Di tutta la vicenda “Facebook-Cambridge Analytica” si continuerà a parlare: perché costituisce non solo –come è stato detto- la fine dell’innocenza della rete, bensì soprattutto il sintomo di una rottura storica. Sarà bene tenerne conto negli Internet studies, soliti descrivere con cura le varie fasi della vita della possente novità comunicativa. La vicenda ci ha svelato che “il re è nudo”. Sotto la superficie dei segni, in cui sembrerebbero prevalere frammenti di democrazia partecipativa, vi è la parte nascosta che sfugge ai normali navigatori. Migliaia e migliaia di dati, senza né verifiche né gerarchie di riservatezza, sono captati tramite qualche app-esca e incrociati con le molteplici tracce che ognuno di noi lascia nel corso della giornata. Un abnorme apparato di conoscenze privatizzato e senza opportunità di accesso. Valicare tale muro attualmente è impossibile e chissà come andranno a finire le procedure giudiziarie messe in atto negli Stati Uniti e in Europa. Nel frattempo, il mercato ha scelto la sua vendetta: la Borsa ha fatto crollare il titolo e mr.Zuckerberg ha perso 60 miliardi di dollari. Multe clamorose forse in arrivo da parte della Federal Communications Commission, istruttorie aperte a Bruxelles e presso l’Autorità italiana. E a maggio entrerà in vigore il Regolamento europeo che aggiorna la normativa sulla privacy.
Tuttavia, come ben ha messo in evidenza Michele Mezza, è apparso con brutale evidenza il potere assoluto degli algoritmi, vale a dire la struttura di connessione che permette una potenza di calcolo neppure prevedibile nell’età analogica. E’ il nuovo potere oligarchico, detenuto dagli Over The Top (da Google, ad Amazon, a Microsoft, a Facebook), che i consueti modelli di regolazione non riescono neppure ad intaccare. Al di là delle sanzioni pecuniarie o di qualche condanna simbolica. Zuckerberg ha chiesto scusa, ma gli emuli sono alle porte. Non solo. Snowden svelò gli intrighi della NSA americana e la vittoria di Trump pare proprio aver avuto il suggello della “profilazione” dei dati ad uso diretto e non più mera platea generalista come nei vecchi media. Insomma, si è appalesata una questione democratica dall’esito e dalle dimensioni inedite. Una rottura, appunto. Con l’involuzione del principale dei social la rete è morta. Non la tecnologia, ma fisiologia e sintassi conosciute sono irriconoscibili.
Servono, dunque, regole adatte all’universo digitale. Quali, però? E’ indispensabile una rivoluzione culturale nell’approccio a simile vicenda. Il criterio da utilizzare evoca un vero e proprio rovesciamento del paradigma: una struttura che tocca centinaia di milioni di persone diventa pubblica, al di là della natura societaria. La rete è a un bivio: o assume le sembianze del bene comune, o regredisce a puro territorio di conquista del peggior liberismo. Net-feudalesimo, per citare una felice espressione di Paul Mason.
Nel 2006 ad Atene nacque l’Internet Governance Forum, luogo di relazioni tra soggetti istituzionali e stakeholder della società civile. E’ un organismo delle Nazioni Uniti, il cui primo coordinatore fu Stefano Rodotà. Ogni anno si tiene una riunione dell’organismo, ma il quadro odierno impone una svolta. Di lì si riparta, per approntare un Codice di comportamento fondato sulla trasparenza e sul controllo sociale diffuso. Serve uno “Statuto dell’impresa crossmediale”, con una commissione di Garanti degli utenti che diano concretamente la possibilità ai cittadini di essere persone, e non corpi subalterni e schiavizzati del mondo dell’infosfera.
Solo l’attivazione di un conflitto rapportato all’epoca digitale, che ridefinisca rapporti di forza e forme negoziali, è in grado di condizionare gli eventi. Insomma, Cambridge Analytica può persino essere un incidente storicamente utile a risvegliare le coscienze e a formare un intellettuale collettivo adeguato all’inverno della rete. La storia, del resto, è piena di sorprese.
25 marzo 2018