Non si archivia. Via libera a nuove indagini sull’omicidio di Ilaria Alpi, la giornalista Rai assassinata in Somalia assieme all’operatore tv Miran Hrovatin il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio. Lo ha appena stabilito il Gip di Roma Andrea Fanelli che, come avevamo sperato anche noi nel giorno della morte della madre di Ilaria, Luciana, ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata da tempo dalla procura di Roma.
Il magistrato ha disposto ulteriori accertamenti da effettuarsi entro sei mesi. Da sentire, infine, c’è “la fonte confidenziale citata nella relazione Sisde (l’ex Servizio segreto civile, ndr) del 3 settembre 1997, previa nuova richiesta al direttore pro tempore in ordine all’attuale possibilità di rivelarne le generalità», che sono rimaste segrete per anni.
Il Giudice per le indagini preliminari ha ordinato anche si accerti la fondatezza delle dichiarazioni, intercettate nel quadro di un’altra indagine, di due cittadini somali secondo i quali “Ilaria Alpi era stata uccisa da militari italiani”. Ovviamente cercando di ricostruire da chi sia partita questa informazione.
Si aprirà uno spiraglio di verità su questo duplice delitto dopo 24 anni in cui la giustizia italiana non è riuscita a cavare un ragno dal buco? C’è da augurarselo anche se i dubbi e le questioni ancora aperte sul caso sono molti, complessi e con le caratteristiche di un intrigo internazionale.
“Ilaria è stata uccisa con una esecuzione, con solo colpo alla testa”, continuava a ripetere Luciana Alpi, la mamma di Ilaria (potete vederla e sentirglielo dire direttamente con le sue parole cliccando qui). “Doveva morire lei per via dell’inchiesta su traffici di armi e rifiuti tossici che era andata a fare nella città di Bosaso”. Luciana Alpi, per 24 anni, non ha mai cessato di chiedere verità e giustizia per la morte della figlia ed è morta lo scorso 12 giugno senza aver potuto sconfiggere 24 anni di menzogne e depistaggi: non ha avuto, e non avrà, la verità che tanto ha cercato.
Eppure le piste ancora da sondare a fondo e con decisione di certo non mancano. Vi abbiamo raccontato del mistero delle tasche vuote di Ilaria al momento dell’omicidio e del fatto che nessuno avesse mai indagato sul perché le cose di Ilaria fossero state ritrovate in una camera di albergo diversa (la 204 del Salafi Hotel) anziché nella stanza occupata da Ilaria (la 202).
Dall’analisi delle migliaia di pagine di indagini desecretate negli ultimi anni dal Parlamento, scava e scava, saltano fuori molti nuovi misteri. Al centro c’è il ritorno a Mogadiscio dei due giornalisti dalla trasferta a Bosaso, oggetto dell’inchiesta sui traffici di armi che ha decretato la loro condanna a morte. A parte il Tg3, a cui Ilaria ha chiesto di prenotare il satellite per trasmettere il suo ultimo servizio, nessuno sa quando Ilaria sarebbe tornata a Mogadiscio. Forse lo sa solo chi gestisce il volo: Unosom (le forze Onu). Non lo sanno nemmeno le sue guardie del corpo e il suo autista.
Torna Ilaria?
Secondo le testimonianze di Sid Ali Abdi, l’autista, e di Mahmud Nur Abdi, la guardia del corpo, il posto giusto per avere informazione sugli spostamenti e i programmi di viaggio di Ilaria e Miran, il 20 marzo, non è il servizio trasporti di Unosom ma, chissà perché, una ong Italiana operativa all’epoca in Somalia: il Cisp (Comitato internazionale per lo Sviluppo tra i Popoli).
La mattina del delitto, mentre il contingente di pace internazionale Restore Hope abbandona il Paese lasciando la Somalia al suo destino, l’autista di ilaria e le sue guardie del corpo si recano presso l’ong, che si trovava a Mogadiscio Nord, la zona controllata dal generale Alì Mahdi (alleato di americani e Italiani), a pochi passi dal punto in cui poche ore dopo i due giornalisti saranno uccisi. È così che vengono informati che Ilaria sarebbe partita da Bosaso alle 12 e quindi, pensano, o viene loro suggerito, di andare ad aspettarla presso l’ambasciata americana, dove è in funzione una elinavetta che trasporta i passeggeri in arrivo all’aeroporto di Mogadiscio.
Ma Ilaria e Miran non arriveranno mai all’ambasciata Usa perché, mentre la loro scorta è stata depistata, qualcun altro li sta aspettando all’aeroporto (Nota 1 delle fonti che trovate in fondo all’articolo) per riaccompagnarli all’Hotel Shafi. Qualcuno, che disponeva di un mezzo e di una scorta armata e, ovviamente, della precisa informazione del loro arrivo. L’ identità di questi “accompagnatori” non è mai stata scoperta. Non si tratta di un dettaglio perché, in base alle testimonianze, proprio mentre i due giornalisti Rai sbarcano a Mogadiscio, il commando omicida prende posizione davanti all’Hotel Hamana (2). La domanda però è: per quale motivo la sede Cisp di Mogadiscio è a conoscenza degli spostamenti dei due giornalisti Rai? E perché la scorta di laria sa di doversi informare lì?
Il top asset della Cia a Mogadiscio
Ci sono solo due risposte possibili. La prima è semplice e innocente, la seconda estremamente curiosa. La prima è che il centro del Cisp disponeva di una stazione radio in grado di raccogliere informazioni, anche se non si capisce bene da chi. La seconda invece è relativa alle particolarissime frequentazioni della responsabile del Cisp in Somalia.
La dottoressa Stefania Pace (3) è stata responsabile regionale del Cisp di Mogadiscio per 10 anni, dal 1988 al 1998. Secondo quanto dichiarato dal Presidente del Cisp, il 20 marzo 1994 la dottoressa Pace non era fisicamente a Mogadiscio. Ma come si vedrà si tratta di un dettaglio non determinante. Secondo quanto ricostruito dal quotidiano americano Washigton Post (4) fino all’agosto del 1993 (ma non sappiamo da quanto tempo prima) Stefania Pace è la compagna del “top Asset somalo della Cia a Mogadiscio”, coordinatore e arruolatore della rete di informatori della agenzia spionistica Usa: tale Ibrahim Maalin (5), morto ufficialmente durante un terribile gioco di Roulette Russa, ma probabilmente assassinato, nell’agosto del ’93.
Agente Condor
Maalin, rampollo di una famiglia di rispetto, ben introdotto politicamente, ricco e figlio di un piccolo signore della guerra somalo, era stato arruolato nella Cia a Mogadiscio da Mike Shanklin (nome in codice Condor) nel 1990 quando questi era vice capostazione con la copertura di addetto commerciale alla ambasciata Usa di Mogadiscio. Nel 1993 Shankin (6) è direttore delle operazioni Cia a Mogadiscio e sovrintende, assieme al capostazione John Garret (nome in codice Crescent) e al suo vice John Spinelli (nome in codice Leopard, un italoamericano a lungo agente di collegamento col Sismi, l’ex Servizio segreto militare italiano), a tutte le attività di appoggio ai militari Usa in Somalia e alla caccia al Generale Aidid, l’odiato avversario dell’altro signore della guerra somalo Alì Mahdi.
Il fatto interessante è che, dopo la morte di Maalin (7), Mike Shanklin ne prende il posto e diventa il compagno e poi il marito di Stefania Pace che, nel 1998, dopo 10 anni di militanza nel Cisp ,e fino al 2001, entra nella azienda di consulenza spionistica messa su da Mike, nel frattempo licenziato dalla Cia (8).
Roba di casa nostra e di casa loro
Un matrimonio contrastato il loro, proprio dalla Cia, determinata ad allontanare un “agente stellare” premiato con la più alta onorificenza prevista per gli uomini dell’Agenzia, in quanto marito di una cittadina straniera. Peccato, carriera finita e un futuro nell’intelligence privata. Stefania Pace, Mike Shanklin, John Spinelli (nonostante risiedano tutti in Italia) non sono mai stati sentiti da nessuno in relazione al caso Alpi nell’arco degli ultimi 24 anni. Certo, non ci sono prove dirette di un loro coinvolgimento nella vicenda.
La fonte del Sisde e le nuove indagini avviate oggi
Prove del ruolo della Cia e di rapporti in Somalia con i nostri servizi segreti nessuno le ha mai cercate. Per esempio in relazione ai mandanti e agli esecutori materiali dell’omicidio dei due giornalisti Italiani indicati dalla Digos di Udine (9), tra cui Ibrahim Hassan Addow, un somalo/americano, prima arruolatore di mujaheddin per conto della Cia (10) e poi portavoce delle Coorti Islamiche. È questo il passaggio chiave. Perché almeno una delle fonti di informazioni (segreta anche questa) ascoltate dalla Digos di Udine, sostenne esattamente le stesse cose poi dette dalla fonte del Sisde, che oggi, secondo la richiesta del Gip di Roma, potrebbe, se rivelata, dare nuovo impulso alle indagini.
Non è cosa da poco. Soprattutto pensando alla testimonianza di quell’ufficiale dei Carabinieri del Tuscania (il Tenente Stefano Orsini, di stanza a Mogadiscio) che mise a verbale di aver appreso, non al bar, ma da personale dei nostri servizi segreti militari e da personale della delegazione diplomatica Italiana a Mogadiscio, che il mandante dell’omicidio di Ilaria e Miran sarebbe stata la Cia (11).
Davvero, per la dignità del nostro Paese c’è ancora molto da scavare. Forse tutte le domande hanno una risposta esauriente, innocente e semplice, o forse no. Il fatto è che sono domande che nessuno ha mai posto.
Finora il nostro Paese non ha saputo fare di meglio che condannare un innocente, Hashi Omar Hassan, a 26 anni di carcere per l’omicidio Alpi-Hrovatin che, come stabilirà il Tribunale di Perugia nel 2016, non aveva commesso. Un capro espiatorio. Il 30 marzo scorso gli sono stati riconosciuti tre milioni di euro di risarcimento per 16 anni di ingiusta detenzione.
Di Omar Hashi Hassan abbiamo parlato nel 2015, mentre era ancora in carcere, in un servizio, dopo che ci aveva mandato un messaggio video chiedendoci aiuto. Raccontavamo come già da tempo la testimonianza di Ahmed Ali Rage, detto Gelle, su cui si reggeva la condanna di Hashi (attirato in Italia con un tranello dal ministero degli Esteri e subito arrestato), era fasulla.
Guarda qui sotto il servizio integrale di Giulio Golia.