di Lorenzo Baldo
Palermo. “Trattativa Stato-mafia: il processo resti qui”. Basterebbe rileggere l’appello scritto sullo striscione del movimento delle agende rosse della Campania, affisso di fronte all’ingresso dell’aula bunker dell’Ucciardone, per riassumere l’udienza odierna del procedimento “Bagarella + 9”. Davanti a quella che fu l’aula del Maxi Processo si ritrovano diversi cittadini venuti dalla Lombardia, dalla Campania e dal Piemonte. Sono qui per chiedere che il processo istruito da Nino Di Matteo insieme a Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia (le cui indagini inizialmente sono state coordinate da Antonio Ingroia, al quale è subentrato successivamente Vittorio Teresi) non si sposti da Palermo. Insieme a loro ci sono alcuni esponenti di Libera e della società civile palermitana. Si ritrovano sugli stessi spalti ad ascoltare un’udienza dove invece si materializza il tentativo opposto. Gli avvocati di quasi tutti gli imputati (ad esclusione di Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino, così come di Calogero Mannino, nei confronti del quale si procederà con rito abbreviato, e ad esclusione di Bernardo Provenzano, la cui posizione al momento è stralciata per motivi di salute), in un modo o nell’altro, chiedono lo spostamento di questo processo.
O addirittura richiedono l’annullamento del provvedimento di rinvio a giudizio con conseguente azzeramento dell’iter processuale. Ecco quindi che i legali di un uomo delle istituzioni come Nicola Mancino (ex ministro ed ex vicepresidente del Csm), imputato di falsa testimonianza, chiedono ai giudici di stralciare la posizione del loro assistito da quella degli altri imputati e trasmettere gli atti alla Procura affinchè li invii al tribunale dei ministri. I legali dell’ex ministro sollevano inoltre la questione di incompetenza della Corte d’Assise sul reato di violenza a corpo politico dello Stato e di concorso in associazione mafiosa, contestati a vario titolo agli imputati, che, secondo la loro tesi, andrebbero trattati dal tribunale. Di fatto era stato lo stesso gup Piergiorgio Morosini ad individuare nella Corte il giudice competente in quanto tra gli imputati c’era Bernardo Provenzano che rispondeva dell’omicidio di Salvo Lima, reato di competenza della Corte d’Assise. Ma la posizione del boss di Cosa Nostra era stata successivamente stralciata per i suoi gravi problemi di salute. Da qui l’immediata strategia difensiva di quasi tutti gli imputati mirata a richiedere lo spostamento del processo (così da toglierlo definitivamente alla Corte di Assise di Palermo): da Totò Riina a Leoluca Bagarella, da Antonino Cinà a Marcello Dell’Utri, da Nicola Mancino a Mario Mori, da Antonio Subranni fino a Giuseppe De Donno. In un valzer di istanze incrociate fondate sull’interpretazione della perpetuatio iurisdictionis viene chiesto anche di spostare il processo a Firenze, altri chiedono che a giudicare sia un tribunale di Roma, altri ancora invocano la “nullità” del decreto del rinvio a giudizio nel quale verrebbe esplicitato troppo il contenuto di elementi probatori. A tutti gli effetti il procedimento penale sulla trattativa Stato-mafia provoca negli imputati “eccellenti” – e non solo – una vera e propria paura. Paura che uno dopo l’altro possano finire in questo calderone giudiziario altri “impuniti” o “intoccabili”; ma è anche la paura nei confronti di quei magistrati del pool di Palermo, integerrimi e preparati, che potrebbero finalmente fare luce sul biennio stragista ‘92/’93, ad alimentare questi fantasmi. Ed è sempre quello Stato-mafia a temere maggiormente questo processo, perché la verità sulla trattativa potrebbe rivelarsi talmente dirompente da dover riscrivere interi decenni della nostra storia.
Prossima udienza lunedì 1 luglio, in quella occasione i pm esprimeranno il loro parere sulle eccezioni di competenza sollevate dalla difesa.
– 27 giugno 2013