di Monica Mistretta
Stipendi dimezzati, per di più pagati a singhiozzo: nel Kurdistan iracheno mancano i soldi per vivere. In una delle zone più ricche di petrolio al mondo scarseggia anche il carburante per scaldarsi. Lunedì scorso i curdi sono scesi in piazza per protestare e non si sono più fermati. Ce l’hanno con la crisi economica. Il governo centrale di Haider Al Abadi per ora non ha intenzione di prendersi carico dell’emergenza e pagare gli stipendi degli impiegati statali del Kurdistan.
La città di Sulaimaniyah, al confine con l’Iran, è ormai sotto assedio da quattro giorni. Sono qui che si sono scatenate le proteste più dure con incendi alle sedi dei principali partiti curdi. Forze di sicurezza e mezzi corazzati presidiano le strade principali, i negozi sono chiusi. Ci sono morti e feriti. Il ‘Baghdad Post’ accusa l’Iran e le milizie sciite di fomentare i disordini. A Erbil, capitale della regione e roccaforte del Partito Democratico del Kurdistan, pare che le proteste non abbiano preso piede.
Sono passati i giorni festosi della vittoria del referendum che il 25 settembre aveva decretato la volontà di autonomia della popolazione curda dal governo centrale di Baghdad. Alla metà di ottobre l’esercito iracheno, con l’auto delle milizie sciite sostenute dall’Iran, è entrata a Kirkuk, la città dei grandi pozzi petroliferi, e ha ripreso il controllo del Kurdistan mettendo fine al sogno dell’indipendenza.
“Pensiamo che l’operazione per il controllo di Kirkuk sia stata condotta dagli iraniani, ma che gli ufficiali statunitensi e britannici ne fossero a conoscenza”. Con queste parole l’ex presidente del Kurdistan, Massud Barzani, agli inizi di novembre aveva espresso tutta la sua amarezza nel corso di un’intervista alla rivista statunitense ‘Newsweek’. Pochi giorni prima aveva dato le dimissioni cedendo alcuni incarichi al primo ministro, Nechirvan Barzani, suo nipote.
Barzani ha espressamente chiamato in causa gli inglesi. Lo ha fatto perché, se il ruolo degli americani nella coalizione anti-Isis in Iraq è noto, accanto a loro in Kurdistan c’erano i britannici. In Iraq erano arrivati nel 2014, nel pieno della battaglia contro l’Isis. Il loro compito ufficialmente era quello di addestrare i Peshmerga curdi a Mosul.
Proprio in quei giorni il governo regionale di Barzani aveva appena sottratto Kirkuk e i suoi pozzi petroliferi al controllo dell’Isis. Il presidente del Kurdistan aveva preso una decisione storica che avrebbe dovuto portare all’autonomia economica. Sembrava facile: vendere il petrolio in autonomia dal governo centrale di Baghdad attraverso l’oleodotto che da Kirkuk arriva al porto mediterraneo di Ceyhan, in Turchia. Per tre anni la cosa ha funzionato. Poi, con la sconfitta dell’Isis a Mosul, le carte in tavola sono cambiate.
Per i pozzi di Kirkuk i curdi avevano preso accordi con i russi di Rosneft. A giugno 2017 il colosso energetico russo aveva rivelato di essere in contatto con il governo del Kurdistan per lo sviluppo di alcuni pozzi petroliferi introno alla città. Gli stessi per cui il governo di Baghdad nel 2013 aveva firmato un contratto di consulenza con gli inglesi di Bp.
Una settimana dopo l’entrata dell’esercito iracheno e delle milizie sciite a Kirkuk, i pozzi sono passati rapidamente di mano. Il 23 di ottobre il ministro del petrolio iracheno, Jabar al Luaibi, ha chiesto all’inglese Bp di sviluppare le capacità di produzione fino a 700.000 barili al giorno. Il 10 dicembre un altro passo: Luaibi ha firmato con il governo di Teheran un contratto preliminare per il trasferimento dai 30.000 ai 60.000 barili di petrolio in Iran. In cambio Teheran si impegna a restituire all’Iraq le stesse quantità di prodotto raffinato. Nell’affare potrebbe esserci anche la Cina: agli inizi del 2017 la cinese Sinopec ha firmato con la National Iranian Oil Company un contratto di quasi tre miliardi di dollari per la ricostruzione della vecchia raffineria di Abadan. Sviluppi che ai curdi devono essere sfuggiti.
Nel giugno 2016, dopo l’accordo nucleare con l’Iran, la Bp aveva ricevuto dal Dipartimento del Tesoro americano una licenza per la gestione di un giacimento di gas nel Mare del Nord in comune con Teheran. Qualche mese dopo, in novembre, per mettersi al riparo da eventuali problemi, il colosso energetico britannico aveva trovato un escamotage. Aveva creato uno speciale comitato esecutivo con il compito di esplorare le occasioni di affari in Iran. A capo ci aveva messo non il direttore della Bp, l’americano Bob Dudley, ma l’inglese Brian Gilvary. E alla fine del 2016 Bp era arrivata a firmare con la National Iranian Oil Company un contratto per l’esportazione di prodotti petroliferi.
Dieci giorni fa il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson, era a Teheran. Una visita storica nel corso della quale i futuri interessi di Bp devono aver avuto un peso. Da Kirkuk a Teheran corre un fiume di petrolio.
Quando l’Iran, con il supporto delle milizie sciite irachene, ha dato una mano a Baghdad nella riconquista di Kirkuk, le truppe britanniche di stanza a Mosul non hanno mosso un passo. Anzi. L’ex presidente curdo Massud Barzani ha capito troppo tardi il suo errore. Gli è costato tutto. Impegnato a vendere petrolio alla Turchia e a fare affari con i russi, non ha previsto il ritorno di Bp e gli accordi in sordina con l’Iran. Adesso la crisi economica rischia di mettere a dura prova il governo del primo ministro Nechirvan Barzani. Le dimissioni di Massud e l’offerta di congelare l’esito del referendum per l’indipendenza non sono bastati: il prezzo da pagare rischia di essere molto più alto.
21/12/2017