di Gianni Barbacetto
Ormai lo abbiamo imparato. Al Nord, le cosche non sono un virus alieno, un contagio venuto da un altro mondo, un’infezione che non ha nulla a che fare con il tessuto sociale e produttivo di noi nordisti. Da Genova ci arriva l’ennesima conferma: perfino i camalli sono stati contagiati. Alcuni di loro si sono messi al servizio della ’ndrangheta che aiutano nel traffico di droga. I camalli sono gli scaricatori del porto di Genova. Figure mitiche che hanno fatto la storia della città e che mantengono un grande potere, con una Compagnia di mille soci e 30 milioni di fatturato.
Poi arriva un pentito di mafia e racconta. “Per fare arrivare i container, a un certo punto è stata scelta Genova, perché a Gioia Tauro i controlli erano spaventosi e si perdeva troppo. Per questo l’import della droga è stato spostato in Liguria. I nostri vertici volevano giocare sul sicuro”. A parlare è Pietro Mesiani Mazzacuva, avvocato, cognato del boss Domenico Molè, ’ndrangheta della Piana. Mesiani Mazzacuva è un colletto bianco delle cosche, per conto delle quali gestisce in Liguria affari puliti, come due cliniche private a lui intestate. Ma a un certo punto, come raccontano Marco Grasso e Matteo Indice sul Secolo XIX, inizia uno scontro dentro i clan calabresi che arriva fino in Liguria.
Il colletto bianco teme di finire come finiscono i perdenti delle guerre di mafia: con un paio di pallottole in corpo. Decide allora di collaborare con i magistrati. E racconta la grande svolta: lo spostamento dalla Calabria a Genova del baricentro del traffico. Troppo pericolosa, Gioia Tauro. Meglio il porto della Lanterna. Le navi cariche di cocaina partono dalla Colombia, porto di Barranquilla, transitano a Santo Domingo, fanno scalo ad Atene. Poi approdano a Genova. “La droga veniva prelevata all’interno dell’area portuale”, racconta il colletto bianco pentito. “A Genova i Molè stavano facendo una ditta”.
L’operazione “Provvidenza”, coordinata dal procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero de Raho, è quella che ha prodotto 33 arresti e sequestrato beni per 40 milioni di euro. A Milano ha portato in carcere il boss Antonio Piromalli, rampollo-manager di una famiglia pesante di ’ndrangheta che aveva messo le mani sull’Ortomercato. L’organizzazione aveva sviluppato business milionari tra Milano e gli Stati Uniti, dall’industria dell’ortofrutta alla moda. Grazie a una joint venture con la famiglia Gambino di New York, esportava negli Usa olio di sansa spacciato come pregiatissimo extravergine d’oliva.
Una multinazionale degli affari sporchi e puliti con il cuore in Calabria e le società operative a Milano e Genova. Con a disposizione anche qualche squadra di camalli: “Aprono i cardini dei container, smontano le porte completamente con un macchinario, non hanno nemmeno bisogno di rompere i sigilli”, racconta Mesiani Mazzacuva. “Tutto avviene fra i moli. Quando sanno che arriva un carico si fanno mettere di turno e lo aprono loro. Poi mettono il carico nei sacconi e lo cacciano fuori dalle recinzioni. O eludono i controlli in altro modo”.
Preoccupati i leader dei camalli. “Di fronte a un carico di droga delle dimensioni che dicono di aver scoperto non può esserci la furbata d’un singolo. Il gruista è il primo che deve sapere quale contenitore è giusto, devono farsi trovare pronti lui che lo scarica e gli altri che stanno in banchina a metterci le mani sopra. Il terzo passaggio è quello all’uscita dal porto, dalla dogana, e anche lì serve un altro jolly perché i controlli oggi sono più precisi”. Sì, senza tanti “jolly”, genovesi o milanesi, la ’ndrangheta non sarebbe così potente.
Il Fatto quotidiano, 24 febbraio 2017