Ci si chiede come mai un ricercatore universitario come Miguel Gotor, membro nella legislatura uscente della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro (dal 1 ottobre 2014 al 22 marzo 2018), non abbia mai rilevato le origini politiche fasciste di Mario Moretti iscritto all’Asan Giovane Italia, organizzazione giovanile del filosionista, Movimento sociale di Giorgio Almirante.
Il ricercatore universitario Gotor pigro, probabilmente, sia nella stesura dell’articolo che nella suddetta Commissione si è dimenticato di precisare, anche, dei rapporti del brigatista Mario Moretti “con il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino e con sua moglie, proprietari della Villa San Martino di Arcore, acquisita poi da Berlusconi tramite l’intermediazione dell’avvocato del marchese, il noto alle cronache Cesare Previti”…
Ci si chiede, anche, come mai Gotor, parlando di Rossana Rossanda non abbia mai fatto osservare nel suo articolo (vedi sotto), apparso su il Fatto quotidiano, il reale ruolo di tale figura sui passati equivoci finanziamenti a il Manifesto con la funzione di “trasformare diverse generazioni di compagni da comunisti potenziali in liberali estremi”. Cosa, tra l’altro, ben riuscita. Infatti, su questo sito si era detto che Il Manifesto assieme a Lotta Continua, Potere Operaio ecc. fecero “parte di quel progetto di destabilizzazione europea in funzione anticomunista, chiamata Operazione Chaos, messa in essere dal 1963 dagli apparati anglo-americani in collaborazione con Francia e Germania, con la supervisione della NATO. Questa Operazione Chaos aveva lo scopo di costruire delle False Flag, false bandiere, ovvero falsi movimenti comunisti che dovevano estremizzare i giovani dei movimenti sorti nel 1968 per allontanarli dal Partito comunista e bloccare il rinnovamento dei gruppi dirigenti di quel partito, per poi infiltrarlo di giovani massoni e attaccare il gruppo comunista berlingueriano dall’interno.” Cosa, anche questa, ben riuscita!
Non fu casuale, infatti, la posizione di detto quotidiano sul caso Moro quando, il 28 marzo 2017, non entrò nel merito delle sette puntuali contestazioni di Carlo D’Adamo (autore del libro Chi ha ammazzato l’agente Iozzino? Lo Stato in via Fani, ed. Pendragon –) “alla sua recensione dove enumera, con estrema pazienza e meticolosità le omissioni utili a costruire quella “verità ufficiale” sul caso Moro voluta dai massocapitalisti alla guida dell’imperialismo Usa, della Nato e inseriti nel nostro Paese”.
Una ricostruzione parziale della verità su quanto accaduto nel nostro Paese non aiuta le persone a capire ma sarà la culla storico/culturale di tanti ignoranti.
MOWA
Moro, il vecchio “album di famiglia” ha le foto sbiadite
Il 28 marzo 1978 Rossana Rossanda pubblicò su il manifesto un articolo in cui analizzava il linguaggio usato dai brigatisti nei loro due precedenti comunicati e affermava che le sembrava “di sfogliare l’album di famiglia”: “Chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Brigate rosse. Ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”.
In un secondo articolo sullo stesso giornale, che sin dal titolo riproponeva l’immagine dell’album di famiglia, sempre la Rossanda si chiedeva con malizioso stupore: “Il Pci si è sentito offeso, chissà perché. I suoi nemici sono stati felici, chissà perché”. La fondatrice de il manifesto si riferiva a un intervento del dirigente del Pci Emanuele Macaluso, il quale si era chiesto quale mai fosse “l’album” conservato dalla Rossanda, certamente, a suo dire, privo della foto di Palmiro Togliatti. Inoltre, Macaluso aveva fatto notare che della stessa opinione della Rossanda erano “quei fogli conservatori come il Giornale di Montanelli che si è affrettato a pubblicare questa sua ‘testimonianza’, ma anche alcuni esponenti della Dc e redattori de il Popolo”, per non parlare della campagna di stampa sullo “stalinismo” in cui si distingueva anche Lotta Continua così da realizzare una convergenza “degli anticomunisti di destra e di sinistra veramente impressionante”.
In effetti, negli anni successivi, l’espressione “album di famiglia” sarebbe diventata quasi proverbiale, conseguendo un vasto, trasversale e duraturo successo presso l’opinione pubblica italiana che cominciò a utilizzarla per accreditare la tesi di una filiazione diretta delle Brigate rosse dal Pci. Una “famiglia” da cui la Rossanda era stata radiata nove anni prima, al termine di una conflittualità interna che aveva lasciato una reciproca scia di incomprensioni e di risentimenti.
In realtà, se si eccettua Prospero Gallinari, da ragazzo militante nei giovani comunisti di Reggio Emilia e allontanato “da sinistra” dal partito in quanto tardivo epigone della tradizione “secchiana”, ostile a Togliatti prima e a Berlinguer poi, la stragrande maggioranza dei componenti brigatisti protagonisti dell’operazione Moro provenivano da diversi filoni e percorsi politici. A partire dal loro capo, Mario Moretti, che alla fine degli anni Sessanta aveva frequentato gli ambienti cattolici di “Gioventù studentesca” e si era iscritto all’Università del Sacro cuore di Milano.
La stragrande maggioranza degli altri (Rita Algranati, Barbara Balzarani, Anna Laura Braghetti, Alessio Casimirri, Adriana Faranda, Alvaro Lojacono, Germano Maccari, Gabriella Mariani, Antonio Marini, Valero Morucci, Bruno Seghetti, Teodoro Spadaccini, Enrico Triaca) aveva militato in Potere operaio e, dopo il suo scioglimento, aveva intrapreso la strada della lotta armata all’interno di una serie di sigle, comitati e collettivi (Fac, Co.co.ce, Tiburtaros, Viva il comunismo) poi confluite nella colonna romana delle Br. Come è noto Potere operaio era sorto sul finire degli anni Sessanta in radicale conflittualità con il Pci e, sin dalle origini, aveva avversato la cultura stalinista e il modello sovietico, cui aveva preferito il marxismo critico dell’autonomia operaia e della “nuova sinistra” radicale statunitense e suggestioni guerrigliere di derivazione guevarista e terzomondista.
Di conseguenza, non sorprende affatto che se entriamo, grazie a un verbale di perquisizione dei carabinieri, in un covo brigatista nel 1978, ad esempio quello milanese di via Monte Nevoso, riaffiori dalla polvere una piccola biblioteca che non può essere ricondotta all’armamentario tipico del lettore iscritto al Pci negli anni di zdanoviana memoria come la Rossanda riusciva a far credere tra il compiacimento dei suoi avversari.
Vi troviamo, infatti, La resistenza eritrea di Piero Gamacchio, Prateria in fiamme, ossia il programma politico dei “Weather Underground” il movimento di ispirazione marxista statunitense; la Lotta armata in Iran di Bizhan Jazani, teorico socialista iraniano morto nel 1975; Tupamors: libertà o morte di Oscar Josi Dueñas Ruiz e Mirna Rugnon de Dueñas oppure La rivoluzione in Italia di Carlo Pisacane, eroe risorgimentale riscoperto nel corso della Resistenza da Giaime Pintor. E ancora: l’edizione einaudiana del Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht a cura di Cesare Cases e il classico del femminismo Vassilissa della rivoluzionaria Aleksandra Kollontaj, allontanata dall’Urss da Stalin. In camera, in un comodino di fianco al letto, La lotta di classe in Urss con annotazioni del marxista critico Charles Bettelheim, le Opere scelte di Mao Tse-tung e il feltrinelliano Il sangue dei leoni che pubblicava un lungo discorso del leader congolese Edouard Marcel Sumbu.
Come si vede si tratta di un pacchetto di libri che costituiva le letture tipiche della nuova sinistra extraparlamentare di quel decennio, con influenze anticapitalistiche, trotskiste, maoiste, guevariste, terzomondiste, genericamente rivoluzionarie e libertarie, di certa ispirazione antistalinista e antisovietica.
Ciò nonostante la formula “album di famiglia” ebbe un duplice successo propagandistico che meriterebbe di essere approfondito nel suo sviluppo e radicamento nel dibattito nazionale: alla destra del Pci, perché amplificava una generale ossessione anticomunista (democratica e anti-democratica) e permetteva di riattualizzare lo stereotipo della doppiezza togliattiana; alla sinistra di quel partito, in quanto consentiva di rimuovere, o almeno di stemperare in una vaga aria di famiglia, il nodo centrale – che in quelle ore e in quei mesi era anzitutto di carattere giudiziario e penale – del rapporto di contiguità culturale e generazionale tra il variegato mondo extra-parlamentare, la lotta armata e la pratica della violenza politica all’interno della multiforme costellazione del “Partito armato”.
Un laccio intricato e scivoloso, strettosi sempre più nel corso degli anni anche grazie a una serie di ambiguità, reticenze, omissioni e qualche indulgente connivenza di troppo. In realtà, Zdanov e il Moloch sovietico degli anni Cinquanta c’entravano assai poco e rischiavano di trasformarsi in un comodo alibi purificatore per non guardare in faccia la realtà, la metastasi cresciuta dentro il corpo estremistico e radicale della società italiana.
Anzi, quei percorsi biografici e quei libri sono lì a ricordare che quel manipolo di giovani brigatisti non erano dei marziani scesi sul pianeta terra, ma erano a loro modo, con granitica intransigenza e allucinata coerenza, dentro la cultura, le letture, le pratiche politiche e valoriali del movimento studentesco e operaio italiano dal 1968 in poi, come se le differenti realtà ed esiti dei tanti percorsi esistenziali fossero stati però attraversati da uno stesso sistema di vasi comunicanti.
Questo è il nodo storico che bisogna sciogliere, al di là della nevrosi cerimoniale degli anniversari che ripropone ormai stancamente i soliti dibattiti, se vogliamo per davvero comprendere quegli anni: questo è l’album di famiglia che bisognerebbe avere il coraggio e l’umiltà di sfogliare.
(2/continua)
di Miguel Gotor | 23 marzo 2018