Antonio Gramsci *
Viene spesso rimproverato agli anarchici di dedicare la loro attività di propaganda piú alla lotta contro gli organismi politici e corporativi del proletariato, che non alla lotta contro la classe dominante. Obbiettivamente il fatto è inconfutabile. Il problema da studiare è però questo: gli anarchici possono fare diversamente? potrebbero svolgere una qualsiasi attività permanente e organica se non esistesse l’organizzazione socialista e proletaria?
Esiste una dottrina anarchica? Esiste solo un complesso di aforismi, di sentenze generali, di affermazioni perentorie, che gli anarchici chiamano la loro «dottrina»: e il metodo che gli anarchici seguono nello svolgere la loro azione consiste nell’accettare, ecletticamente ed empiricamente, tutte le critiche all’ordinamento attuale che reputano capaci di promuovere uno stato di disagio e di malessere psicologico e su di esse fondare le loro affermazioni, i loro aforismi, le loro sentenze. Gli anarchici non hanno una concezione organica del mondo e della storia: vedono gli effetti, i fenomeni vistosi, non le cause, non la continuità del processo storico che si rivela, solo come mero indizio, in questi effetti e in questi fenomeni. Perciò hanno bisogno di inserirsi in una forza reale — l’organizzazione politica e corporativa dei lavoratori — che aderisce plasticamente al processo storico: da ciò traggono l’illusione di essere — e di essere una forza diffusa e organica, e questa illusione è la loro ragion d’essere.
La «dottrina» anarchica vale per tutti i tempi e per tutti i luoghi, essa è basata sulla «natura» umana, la quale dovrebbe essere governata da leggi fisse e immutabili, quali sono appunto le cosiddette «leggi della natura». La natura umana è lo spirito; la legge costante che governa lo spirito nella sua piú alta manifestazione — il pensiero — determina una ricerca continua di libertà, una continua lotta contro i pregiudizi, contro le angustie, contro i limiti imposti dalla tradizione, dalla religione, dalla mancanza di spirito critico. La «dottrina» anarchica è un riflesso cristallizzato e immiserito in formule dogmatiche e incoerenti di una tendenza filosofica non ancora giunta a una maturità e a una sistemazione organica.
Nel momento della sua maturità, questa dottrina filosofica ha dimostrato che la filosofia e la storia coincidono: nel fenomeno di simbiosi anarchico-socialista possiamo constatare la verità obbiettiva di questa dimostrazione. Nel regime di concorrenza determinata dalla proprietà privata, le correnti sociali tendono a impersonare una manifestazione storica generale: i socialisti si richiamano alle manifestazioni profonde della vita sociale, alla struttura economica che condiziona tutte le forme della vita sociale: gli anarchici si richiamano alle leggi costanti dello spirito, alla libertà, al pensiero («anarchico è il pensiero ecc. ecc.»); — insieme dovrebbero tendere a realizzare obbiettivamente l’unità del pensiero e dell’azione, della storia e della filosofia.
Invece sono avversari, e lo sono in quanto gli anarchici sono avversari permanenti dei socialisti (— i socialisti sono avversari del capitalismo e combattono gli anarchici solo quando essi si rivelano inconsci strumenti della forza capitalistica —), sebbene si nutrano e vivano solo perché inseriti nel tessuto storico che i socialisti hanno organizzato pazientemente e tenacemente.
I socialisti, o comunisti critici, hanno invece una dottrina salda e organica e hanno un metodo, il metodo dialettico. Poiché hanno una dottrina, hanno una personalità ben distinta e un dominio proprio ben definito.
La legge essenziale dell’uomo è il ritmo della libertà, la storia del genere umano è un processo ininterrotto e indefinito di liberazione. Ma la libertà non è qualcosa di fisso, di immutabile nel tempo e nello spazio.
Individualmente la libertà è un rapporto di pensiero, condizionato dalla cultura dell’individuo: tanto piú uno è libero quanto piú è «ricco» di sapienza e di saggezza, quanto piú grande è il «patrimonio» suo di esperienze storiche e spirituali, quanto maggior ordine esiste nei suoi pensieri, quanto piú perfetta è la sua organizzazione interiore. Individualmente quindi il processo di sviluppo della libertà coincide col processo di sviluppo della cultura individuale, e in questo senso gli anarchici sono i meno liberi di tutti i proletari appunto perché non hanno una concezione organica del mondo e della storia, appunto perché non hanno una dottrina coerente ma solo una mole incomposta e contradditoria di massime, di sentenze e di assiomi. Essi sono schiavi del disordine loro spirituale, sono mancipii delle formule fisse: se la storia è sviluppo, è divenire, è dialettica continua, chi ha una «dottrina» basata sulla fissità non comprende la storia, è uno schiavo degli avvenimenti, non è un creatore, non è un uomo libero come invece è l’operaio socialista che vive una dottrina, che ha una concezione del mondo fondata sulla critica e sulla dialettica.
Nella convivenza umana, come rapporto tra individui, la libertà è un equilibrio di forze e si concreta in una organizzazione, in un ordine. In regime di proprietà privata la libertà politica (e in regime di proprietà privata la libertà può essere solo politica, perché rapporto tra individui, tra cittadini e non tra comunità di produttori, tra associazioni, come sarà in regime comunista) è condizionata dal possesso dei beni materiali, o dall’essere al servizio di chi possiede i beni materiali. Non si può dire quindi che il regime borghese non sia un regime di libertà; tutta la storia è un succedersi di regimi di libertà, ma di libertà individuale o politica, cioè libertà formale per tutti e libertà effettiva per i possessori dei mezzi di produzione e di scambio. Quando lo Stato era «possesso» individuale, era libero solo il tiranno e i suoi sicofanti; quando lo Stato divenne possesso dei proprietari capitalistici e terrieri, divennero liberi i proprietari capitalistici e terrieri. Quando lo Stato sarà «posseduto» dai lavoratori, i lavoratori diventeranno liberi.
La parola «Stato» fa inalberare gli anarchici. Perché essi vedono nello Stato solo l’«immutabile» principio d’autorità. I socialisti distinguono nello Stato due aspetti. Lo Stato è per i socialisti l’apparato del potere politico, ma è anche un apparato di produzione e di scambio.
Come principio industriale di organizzazione della economia di un paese, lo Stato deve essere conservato e sviluppato: tutti gli strumenti di produzione e di scambio che il capitalismo lascerà al proletariato devono essere conservati e sviluppati per conservare e dare incremento al benessere comune. Se l’accentramento è domandato dalle necessità della produzione industriale, esso deve essere mantenuto e sviluppato, fino a diventare mondiale; sarebbe pazzesco e criminoso distruggere uno strumento di produzione, sull’esistenza del quale si fonda il benessere espesso l’elementare possibilità di vita della popolazione attuale del mondo, solo perché cinquanta anni fa un uomo, e sia pur grande quanto Bakunin, ha affermato che accentramento significa «morte dell’autonomia e della libertà». I socialisti sono «statali» quindi, solo in quanto il processo di sviluppo della produzione industriale ha creato apparati economici che coincidono con l’apparato del potere politico e ne formano l’intima struttura.
Come principio di potere politico, lo Stato si dissolverà tanto piú rapidamente quanto piú i lavoratori saranno compatti e disciplinati nell’ordinarsi socialmente, nel fondersi cioè in gruppi accomunati dal lavoro, coordinati e sistemati tra loro secondo i momenti della produzione: dal nucleo elementare del mestiere in un reparto, al reparto in una fabbrica, alla fabbrica in una città, in una regione, nelle unità sempre piú vaste fino al mondo intero. L’Internazionale è lo «Stato» dei lavoratori, cioè la base vera e propria del progresso nella storia specificatamente comunista e proletaria.
Lo Stato rimarrà apparato di potere politico fin quando esisteranno le classi, fin quando, cioè, i lavoratori armati non saranno riusciti — attraverso lo Stato politico (o Dittatura) attrezzato dai capitalisti come una bardatura dell’organismo economico — a dominare e possedere realmente l’apparato nazionale di produzione e a farne la condizione permanente della loro libertà.
Le parole «Stato», «legalità», «autoritarismo» ecc., con le quali gli anarchici si riempiono la bocca, hanno un determinato valore, fin quando sussistono i rapporti di proprietà individuale: hanno un valore politico. Ne acquistano un altro se concepiti come rapporti puramente industriali. Gli operai dell’industria conoscono questi rapporti per esperienza diretta, e perciò sono socialisti, hanno una psicologia dialettica; non sono anarchici, cioè cristallizzati in una formula.
* Non firmato, L’Ordine Nuovo, 20 – 27 settembre 1919