtù del ricostituito primato della «tecnica, a mera «amministrazione». A. BURGIO, La grande riforma della piccola sovranità, il manifesto, 12 agosto 2013, commentando le recenti dichiarazioni del Presidente della Bce, ha evidenziato come Draghi sia giunto a invocare «un processo riformatore definito in sede europea e imposto senza mediazioni ulteriori agli Stati più arretrati. L’idea prospettata è «quella di una “rivoluzione dall’alto” che dovrebbe trasformare gli Stati in «strutture amministrative subordinate» e relegare la cittadinanza in una condizione passiva. P. INGRAO, Crisi e riforma del Parlamento, a cura di M. L. BOCCIA e A. OLIVETTI, Ediesse, Roma, 2014, p. 54, paventava, già negli anni ottanta, il pericolo di gravi «lacerazioni» che sarebbero potute derivare da un parlamento ridotto a svolgere il ruolo di mero appositore di «timbri» alle decisioni del governo e dalla conseguente impossibilità per la «domanda di rappresentanza» di trovare «uno sbocco trasparente».
26 A. BURGIO, I pericoli per la democrazia del progetto di Renzi e Berlusconi, il manifesto, 20 luglio 2014, osserva come «un ceto politico che si costituisce a valle di una brutale amputazione della rappresentanza e che agisce come una protesi esecutiva del governo», non possa che essere composto «da attori interessati a percepire cachet sempre più profumati all’altezza del tradimento perpetrato nei confronti della democrazia repubblicana». S. D’ALBERGO, La funzione costituente del «Partito nuovo», cit., p. 255, evidenzia come «il bipolarismo della cd. alternanza» punti a riqualificare «il modello di Stato respinto dalla Costituzione del 1948» con la conseguenza di restaurare «quel sistema smisurato di corruttela intrinseco all’evanescenza dei partiti di massa e alla legittimazione delle lobbies di americana ascendenza».
28 cfr. G. ZAGREBELSKY, La Costituzione e il governo stile executive, in la Repubblica, 6 agosto 2014.
30 T. PIKETTY, nel recente libro intitolato Le Capital au XXIe siècle (Editions du Seuil, Paris, 20013), osserva come nelle società occidentali, si sia ricreata – ad onta delle retoriche sul “postmoderno” – una situazione analoga a quella dell’Ottocento, ossia una situazione caratterizzata da una forte crescita delle diseguaglianze provocata dall’azione incontrollata delle oligarchie finanziarie che traggono ingenti ricchezze dalle rendite “ereditate”. Sulle reazioni smodate degli economisti mainstream e della stampa neoconservatrice al successo ottenuto dal libro di Piketty che demolisce miti e dogmi diffusi dalla vulgata liberista, cfr. P. KRUGMAN, The Piketty panic, New York Times, 24 aprile 2014.
32 G. AZZARITI, L’ultimo atto di una lunga regressione politica, il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2014, evidenzia come questa «lunga regressione» sia rilevabile nei fenomeni verificatisi nell’ultimo ventennio, ossia: l’abuso della decretazione d’urgenza; la concentrazione del potere nelle mani del Governo; lo svuotamento del ruolo del Parlamento; la riduzione dell’attività delle Camere alla conversione dei decreti-legge e alla ratifica dei trattati internazionali; l’aumento esorbitante del “potere del governo in parlamento”.
33G. AZZARITI, L’ultimo atto di una lunga regressione politica, cit., osserva come l’opinione pubblica non sia stata posta nella condizione di comprendere la portata della proposta di revisione costituzionale, ma abbia subito i condizionamenti di una martellante campagna di delegittimazione delle opinioni dissenzienti finalizzata ad imporre – schmittianamente – una «riforma dei vincitori contro i vinti». A. BURGIO, Il mantra mediatico delle riforme, cit., evidenzia come, nell’arco degli ultimi decenni, i potentati finanziari abbiano esercitato un controllo capillare sul «sistema informativo» finalizzato a oscurare le opinioni critiche e a impedire ai cittadini di comprendere la natura oligarchica ed autoritaria dei processi di riforma costituzionale in corso. Ci troviamo pertanto dinanzi a un «processo di spoliticizzazione di massa», che «restituisce attualità alla rappresentazione della cittadinanza come “moltitudine bambina”». Si dovrebbe ritessere quindi «la tela del pensiero critico» al fine di porre le premesse per la ricostruzione di un «soggetto» capace di «ridare efficacia politica al punto di vista della classe lavoratrice» ( sul punto, cfr. anche A. BURGIO, La grande riforma, cit.). Sulla categoria liberale-autoritaria della c.d. “moltitudine bambina”, cfr. D. LOSURDO, Democrazia e bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringheri, Torino, 1993.
34 L. CANFORA, La trappola. Il vero volto del maggioritario, Sellerio, Palermo, 2013, pp. 41, 42, rileva come Togliatti, nel discorso tenuto alla Camera dei deputati l’8 dicembre 1952, sostenne che il Presidente del Consiglio non potesse porre la questione delle modifiche costituzionali, poiché presta «giuramento di fedeltà alla Costituzione» ed è tenuto di conseguenza ad «attuarla». L. CARLASSARE, Così si strozza la democrazia, cit., dopo aver evidenziato l’anomalia di una riforma costituzionale non generata dal parlamento ma «dettata dal governo», osserva come, negli ultimi decenni, il governo sia riuscito ad usurpare – mediante il ricorso continuo ai decreti legge – numerose funzioni del Parlamento e come sia giunto oggi ad esautorarlo completamente, privandolo, di fatto, anche della funzione di “revisione costituzionale”.
35 S. RODOTÀ, Una nuova politica costituzionale, cit., si interroga sulla possibilità di avviare nella fase caratterizzata dal primato dell’economia, una «politica costituzionale» capace di rilanciare i principi delle Costituzioni del secondo dopoguerra. C. DE FIORES, L’assillo inascoltato di Pietro Ingrao, il manifesto, 17 luglio 2014, evidenzia come P. Ingrao ponesse, negli anni ottanta, un identico interrogativo (cfr. rel. al Conv. promosso dall’Ist. di Dir. pub. della Fac. di Giur. dell’Un. di Roma “La Sapienza”, (20-21-22 marzo 1985), sul tema: Potere, poteri emergenti e loro vicissitudini nell’esperienza giuridica italiana, ripubblicata nel volume: Crisi e riforma del Parlamento, cit., pp. 29 ss.). Le riflessioni di Ingrao erano permeate dall’«assillo» della ricerca di nuove ragioni e modalità per riaffermare il protagonismo della sovranità popolare e il ruolo centrale del Parlamento nel governo dei «mutamenti istituzionali» imposti da una ristrutturazione capitalistica di «dimensione globale». Egli evidenziava in particolare la necessità per una «sinistra moderna» di riuscire a «giocare d’anticipo», avanzando proposte di riforma diverse da quelle dei gruppi dirigenti che mirano a sostituire la “democrazia rappresentativa” con la “democrazia di investitura”. In assenza di questa capacità di proposta, si sarebbe affermata un’idea di «innovazione» tecnocratica e “modernizzatrice”. De Fiores osserva come dopo un trentennio di «esperimenti maggioritari», si possano comprendere più facilmente – sia pur con maggiore amarezza – le ragioni dell’«assillo di Ingrao. Sulle indicazioni che i «costituzionalisti consapevoli del proprio ruolo» possono fornire per restituire «forza» al «progetto di emancipazione sociale» del «costituzionalismo moderno», cfr. G. AZZARITI, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 158 ss.
37 Sulla necessità di ripartire dalle «motivazioni originarie della fase costituente» per riaprire una nuova prospettiva democratica della vita sociale, cfr. S. D’ALBERGO, Dalla memorialistica, all’attuazione “double face” al rilancio, pp. 13, 14, in www.marx21.it, (22 novembre 2013), pp. 13, 14; P. INGRAO, Crisi e riforma del Parlamento, cit., pp. 34, 35.
38 S. D’ALBERGO, Cultura giuridica, stato democratico e fascismo, in AA.VV., Per una analisi del neofascismo, in Quad. Dem. e dir., n.1/1975, p. 104, evidenzia come i principi del “lavoro” e della “sovranità popolare” siano stati assunti come assi di una strategia di trasformazione della società e dello Stato, perché esprimono «un valore unitario di alternativa democratica» e svolgono la funzione di «ponti verso un ordine socialmente più avanzato, di tipo socialista» (cfr. ID., Prefazione in P. TOGLIATTI, Discorsi alla Costituente, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. VIII). V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (note preliminari), in ID., Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali Giuffrè, Milano, 1985, p.98, ha sostenuto che la «sovranità popolare «prima di essere un principio ideologico affermato nel testo costituzionale», costituisce «la fonte stessa del testo costituzionale e dell’intero ordinamento della Repubblica».
39 E. BERLINGUER nella Prefazione ai Discorsi parlamentari di Togliatti, vol. 1, Camera dei Deputati, Roma, 1984, scrive: «Di fronte […] a tali e tanti guasti che hanno precisa radice politica non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza democratica alle istituzioni con l’introduzione di congegni e meccanismi di dubbia democraticità o con accorgimenti che romperebbero anche formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia tra legislativo, esecutivo e giudiziario e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni. Riforme delle istituzioni volte a ridare efficienza e snellezza al loro funzionamento sono certo necessarie. Ma esse a poco servirebbero se i partiti rimanessero quello che sono oggi […] se non si rigenerassero riacquistando l’autenticità e la pienezza della loro autonoma funzione verso la società e verso le istituzioni». Senza questa rigenerazione – aggiunge Berlinguer- si andrebbe incontro a quanto già presagito da Togliatti «nel suo ultimo discorso alla Camera, due settimane prima di morire». Egli riferendosi in quell’occasione all’Italia e all’Europa, «constatava la tendenza alla limitazione progressiva delle istituzioni democratiche e all’autoritarismo».
40 Sul riconoscimento da parte della Costituzione della divisione della società in classi e sulla scelta di legittimare il conflitto sociale dotando «le parti più deboli» dei poteri e degli strumenti necessari per costruire una democrazia capace di soddisfare le aspirazioni delle classi popolari e medie, cfr. S. d’Albergo, Cultura giuridica, stato democratico e fascismo, cit., p. 104. Sul tema, cfr. anche G. Ferrara, II diritto del lavoro e la “costituzione economica” italiana ed in Europa, in Costituzionalismo. it, fasc. n. 3/2005, p. 4 e G. AZZARITI, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 357 ss. e, specie, pp. 403-404.
41 cfr. M. DOGLIANI, I due volti alla rinuncia della politica, in Critica marxista, n. 1/2008, p. 24.
42 G. AZZARITI, Composizione e funzioni dell’organo, in Dem. e dir., n. 1/2014, p. 26, evidenzia la necessità di valutare le ripercussioni della riforma «sul più generale sistema istituzionale e costituzionale», dato che «le Costituzioni sono insiemi omogenei» e costituirebbe pertanto «un grave errore» cambiare singole parti, «senza pensare alla modifica degli equilibri complessivi».
43 G. ZAGREBELSKY, Con le “riforme” la politica va al servizio della finanza, in Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2013, ritiene che i principi fondamentali dovrebbero essere utilizzati come parametri essenziali nell’analisi dei processi di ristrutturazione in corso. A. A. CERVATI, Riforme costituzionali e principi in tema di sfera pubblica e di interessi privati, in www.apertacontada.it, 2012, p. 2, 4, 16, evidenzia la necessità di riaprire una riflessione sui principi allo scopo di valutare la reale capacità innovativa delle proposte di “riforma” e specie il loro grado di contraddizione rispetto ai valori dell’ordinamento.
45 Sul legame tra sistema elettorale e modello di democrazia, cfr. A. ALGOSTINO, La legge elettorale del neoliberismo, di prossima pubblicazione in Dem. e dir., p. 18 (del dattiloscritto); G. AZZARITI, La riforma elettorale, in Riv. Aic, n. 2/2014, p. 12.
46 L. CANFORA, La trappola, cit., pp. 19, 23, richiama il memorabile discorso con cui Togliatti sostenne nella seduta parlamentare dell’8 dicembre 1952, l’eccezione di incostituzionalità del disegno di legge (Scelba) concernente: «modifiche al testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei Deputati» (cd. legge truffa), il quale prevedeva che «alla coalizione dei partiti che avesse conseguito anche un solo voto in più rispetto alla maggioranza assoluta dei votanti (50% più un voto!) sarebbe toccato il 64% degli eletti alla Camera». Il discorso di Togliatti viene qualificato come «una vera lezione di diritto costituzionale » svolta «con un imponente dispiegamento di argomenti» e di richiami «alla remota e recente dottrina» e specie «all’insegnamento di Vittorio Emanuele Orlando di cui […] era stato scolaro negli anni universitari». A. ALGOSTINO, La legge elettorale del neoliberismo, cit., p. 37, rileva come «il connotato disegualitario e disegualizzante del sistema maggioritario collida con l’eguaglianza intrinseca alla democrazia».
47 L’ordine del giorno Giolitti approvato dall’Assemblea Costituente il 23 dicembre 1947 dichiarava che: «L’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale».
48 P. Togliatti nel discorso tenuto alla Camera dei deputati l’8 dicembre 1952 contro la cd. “legge-truffa” nel tentativo di chiarire il valore sostanziale della rappresentanza politica, la paragonò – richiamando V. E. Orlando – ad un «fatto esterno e visivo», precisando come questa nozione fosse stata formulata nel 1789 dal conte di Mirabeau dinanzi all’assemblea nazionale francese. Egli affermò infatti che: «Le assemblee rappresentative possono essere paragonate a carte geografiche che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano sparire i minori». Togliatti menzionò anche Cavour, il quale aveva affermato che: «il grande problema che una legge elettorale deve risolvere» è quello «di costituire un’assemblea che rappresenti, quanto più esattamente e sinceramente sia possibile, gli interessi veri, le opinioni e i sentimenti legittimi della nazione». Fu richiamato anche il liberale moderato Sidney Sonnino, per il quale: «L’assemblea elettiva dovrebbe stare all’intiera cittadinanza nella stessa relazione di una carta geografica al paese che raffigura». Togliatti giunse infine a evocare la visione del «Parlamento come specchio del Paese» formulata, per la prima volta, dal costituzionalista inglese Lorimer e in seguito richiamata dal filosofo inglese Stuart Mill e infine da Ruggero Bonghi che in un articolo su Nuova Antologia del 1889 scrisse: «se si riesce a ottenere che una nazione si specchi […] nel suo Parlamento […] il governo rappresentativo sarà assicurato in perpetuo».
49 L’ordine del giorno Perassi approvato dalla seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, il 5 settembre 1946 dichiara che: «la seconda sottocommissione […], ritenuto che nè il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare degenerazioni del parlamentarismo».
50 A. ALGOSTINO, La legge elettorale del neoliberismo, cit., p. 18, evidenzia come la natura dei sistemi elettorali debba essere valutata nella sostanza e non in base al nomen astratto.
51 La proposta di riforma del sistema di elezione della Camera dei deputati (cd. Italicum) è stata approvata in prima lettura dalla Camera il 12 marzo 2014.
52 A. ALGOSTINO, La legge elettorale del neoliberismo, cit., pp. 25 ss., evidenzia come, nonostante l’art. 3, 2° co., C. parli di «partecipazione effettiva», la Corte Costituzionale abbia specificato che il principio d’eguaglianza vale solo «al momento dell’espressione del voto», ma non si estende «al risultato concreto della manifestazione della volontà dell’elettore», perché questo risultato «dipende […] esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario – non avendo la Costituzione disposto al riguardo – ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari». La mancata costituzionalizzazione del sistema elettorale viene interpretata, pertanto, come «spazio impregiudicato per la discrezionalità del legislatore, senza dedurre né dal principio d’eguaglianza, né dal principio democratico alcuna indicazione circa la traduzione dei voti in seggi». Si fa rilevare, tuttavia, come la Corte costituzionale con la recente sentenza n. 1 del 2014, affermando che i voti debbano contribuire «con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi», abbia inteso estendere l’efficacia del principio d’eguaglianza anche «al voto in uscita». L’Autrice sostiene comunque che nella Costituzione sussiste un nesso necessario fra democrazia, uguaglianza e sistema proporzionale che impone la costruzione di un sistema capace di garantire «il più possibile la produzione di eguali effetti del voto», ossia «un peso effettivo alla partecipazione di ciascuno».
53 Per una interessante riflessione sui principi stabiliti dalla Corte costituzionale nella sentenza sulla Legge n. 270 del 2005 (cd. porcellum), cfr. F. BILANCIA, “Ri-porcellum” e giudicato costituzionale, in www.costituzionalismo.it, fasc. 3/2013.
54 cfr. G. FERRARA, Contro i colpi di stato elettorali, in www.costituzionalismo.it, 27 gennaio 2014.
56 G. FERRARA, L’origine dell’autoritarismo, in il manifesto, 1 agosto 2014, evidenzia come il disegno di legge in materia elettorale presentato dal Governo contenga «un dispositivo che produce effetti contrari alla volontà espressa dal corpo elettorale e inferisce un vulnus […] alla democrazia», il quale non può essere sanato né dalla previsione delle preferenze, né dalla riduzione delle soglie.
57 cfr. C. DE FIORES, Riforme costituzionali e bicameralismo, in Dem. e dir., n. 1/2014, p. 42, osserva come la «riforma della rappresentanza politica si presenta […] come una stantia riproposizione delle vecchie ricette del maggioritario all’italiana. Le istanze che ne sono alla base sono le stesse che hanno in questi anni avvelenato le dinamiche politiche, coartato le pratiche democratiche, avvilito la partecipazione sociale: premi di maggioranza abnormi, iniezioni di anabolizzanti bipolari, disprezzo per le minoranze politiche».
58 cfr. relazione al ddlc. n. 5069 d’iniziativa del deputato Stefania Craxi, intitolato: Istituzione di un’Assemblea costituente, presentato il 20 marzo 2012. Sul rapporto fra involuzione maggioritaria della forma di governo e decostruzione della democrazia sociale, cfr. A. ALGOSTINO, La legge elettorale del neoliberismo, cit. pp. 12,13, 16 (del dattiloscritto).
59 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1000, 1001, individua una tendenza ricorrente nella storia d’Italia. Egli osserva infatti che: «a mano a mano che illanguidisce la tendenza» verso «una Costituente democratica […] si rafforza la tendenza “costituentesca” alla rovescia, che […] minaccia un colpo di Stato reazionario». Per Gramsci le fasi costituenti senza partecipazione popolare si traducono insomma in un mero riequilibrio dei rapporti di forza interni alle classi dirigenti, che non possono non sortire un esito regressivo.
60 cfr. D. GALLO, La resistibile ascesa delle riforme di Matteo e Silvio: come si costruisce una svolta autoritaria, in micromega-online, 7 luglio 2014. A. BURGIO, Previsioni a vanvera, il manifesto 6 agosto 2014, evidenzia come «il combinato disposto tra Italicum e trasformazione della Camera alta» provocherà «l’accentramento di tutti i poteri costituzionali nelle mani della leadership del partito di maggioranza relativa».
63 Il discorso programmatico del Presidente del Consiglio Letta è consultabile sul sito www.governo.it
67 S. RODOTÀ, Il pasticcio delle riforme, in La Repubblica,8 aprile 2014, richiama la proposta di legge costituzionale n. 2452 della IX legislatura d’iniziativa del deputato Ferrara e di altri che andava in una direzione opposta rispetto a quella attuale, perché «voleva riaffermare nella sua pienezza la funzione rappresentativa del sistema parlamentare, assicurata da una forte Camera dei deputati che garantiva gli equilibri costituzionali e si opponeva alle emergenti derive autoritarie e alla concentrazione del potere nel governo». La proposta «nasceva dall’idea della centralità del Parlamento e rispondeva all’ineludibile diritto dei cittadini di essere rappresentati, che è alla base della sentenza con la quale […] la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del porcellum», mentre «oggi invece l’Italicum deprime la rappresentanza e le proposte relative al Senato sono un pasticcio», sicché «tutto confluisce in un sostanziale antiparlamentarismo alimentato da artifici ipermaggioritari, che fanno correre il rischio di una nuova dichiarazione di incostituzionalità».
68 cfr. G. FERRARA, La democrazia dimezzata, cit.; F. BILANCIA, Oltre il bicameralismo paritario, cit.,rileva come il disegno di legge in materia elettorale di segno fortemente maggioritario e il disegno di legge costituzionale che elimina il Senato elettivo, cospirino a provocare una profonda «mortificazione della rappresentanza politica».
71 G. AZZARITI, Composizione e funzioni dell’organo, cit., pp. 27, 28, dopo aver criticato la fragilità e l’irrilevanza politica del “nuovo Senato” proposto dal disegno di legge costituzionale, sostiene che sarebbe preferibile «abolire il Senato e pensare ad una soluzione monocamerale», abbandonando in tale ipotesi «ogni pretesa di escludere le minoranze dall’unico organo della rappresentanza politica», sicché dovrebbe adottarsi per la Camera dei deputati «un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale». C. DE FIORES, Riforme costituzionali e bicameralismo, cit., p.41, osserva che: «se l’obiettivo del Governo era quello di “rottamare” il Senato, si sarebbe allora più coerentemente potuto optare per la soluzione monocamerale […] integrando questa revisione con la opportuna costituzionalizzazione di un sistema proporzionale per l’elezione della Camera dei deputati».
73 cfr. G. AZZARITI, Nuovo senato debole, governo fortissimo, in il manifesto, 29 ottobre 2014. L’Autore evidenzia come la formulazione generica della disposizione «rimetta al Governo stesso l’ampiezza del suo potere», dato che «nulla impedirà […] di ritenere essenziale per l’attuazione del programma ogni disegno di legge», salvo le ipotesi delle leggi bicamerali, delle leggi elettorali, delle leggi di ratifica dei trattati internazionali e delle leggi approvate a maggioranza speciale. Si osserva inoltre come «la vicenda dell’abuso della decretazione d’urgenza e l’interpretazione disinvolta dei ben più stringenti limiti della “straordinaria necessità e urgenza”, dovrebbero far capire che non sarà una formula di stile («essenziale per l’attuazione del programma) a frenare l’abuso del nuovo istituto da parte dei prossimi governi».
74 G. AZZARITI, Nuovo senato debole, governo fortissimo, cit., evidenzia la similitudine fra l’istituto del “voto a data certa” previsto dal ddlc. Renzi-Boschi e l’istituto francese del “vote bloqué” il quale ha indebolito il ruolo parlamento, concentrando l’intera dialettica politica nel rapporto Presidente della Repubblica-Primo ministro.
75 Per una critica radicale al concetto di governabilità, cfr. G. FERRARA, La crisi del neoliberismo e della governabilità cotta, in www.costituzionalismo.it, fasc. 1/2013.
76 A. ALGOSTINO, La legge elettorale del neoliberismo, cit., p. 24, evidenzia come oggi la “governabilità” sia la «governabilità di chi controlla il mercato per l’implementazione del modello neoliberista» e come, in questo contesto, il sistema elettorale maggioritario costituisca «uno strumento classista per riservare il governo ad una oligarchia economica e politica». La diseguaglianza del sistema elettorale si configura insomma «come elemento per la riproduzione e l’incremento della diseguaglianza politica e sociale». Sul ritorno del capitalismo di stato nelle forme neo-corporative dell’“economia sociale di mercato”, cfr. L. PATRUNO, Il modello costituzionale europeo e l’idea di costituzione, Giappichelli, Torino, 2006, pp. 200 ss.
77 A. ALGOSTINO, La legge elettorale del neoliberismo, cit., p. 17 (del dattiloscritto), osserva come nell’epoca della cd. “postdemocrazia” il dominio appartenga ad una classe sociale che in nome della competitività, impone il suo modello economico e nel contempo un sistema politico conforme alle sue esigenze.
78 L’art. 6 della L. 24 dicembre 1925, n. 2263 (concernente: «Attribuzioni e prerogative del Capo del Governo»), disponeva che: «Nessun oggetto può essere messo all’ordine del giorno di una delle due Camere, senza l’adesione del Capo del Governo».