di MOWA
Perché citare nel titolo Mercadet, “genio” della speculazione creato da Honoré de Balzac, che scrupolosamente amministrava una ricchezza che non esisteva, una ricchezza negativa?
Un Mercadet, insomma, che qualcuno avrebbe paragonato ad un Sisifo riproducente illusioni di una ricchezza che non c’é più… un autentico imbroglione, procacciatore di dubbi affari, architetto di imprese sballate.
Presto detto, anche se il paragone è sul versante squisitamente politico e non economico come nei racconti di Balzac.
La vicenda riguarda gli ultimi accadimenti della formazione Potere al popolo, dove vengono rigenerate vecchie abitudini (o attitudini) individualistiche dedite a smantellare quel poco di aggregato esistente nel mondo di una, ormai, pseudo-“sinistra” che del marxismo ha dato un nequitoso messaggio, arrivando, persino, ad “auto”-minacciarsi sin, forse, nelle aule giudiziarie.
Una degenerata formazione, quella di Potere al popolo, che ha proseguito il proprio cammino imborghesita da vari personaggi (lontani dal marxismo e più simili all’anarchismo azionista), diversamente dislocati nei vari partiti della sinistra (prima ancora quelli oggettivamente comunisti come il P.C.I. dove si trovavano, ad es., i Walter Veltroni, Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema…), che hanno perseguito nel loro “marketing personale“ come ben descritto dallo stratega comunista delle Pantere Nere, Stokely Carmichael:
“degli organizzatori politici e sindacali della vecchia sinistra…che dall’internazionalismo scenderanno al discorso politico locale…, con giovani leaders, oggi polemici e vicino alle masse, domani anche loro, disposti a trattare, a intascare, a minimizzare, a ingannare” (in Strategia del potere nero, Laterza)
e che lapidariamente Karl Marx definì con:
«Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti»
i cui leader (sic!) (di Potere al popolo) tendono a smantellare, invece di unire, un proletariato sano, che avrebbe, invece, bisogno di riferimenti ricchi di incompromettibili valori e principi contro la “zozzeria” propinata da un capitalismo che “foraggia” (anche, mediaticamente) dei “capipopolo” ben descritti, nella loro genesi, nelle ultime tesi delle sezioni comuniste Gramsci-Berlinguer in codesto modo:
“…Lo stesso Cossutta subito dopo pose le basi di Rifondazione Comunista – mai comunista nel suo percorso politico, così come tutte le sue filiazioni: PDCi, SEL, PC di Rizzo, ecc. – per convogliare e segregare in una specie di “riserva indiana” i comunisti che si sentivano, a ragione, traditi dalla nuova dirigenza del Partito comunista Italiano snaturato nel PDS, e cooptando al suo interno gran parte di quei partitucoli, Democrazia proletaria su tutti, che a parole si ponevano alla sinistra del PCI, ma che nei fatti erano portatori di una cultura azionista di matrice mazziniana e radical borghese. L’attuale segretario di Rifondazione Comunista [Paolo Ferrero, ndr], ad esempio, fu dirigente di DP fin da giovanissimo, ma non può essere certo definito comunista: al massimo valdo-keynesiano” [1]
Significativo e distante dai bisogni di una giustizia comunista (ma pannelliano) fu l’esordio del programma elettorale di Potere al popolo (che lasciò basiti molti) che aveva dell’equivoco, anche se edulcorato da un ammaliante storytelling umanitario con richieste tanto desiderate dalla malavita come l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis. Inizio di un contenitore della ribellione proletaria.
Tant’é che questa formazione è ben lontana dagli insegnamenti gramsciani che sostenevano una visione di partito:
«Non si è concepito il partito come il risultato di un processo dialettico in cui convergono il movimento spontaneo delle masse rivoluzionarie e la volontà organizzativa e direttiva del centro, ma solo come un qualcosa di campato in aria, che si sviluppa in sé e per sé e che le masse raggiungeranno quando la situazione sia propizia e la cresta dell’ondata rivoluzionaria giunga fino alla sua altezza, oppure quando il centro del partito ritenga di dover iniziare una offensiva e si abbassi alla massa per stimolarla e portarla all’azione». [lettera a Togliatti e Terracini del 9-11-1924]
Ma, anche, in contrasto con la concezione bordighiana, settaria, del partito che affermava che “coscienza e volontà” non si possono pretendere dai singoli militanti; esse risiedono nell’”organismo collettivo unitario”: in altre parole, come ebbe a scrivere Gramsci nel 1925 ricordando le tesi del II Congresso (Roma, 1922) del Partito Comunista d’Italia,
«…la centralizzazione e l’unità erano concepite in modo troppo meccanico: il comitato centrale, anzi il comitato esecutivo era tutto il Partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo».
Non sono sufficienti slogan elettorali come “Abbiamo aspettato troppo… Ora ci candidiamo noi!” per attirare l’attenzione dei bisogni degli oppressi, ma concretezza che si misuri nell’agone politico in azioni partendo, magari, dall’alzare la voce, come nella tradizione proletaria e, anche, dal richiedere che le fabbriche in crisi vengano (stando alla Costituzione) messe in condizione di avere l’intervento massiccio dello Stato e, magari, in autogestione… invece, di vederle chiudere o andare all’estero.
Ma, forse, ci vuole un partito che sia veramente comunista e, all’orizzonte, al momento, non si vede!