by Federico Dezzani
Domenica 29 gennaio, a distanza di un giorno dalla promulgazione dell’ordine esecutivo con cui Donald Trump ha limitato l’immigrazione da alcuni Paesi mussulmani, si è consumato a Québec City un nuovo attentato: uno o più terroristi si sono introdotti nella moschea locale, aprendo il fuoco sui fedeli e mietendo sei vittime. L’attacco è stato prontamente “firmato” dal SITE Intelligence Group: il responsabile è un franco-canadese, simpatizzante di Donald Trump, di Marine Le Pen e dell’esercito israeliano. Se l’obiettivo dell’operazione, demonizzare il nuovo inquilino della Casa Bianca, è chiaro, sorge però un interrogativo: ma il SITE non era “degli israeliani”? E allora perché attaccare Trump che è in ottimi rapporti con Benjamin Netanyahu? È sempre più evidente che il Mossad, come la CIA e l’MI6, risponde soltanto all’establishment atlantico.
La sottile (ed indispensabile) arte del distinguo
L’elezione di Donald Trump, come abbiamo spesso sottolineato nelle nostre analisi, ha sparigliato le carte, introducendo una variabile non prevista: alla Casa Bianca sede un presidente che non appartiene all’establishment o, per essere più precisi, è ascrivibile ad una fazione (nazionalista, isolazionista, realpolitiker, filo-Likud) in aperta opposizione all’oligarchia dominante (liberal, neocon, mondialisti, interventisti ed insofferenti alle intemperanze di Benjamin Netanyahu). È, in poche parole, uno scontro tra i “nativisti” americani e l’establishment atlantico che vive sull’asse Londra-New York: quasi una riproposizione del braccio di ferro tra Richard Nixon ed i circoli della Commissione Trilaterale, culminato con lo scandalo Watergate e la defenestrazione del presidente statunitense.
In questo nuovo contesto, dove l’establishment è stato momentaneamente relegato ai margini da un presidente populista e non controlla più le leve del potere, termini che abbiamo sinora devono essere rivisitati: ad esempio, il vocabolo “angloamericani” prima indicava contemporaneamente il potere esecutivo (Barack Obama), l’establishment (i grandi centri di potere tra la City e Wall Street) ed il variegato mondo dei servizi segreti atlantici. Dopo l’elezione di Trump, il primo significato del termine, quello cioè del potere esecutivo, è scomparso: il quadro si è complicato, rendendo indispensabile, per chi volesse continuare a fare analisi, cimentarsi nella sottile arte del distinguo.
Si prenda, ad esempio, il caso del SITE Intelligence Group, gestito dalla israeliana Rita Katz: si tratta della società che, “scovando in rete” il materiale dell’ISIS, ha svolto a partire dall’estate del 2014 la funzione di megafono del Califfato. Qualsiasi attentato od impresa dell’ISIS, in Medio Oriente come in Europa, era puntualmente “rivendicato” attraverso il SITE che, in questo modo, apponeva anche una precisa firma sugli attacchi terroristici. Molti, noi compresi, abbiamo spesso identificato genericamente il SITE Intelligence Group con “gli israeliani”: è ora indispensabile essere più precisi.
L’organizzazione di Rita Katz rappresenta infatti i servizi segreti israeliani, ed il Mossad in particolare, da tenere distinti dal potere esecutivo e dal premier Benjamin Netanyahu. Senza questo distinguo, diventato improvvisamente fondamentale, non sarebbe possibile spiegare gli ultimi avvenimenti, né, quasi certamente, quelli dei prossimi mesi.
Ci riferiamo, ovviamente, alla strage alla moschea di Québec City del 29 gennaio, un attentato a sfondo “xenofobo” che sembra appositamente studiato per demonizzare Donald Trump e la sua recente stretta sull’immigrazione mussulmana. Il SITE Intelligence Group è stato molto rapido nel sottolineare la matrice “razzista” dell’attentato, rivendicandone la paternità allo stesso tempo. Ma se dietro Rita Katz si nascondesse in termini generici “Israele”, come spiegare l’attentato alla luce del grande affiatamento tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu? Il premier israeliano si può definire come un “grande elettore” di Donald Trump ed ha pubblicamente espresso la sua approvazione per la politica migratoria del neo-presidente americano:
Tel Aviv sarebbe schizofrenica se da un lato si felicitasse per le ricette di Trump e dall’altro lato cercasse di screditarlo con attentati xenofobi. A meno che non si operi un distinguo: il premier Netanyahu pro-Trump ed in buoni rapporti con Putin, contrapposto al SITE ed al Mossad, anti-Trump e filo-atlantici. È un’ipotesi fondata? Crediamo di sì e cercheremo di illustrarne le ragioni.
Partiamo dal principio.
Sabato 28 gennaio, il presidente Trump firma un ordine esecutivo che pone alcuni paletti all’immigrazione verso gli Stati Uniti: divieto di ingresso per i cittadini siriani fino a nuova revoca, sospensione per 90 giorni degli ingressi da una serie di Paesi mussulmani ( Iran, Iraq, Yemen, Somalia, Sudan e Libia), sospensione per quattro mesi del programma per i rifugiati 1. Ha poco importanza se simili misure furono adottate anche dalle amministrazioni Bush ed Obama: il decreto presidenziale è prontamente sfruttato dall’establishment per una campagna di demonizzazione contro Trump. Insorge il Dipartimento di Stato, alcuni governatori, qualche giudice federale, buona parte del carrozzone UE e pressoché l’intero mondo dell’informazione e della grande finanza: “A stunning violation of our deepest American values” secondo il Washington Post 2, “How Trump’s Rush to Enact an Immigration Ban Unleashed Global Chaos” secondo il New York Times, “Donald Trump’s Muslim Ban sparks outrage and fear” secondo Aljazeera. Il neo-presidente, secondo i grandi media, viola i principi americani, semina il caos nel mondo, e fomenta l’odio verso i mussulmani.
Se il premier israeliano Netanyahu appoggia pienamente la stretta sull’immigrazione mussulmana 3, il SITE di Rita Katz ci informa invece che la politica del neo-presidente americano è un grande assist per il fondamentalismo islamico: i servizi segreti che si nascondono dietro il terrorismo dell’ISIS, tra cui anche il Mossad, presentano quindi la loro dichiarazione di guerra a Trump.
La spaccatura tra Netanyahu ed il controspionaggio israeliano non è peraltro nuova, essendo nata e progressivamente cresciuta sotto l’amministrazione Obama: il premier, ostile a Washington ed all’establishment liberal (e di conseguenza pro-Trump), versus il Mossad, conciliante ed indissolubilmente legato ai servizi atlantici (e quindi anti-Trump). In vista delle elezioni legislative del 2015, il Mossad, agendo in sintonia con l’amministrazione Obama, aveva addirittura preso una posizione pubblica contro le rielezione di Benjamin Netanyahu, definendolo, attraverso l’ex-direttore Meir Dagan, come una minaccia per la sicurezza di Israele: “Former Mossad head urges Israeli voters to oust Binyamin Netanyahu” scriveva The Guardian nel febbraio 2015 4.
Se quindi l’establishment sfodera l’artiglieria pesante contro Trump e la sua politica sull’immigrazione, spetta anche agli zelanti servizi segreti atlantici dare il loro contributo, compresi il Mossad ed il SITE Intelligence Group. Come? Semplice, organizzando un attentato di matrice xenofoba che alimenti l’indignazione contro il neo-presidente ed i suoi primi ordini esecutivi.
Si arriva così alla strage alla moschea di Québec City del 29 gennaio. Perché il Canada e perché Québec City? Perché il Canada è un Paese NATO/Commonwealth in cui i servizi segreti atlantici si possono muovere indisturbati; perché il giovane e fotogenico premier, Justin Trudeau, è stato da poche ore lanciato a livello internazionale come un campione dell’accoglienza e della tolleranza contrapposto al becero Donald Trump 5; perché in Québec si parla francese ed è quindi possibile (come avverrà) allargare l’obiettivo anche agli “xenofobi” del Front National di Marine Le Pen.
L‘attentato di Québec City è, per certi versi, la declinazione islamica di un altro efferato omicidio commesso recentemente in luogo di culto: l’assassinio “da parte dell’ISIS” del parroco di Rouen, delitto del 26 luglio con cui si era deviata l’attenzione dalla recente strage di Nizza, un po’ troppo sconclusionata per non sollevare interrogativi nell’opinione pubblica.
Attorno alle 20, ora locale, i fedeli sono riuniti per la preghiera della sera quando uno o più terroristi irrompono nella moschea. Le prime ricostruzioni parlano infatti di due uomini dal volto coperto: secondo alcuni un attentatore avrebbe parlato con un “forte accento del Québec”, secondo altri i terroristi avrebbero invece gridato “Allah Akbahr” 6. Sparando sui fedeli in raccolta l’assalitore, o gli assalitori, mietono sei vittime.
Subito sono fermati nei paraggi due uomini: tale Mohamed el Khadir, “trentenne di discendenza marocchina ma la cui nazionalità non è nota”, e Alexandre Bissonnette, franco-canadese di 27 anni. Gli inquirenti rilasciano il primo nel volgere di poche ore (lasciando quindi in sospeso l’identità del secondo presunto attentatore, che presto scomparirà dai giornali) mentre traggono in arresto il secondo. La vicenda è avvolta in alone di mistero: Bissonnette è “fermato sul luogo dell’attacco” (non ha opposto resistenza? Aveva finito le munizioni? Era lucido o in stato confusionale?) e “diverse ore dopo l’arresto, è comparso davanti ai giudici che l’hanno incriminato per sei omicidi e cinque tentati omicidi” 7 . All’udienza Bissonnette non ha aperto bocca né sono disponibili altre informazioni. Le poche notizia fornite dalla stampa dipingono un giovane non integrato 8:
“In altre parole un emarginato, con un profilo che ricorda quello dei giovani introversi e isolati, che in altre occasioni sono esplosi soprattutto nelle scuole americane, sfogando la loro frustrazione con stragi tipo quella avvenuta a Columbine.”
È un profilo stranamente simile a quello del 18enne tedesco-iraniano che la scorsa estate aprì il fuoco sui clienti di un McDonald’s di Monaco: personalità fragili, adescata in rete, imbottite di farmaci (allucinogeni, anfetamine, mescalina, etc. etc.) ed accompagnate sul luogo della strage, armate (con pistole o fucili automatici di non facile reperimento) e deliranti.
La parte interessante, però, viene ora.
Entra in campo il SITE Intelligence Group che, pur occupandosi di Califfato e fondamentalismo islamico, non rifiuta, se necessario, qualche capatina nel mondo dell’estremismo di destra. Secondo Rita Katz, notizia subito rilanciata dai maggiori circuiti d’informazione, il franco-canadese Alexandre Bissonnette “ammira Donald Trump, Marine Le Pen e le forze armate israeliane”.
E così, mentre il neo-presidente americano firma l’ordine esecutivo per limitare l’immigrazione mussulmana, un suo giovane seguace imbraccia il fucile e, entrato in una moschea, fa strage dei fedeli raccolti in preghiera: una freccia in più all’arco dei nemici di Trump, da aggiungere alle proteste davanti alla Casa Bianca, alla invettive della stampa, alle accuse del Dipartimento di Stato, alle catilinarie di democratici e repubblicani, alle stigmatizzazioni dell’Unione Europea, all’indignazione di attori ed “intellettuali”.
Non solo, si infanga anche il nome di un altro candidato populista, Marine Le Pen, che affronterà presto un appuntamento decisivo per l’establishment euro-atlantico, le presidenziali francesi.
La strage alla moschea di Québec City è l’ennesimo esempio di guerra psicologica: valutarne l’impatto sull’opinione pubblica è difficile, ma certamente è stata utile per chiarire la disposizione delle forze in campo. Donald Trump non fronteggia soltanto l’establishment euro-atlantico, ma anche il variegato mondo dei servizi segreti che ruota attorno al SITE Intelligence Group ed all’ISIS: CIA, MI6, DGSE e Mossad. Chissà, l’esplicito riferimento all’Undici Settembre nell’ordine esecutivo di Trump potrebbe non essere casuale 9:
“The visa-issuance process plays a crucial role in detecting individuals with terrorist ties and stopping them from entering the United States. Perhaps in no instance was that more apparent than the terrorist attacks of September 11, 2001,when State Department policy prevented consular officers from properly scrutinizing the visa applications of several of the 19 foreign nationals who went on to murder nearly 3,000 Americans.”