L’ennesimo allarme sul futuro della sanità pubblica è risuonato nei giorni scorsi grazie a un report della Fp Cgil sulle liste d’attesa, secondo il quale i tempi di attesa medi per ottenere prestazioni diagnostiche o visite specialistiche dal 2014 al 2017 sono aumentati. “Siamo alla vera emergenza sanitaria nel nostro paese – commenta Rossana Dettori, della segreteria nazionale della Cgil – non mi viene un’altra parola per dirlo. I tempi d’attesa nel servizio pubblico sono lunghissimi, e sono lunghi anche nelle strutture private convenzionate. Le uniche soluzioni rimaste per avere una prestazione in tempi normali sono ricorrere all’intramoenia nelle strutture pubbliche oppure pagare nelle quelle private”.
“Questo ovviamente – aggiunge Dettori – significa aumentare il numero di coloro che rinunciano alle cure. Per questo motivo parlo di una grave emergenza. Non riuscire ad accedere alle cure significa aumentare le patologie, lasciare agli anziani una povertà di accesso ai servizi. Insomma, o si cambia radicalmente il tipo di finanziamento e la modalità organizzativa del servizio pubblico e quello convenzionato, oppure davvero siamo destinati a diventare l’ultimo paese dell’Europa a 15 rispetto all’accesso”.
Quanto all’intramoenia, aggiunge Dettori, “noi abbiamo proposto che venga bloccato quando c’è lo sforamento dei tempi della lista d’attesa definiti dal Servizio sanitario nazionale. Non può esserci un meccanismo competitivo rispetto a una prestazione che deve essere garantita e universale, e invece innesca il dumping rispetto all’erogazione della prestazione. Quindi non c’è un’alternativa se non si blocca l’intramoenia, si smaltiscono le liste d’attesa e poi si riprende l’intramoenia una volta che però è stata garantita la normalità della prestazione a tutti i cittadini. Da parte di alcune regioni c’è stata una risposta positiva a questa nostra proposta, ma la ministra Lorenzin, che aveva tutt’altro interesse, non ci ha mai risposto”.
Sulla condizione economica degli anziani in relazione alla cure sanitarie e alla durata della vita c’è una indagine mondiale che chiarisce bene le idee tornando a mettere in stretta connessione questo dato con la povertà. Sembra la scoperta dell’acqua calda ma uno studio di ‘Lifepath’, un progetto finanziato dalla Commissione europea per individuare i meccanismi biologici alla base delle differenze sociali nella salute, ha fissato nero su bianco chce i sessantenni che vivono in condizioni socioeconomiche svantaggiose invecchiano più velocemente e perdono fino a 7 anni di vita. Lo studio, a cui ha partecipato anche l’Università degli Studi di Torino, è stato condotto su 109.107 uomini e donne di età compresa fra i 45 e i 90 anni, provenienti da Europa (Italia inclusa), America Latina, Africa, Asia e Stati Uniti.
“Il nostro studio conferma che le avversità socioeconomiche sono un potente fattore di rischio che può avere un impatto molto intenso sulla qualità dell’invecchiamento”, dice Silvia Stringhini, ricercatrice all’University Hospital di Losanna, in Svizzera, e coordinatrice dello studio. “Ricerche precedenti avevano mostrato che diversi fattori di rischio, inclusa la condizione socioeconomica, tendono ad accumularsi negli stessi individui. I nostri risultati, invece, ci suggeriscono che l’associazione fra un basso profilo occupazionale e il calo nella qualità dell’invecchiamento non è dovuta ad altri fattori di rischio”.
Secondo la ricerca, uomini di 60 anni che vivono in condizioni precarie (per esempio, svolgendo lavori manuali) hanno lo stesso livello di funzionalità fisica di uomini di 66,6 anni con condizioni economiche sono migliori. Nelle donne questo calo è di 4,6 anni. L’invecchiamento precoce dovuto alle condizioni economiche sfavorevoli è paragonabile agli effetti negativi sulla qualità della vita dovuti all’obesità, al diabete e alla scarsa attività fisica, ed è invece maggiore rispetto agli effetti di ipertensione e consumo di tabacco.
28/03/2018
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