L’arte della guerra
di Manlio Dinucci
In Egitto, il generale Abdel Fattah al-Sisi – uomo del Pentagono, nominato un anno fa dal presidente Morsi capo di stato maggiore e ministro della difesa – ordina di aprire il fuoco sui Fratelli musulmani che protestano per la deposizione e l’arresto di Morsi e chiama le forze laiche, scendendo in piazza, a dargli «il mandato per affrontare la violenza e il terrorismo».
Appello raccolto anche in Tunisia. «Quanto sta accadendo in Egitto alimenta le nostre speranze e potrebbe avere una influenza sulla Tunisia, perché il nemico comune sono i Fratelli musulmani», dichiara Basma Khalfaoui, vedova di Chokri Balaid, il leader del Fronte popolare assassinato lo scorso febbraio (il manifesto, 23 luglio). E conclude: «Quello avvenuto in Egitto non è un golpe, è la continuazione della rivoluzione». Per mano di quella casta militare formata e finanziata dagli Usa, che ha garantito per oltre trent’anni il regime di Mubarak, quindi la «pacifica transizione» quando la sollevazione popolare ha rovesciato Mubarak; poi l’ascesa di Morsi alla presidenza per neutralizzare le forze laiche, infine la deposizione di Morsi quando contro di lui si sono sollevate le opposizioni laiche.
Di fronte alla sanguinosa repressione del Cairo, la Casa Bianca ha diplomaticamente dichiarato di «non avere l’obbligo legale di determinare se i militari egiziani abbiano compiuto un colpo di stato nel deporre il presidente Morsi», formula che permette agli Usa di continuare a fornire al Cairo un aiuto militare di 1,5 miliardi di dollari annui. Continuando così a rafforzare la casta militare, principale leva dell’influenza statunitense e occidentale in Egitto.
Come lo è quella tunisina. La Tunisia – documenta l’ambasciata Usa – è un «alleato strategico di lunga data degli Stati uniti», che hanno formato, addestrato ed equipaggiato le sue forze armate. Lo conferma il fatto che è «uno dei pochi paesi al mondo che abbia cadetti in tutte le accademie militari degli Stati uniti», dove si sono formati circa 5mila alti ufficiali tunisini. Questa casta militare di formazione anche francese, dopo aver sostenuto per 24 anni il dittatore Ben Ali, lo ha ufficialmente deposto quando ormai era stato rovesciato dalla sollevazione popolare. Oggi, mentre si acuisce lo scontro tra gli islamisti e i laici, c’è nella sinistra tunisina chi si appella a questa casta militare per una «soluzione» di tipo egiziano, ossia un intervento armato contro il partito islamico, «il nemico comune». Posizione suicida.
Lo dimostra quanto accade in Egitto, dove le potenti forze esterne e interne contrarie alla rivoluzione hanno favorito la spaccatura del movimento popolare che ha rovesciato la dittatura di Mubarak, con il risultato che oggi masse islamiche impoverite si scontrano con masse laiche impoverite.
A tutto vantaggio della casta militare, la quale rafforza la sua posizione e quindi quella delle potenze, in primo luogo gli Stati uniti, che tengono assoggettato l’Egitto ai loro interessi politici, strategici ed economici. A tutto vantaggio di Israele, che rafforza il suo assedio a Gaza: i militari egiziani hanno distrutto o chiuso circa l’80% del tunnel, vitali per il rifornimento di cibo e carburante e quindi per la sopravvivenza della popolazione palestinese.
E mentre, sulla scia degli Usa, l’Unione europea iscrive l’ala militare dell’Hezbollah islamico libanese nella lista delle «organizzazioni terroristiche», gruppi terroristici islamici continuano a essere infiltrati in Siria dagli Usa e dagli alleati europei. E qualcuno nella sinistra definisce anche questa una «rivoluzione».
(il manifesto, 30 luglio 2013)