I motori dello sviluppo non sono ripartiti e la deregulation potrebbe favorire nuovi incidenti
FEDERICO RAMPINI
DIECI anni fa si accendevano segnali di allarme per il crac dei mutui subprime: l’inizio della Grande Crisi. È una storia dalla quale non siamo veramente usciti. Le cause profonde di quell’evento non sono state curate. Un altro shock, magari innescato da un detonatore diverso, non si può affatto escludere.
La finanza domina il mondo più che mai, anche grazie ad un’alleanza di ferro con i giganti delle tecnologie digitali. Inoltre la Grande Crisi ci ha lasciato in eredità una svolta politica inaudita. Donald Trump non sarebbe alla Casa Bianca, se quella maxi-recessione non avesse generato disastri economici, sofferenza sociale, un profondo senso di ingiustizia mescolato a risentimento, che il populismo di destra ha cavalcato con efficacia.
L’antefatto? La crescita americana era già segnata dalle diseguaglianze sociali (una patologia in peggioramento costante da 30 anni); classe operaia e ceto medio faticavano a mantenere il tenore di vita. Il sistema bancario “curò” quegli squilibri a modo suo: speculandoci sopra. Wall Street facilitò l’accesso alla casa in modo scriteriato. Mutui ad alto rischio venivano concessi a debitori in situazioni precarie, che al primo shock congiunturale sarebbero diventati insolventi. I banchieri si disinteressavano degli enormi rischi accumulati, spalmandoli sul mercato, nascondendoli dentro complicati titoli strutturati. Sullo sfondo, altri macro-squilibri: l’eccesso di risparmio in paesi esportatori come Cina e Germania, protagonisti di un vasto “riciclaggio” dei surplus commerciali. Episodi di iperinflazione delle materie prime. In un clima torbido, con controlli inadeguati e conflitti d’interessi a gogò, arrivò il Dies Irae: prima il crac di alcuni fondi immobiliari Bnp (9 agosto 2007), qualche mese dopo l’insolvenza di Bear Stearns, un anno dopo il crac di Lehman. Una spirale di panico, seguita dal contagio all’economia reale in tutto l’Occidente. Si salvò solo la Cina, irrobustendo il dirigismo di Stato.
Dieci anni dopo, il paesaggio sembra irriconoscibile. L’economia americana è nell’ottavo anno di crescita consecutiva, il pieno impiego è vicino. Eppure l’8 novembre ha prevalso la narrazione trumpiana su un paese allo sfascio. Il candidato più catastrofista della storia ha conquistato i voti dei metalmeccanici, i cui posti di lavoro erano stati salvati da Barack Obama. Una volta al potere, Trump ha riempito la sua Casa Bianca di uomini (e una donna) della Goldman Sachs. E sta lavorando per smantellare i controlli su Wall Street introdotti dal suo predecessore, la legge Dodd-Frank. Le banche si riconquistano un pezzo alla volta la libertà di far danno. Non che fossero veramente rinsavite negli ultimi anni. Malgrado le multe miliardarie la propensione della finanza a delinquere non è diminuita: alcuni degli scandali più gravi (come la manipolazione del Libor di Londra) sono avvenuti diversi anni dopo il 2007. Dalla Deutsche Bank alla Popolare di Vicenza e Banca Etruria, l’Europa non si è dimostrata migliore. Certo alcune falle del sistema sono state tappate, i requisiti di capitalizzazione (leggi: solidità) delle banche sono più severi.
Tuttavia Obama dovette ammettere che “nessun banchiere è finito in prigione” per i disastri del 2009, e la causa la indicò nelle leggi sbagliate, piegate agli interessi delle lobby. Ma lo stesso Obama appena è andato in pensione si è adeguato al vizietto di Hillary Clinton: conferenze a Wall Street lautamente pagate (centinaia di migliaia di dollari “all’ora”) dagli stessi banchieri. Le élite progressiste sono apparse troppo spesso organiche agli interessi della finanza. Fu proprio questa una scintilla iniziale dell’ondata di populismo. Precursore di Trump fu il Tea Party. Movimento radicale di una destra anti-tasse e anti-Stato, nacque nel 2009 per protestare contro il maxi- salvataggio delle banche di Wall Street: 800 miliardi sborsati dai contribuenti. È vero che quell’operazione si saldò in pareggio e perfino con un piccolo guadagno per le finanze pubbliche, molti anni dopo. Ma nel 2008-2009 ci fu un’ecatombe di piccole imprese, una carneficina di posti di lavoro, e con loro lo Stato non fu così solerte e generoso.
Poi arrivò una terapia d’eccezione: il “Quantitative easing” della banca centrale, quando la Federal Reserve comprò titoli in quantità enormi per inondare l’economia di credito a buon mercato. Un’alluvione da 4.000 miliardi solo negli Stati Uniti; in ritardo, la ricetta fu copiata dalla Bce. Ha funzionato a metà. La crescita rimane “sub-ottimale”, nettamente inferiore rispetto all’Età dell’Oro tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. La finanza continua a esercitare un peso eccessivo, prelevando rendite parassitarie dall’economia reale. Il mondo galleggia sulla liquidità creata dalle banche centrali. Gli stessi Padroni della Rete, le “cinque sorelle” Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google privilegiano la finanza sull’innovazione. (Le diseguaglianze più estreme si registrano proprio nella Silicon Valley). Ci sono gli ingredienti di una stagnazione secolare perché si sono guastati i motori storici dello sviluppo capitalistico: demografia, diffusione di potere d’acquisto, progresso della produttività, decollo di paesi emergenti. E ora che i repubblicani al potere a Washington lanciano ai banchieri il segnale del “liberi tutti” con la deregulation finanziaria, un nuovo incidente non è davvero da escludere.
09 agosto 2017