di Giorgio Bongiovanni
Ventisei anni sono passati da “L’Attentatuni”, la strage di Capaci, che costò la vita a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo ed i ragazzi della scorta. Anche quest’anno a Palermo è tornata la Nave della Legalità, e migliaia di studenti provenienti da tutta Italia sono giunti a Palermo per ricordare le vittime della mafia. Le immagini dell’aula bunker gremita, il fiume di giovani che vuole essere presente, che vuole conoscere e comprendere i motivi per cui il 23 maggio si arrivò a sventrare un’autostrada per colpire un solo uomo. Sulla Rai sono andate in onda le immagini di una lunga passerella (come troppo spesso è avvenuto in questi anni di commemorazioni ufficiali) di figure istituzionali, politici, addetti ai lavori finanche alla gente dello spettacolo. Sicuramente c’è chi si è commosso nel ricordo di chi ha pagato il caro prezzo della vita in una lotta che andava oltre alla sola Cosa nostra.
Ascoltando le varie testimonianze che si sono succedute, però, non si può non notare l’assordante silenzio proprio nella richiesta di verità e giustizia.
Quella pretesa che sembra non avere più la Fondazione Falcone. Lo si evince non dalle parole dette, ma da quelle taciute. Vi era un tempo in cui Maria Falcone diceva chiaramente che ad uccidere il fratello non fu solo la mafia. Un tempo in cui puntava il dito contro i mandanti esterni delle stragi, nascosti dietro la grande finanza, dietro ai servizi segreti deviati, le massonerie deviate, ed affini.
Una pretesa di verità che è assente nella dialettica istituzionale mentre si attende la nascita di un nuovo governo.
Il “neo” Presidente della Camera, Roberto Fico, ha dichiarato che “ogni Governo e ogni Parlamento devono avere come priorità la lotta alla mafia”. Ha anche ribadito che “nel nostro Paese la mafia esiste e noi dobbiamo sconfiggerla definitivamente, sia con i provvedimenti antimafia che con gli investimenti alle scuole per la formazione e l’educazione”. Ed infine ha evidenziato come “l’abitudine all’insabbiamento è qualcosa che dobbiamo definitivamente interrompere. Deve esserci una verità definitiva. Ogni nuova legislatura non può prescindere dal parlare di mafia e dall’avere una legislazione aggiornata in materia. Così come non può fare a meno di investimenti strutturali in scuole per la formazione. Senza tutto questo un governo non va da nessuna parte”.
Pur prendendo atto di queste dichiarazioni non possiamo non evidenziare come nel “programma” di governo “Cinquestelle-Lega” solo sette misere righe siano state spese proprio sul contrasto alla criminalità organizzata. Parole spese senza entrare nel merito dell’azione. Così quella speranza che venisse detta una parola sulle stragi o la ricerca della verità su chi ha voluto la morte di Falcone e Borsellino è stata ancora una volta disattesa.
Quelli che erano gli interessi oltre Cosa nostra sono stati ribaditi ieri sia dal Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato che dal Procuratore capo di Trapani, Alfredo Morvillo. Ed anche oggi Scarpinato, dal palco dell’albero Falcone ha ribadito che non ci si può fermare “finché non avremo scoperto tutta la verità sulle stragi”.
Abbiamo letto le parole del Vice presidente del Csm Giovanni Legnini che ha ricordato come “in questi anni è stato fatto un lavoro rilevantissimo, accertando una parte di verità sulle stragi” per poi aggiungere che sulle stragi “un altro pezzo di strada va fatto e va fatto fino in fondo”. Legnini ha detto di attendere il deposito della sentenza sul Borsellino Quater, quel processo che ha certificato l’esistenza di un depistaggio sull’attentato in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.
Anche noi siamo in attesa ma non possiamo non evidenziare il fatto che ancora oggi a livello istituzionale c’è una verità che non si vuole ricordare, che si vuole rimuovere o peggio manipolare. Poco importa se lo scorso 20 aprile a Palermo c’è stata una sentenza, seppur di primo grado, che ha dimostrato che negli anni delle stragi una parte dello Stato ha in qualche maniera trattato con la mafia. Addirittura tra i condannati vi è un soggetto come Marcello Dell’Utri (già in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa), fondatore di quel partito che ha governato l’Italia per oltre vent’anni ma nessuno ha osato parlare di questo. Ma ancora una volta a livello istituzionale la cortina di silenzio si è mostrata in tutta la sua dimensione e non una parola è stata detta su quella sentenza. Salvo rare (se non uniche) eccezioni. Basta riascoltare l’intervento su Radio Capitale, del sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, che ha sostenuto l’accusa assieme ai colleghi Francesco Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia, per comprendere la portata di quel processo.
Sarebbe stato bello sentire quelle considerazioni sulla Rete nazionale. Così come sarebbe stato utile per i giovani essere messi a conoscenza che l’opera di Falcone e Borsellino non si era esaurita solo con il maxi processo. Sarebbe stato utile mettere in fila quelli che sono i “pezzi mancanti” di una vicenda che 26 anni dopo ancora non è stata disvelata nella sua interezza. Finché questo non verrà considerato come una priorità sociale-culturale-politica, e negazionismo e giustificazionismo saranno all’ordine del giorno, non ci sarà mai una vera democrazia per questo Paese.
23 Maggio 2018