ARIS MESSINIS / AFP
Francesco Francio Mazza
Altro che “indagato tra indagati”: Luca Lucci, l’uomo che parlotta fitto con Matteo Salvini alla festa della Curva Sud del Milan, è un uomo con precedenti per droga, risse e non solo: sapeva il ministro dell’interno con chi aveva a che fare? E può essere così sprovveduto?
“Sono un indagato tra gli indagati!”.
È stato questo il commento di Matteo Salvini, ovvero della persona alla guida del Ministero da cui dipende la Polizia di Stato, a chi gli ha chiesto conto della foto in cui stringe la mano e parla fitto fitto assieme a Luca Lucci, storico leader della Curva Sud, organizzazione che gestisce il tifo organizzato milanista.
Molti giornali hanno ricordato come Lucci abbia recentemente patteggiato un anno e mezzo per una faccenda “di droga”, ma il curriculum di “Toro” – questo il soprannome del nuovo conoscente del Ministro dell’Interno – è in realtà un pò più complesso.
Durante il derby di Milano del 15 febbraio 2009, la curva rossonera srotola un grosso striscione all’ingresso delle squadre in campo. La “coreografia” è come al solito enorme e spettacolare: ma invece che riavvolgere lo striscione prima del fischio d’inizio, gli ultras lasciano lo striscione a penzolare, impedendo ai tifosi interisti, situati al primo anello, di vedere la partita.
Passa un minuto, poi due, poi cinque. Da sotto, gli interisti della Banda Bagaj, letteralmente “banda bambini”, un club nerazzuro nato per portare i bambini allo stadio, chiedono di rimuovere lo striscione, come accaduto sempre nei decenni precedenti durante i derby con i cugini.
Il problema è che lassù, al secondo anello, le cose da qualche anno sono cambiate.
La storica Fossa dei Leoni, il gruppo ultras nato nel 1968 di cui ieri ricorreva il cinquantennale, non esiste più. È stato sciolto per un’oscura vicenda che ha visto la Fossa contrapposta ai Viking, un gruppo ultras della Juventus allora guidato da un certo Loris Grancini.
Grancini non è un tizio qualunque: il 9 maggio 1998 sopravvisse per miracolo, nonostante due proiettili in testa, alla “sparatoria di via Faenza”, lo storico regolamento di conti tra clan che trasformò il quartiere milanese della Barona in un far west, lasciando sull’asfalto trenta bossoli di mitraglietta.
Sciolta la Fossa, il suo posto nella curva rossonera viene preso dai Guerrieri Ultras, guidati da Giancarlo Lombardi detto Sandokan. Lombardi, curiosamente, è molto amico di Gianchini, tanto che il 22 ottobre 2006, quando Grancini viene arrestato con l’accusa di aver fatto sparare a un uomo che “gli ha mancato di rispetto”, la curva del Milan espone lo striscione “i colori non cancellano l’amicizia – Loris libero”.
In seguito, Lombardi viene condannato a 3 anni e 8 mesi e finisce coinvolto in un’inchiesta che coinvolge il clan mafioso dei Fidanzati (che in quegli anni, a Milano, controlla buona parte dei locali della “movida”): il suo posto di leader viene preso dal suo luogotenente Lucci, che durante quel derby del febbraio del 2009, di rimuovere lo striscione non ha nessuna voglia.
Nasce una discussione, al termine della quale i tifosi dell’inter, esasperati, per guardarsi la partita sono costretti a strappare un pezzo di striscione: così, per lavare l’onta, gli ultras del Milan organizzano una spedizione punitiva al primo anello, in un settore dello stadio occupato da tifosi dell’inter “normali”, inclusi bambini e famiglie.
Ed è durante il parapiglia, che chi c’era ricorda come una vera mattanza, che il Lucci sferra un pugno in faccia a Virgilio Motta, spappolandogli un bulbo oculare e rendendolo per sempre cieco dall’occhio sinistro.
Il 17 luglio del 2009, il giudice Alberto Nosenzo condanna in primo grado Lucci a quattro anni e mezzo di carcere, riconoscendolo come l’uomo ad aver materialmente sferrato il cazzotto, e stabilendo una provisionale di 140 mila euro a titolo di risarcimento a favore del Motta.
Peccato che Motta, dopo essere stato apostrofato dalla moglie del Lucci “maledetto infame” alla lettura della sentenza, quei soldi non li vedrà mai: i suoi aggressori sono riconosciuti come nullatenenti. In seguito, a causa della cecità, Motta perde il lavoro, sprofonda in un crisi depressiva e si suicida il 24 maggio 2012 lasciando la moglie e una bambina.
Ma c’è dell’altro. Per un caso del destino, quel 15 febbraio 2009 al Tribunale di Milano è di turno la PM Celestina Gravina, che indagò sulla morte dell’avvocatessa Maria Spinella, trivellata dai colpi di una mitraglietta skorpion dal killer della ‘ndrangheta Luigi Cicalese.
Cicalese, nel frattempo, ha confessato e nel raccontare la dinamica dell’omicidio spiega che l’auto utilizzata durante l’agguato era una Clio nera, intestata proprio a Luca Lucci ed ottenuta grazie all’intercessione di un altro ultras milanista, e grande amico di Lucci, Daniele Cataldo.
Le cronache di allora raccontano lo stupore del Lucci quando in aula per il processo Motta si sente rivolgere dalla dottoressa Gravina l’inaspettata domanda su un delitto di ‘ndrangheta.
Quelle di oggi, invece, mostrano il volto sorridente di Lucci parlare a quattr’occhi con il Ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Sapeva, Salvini, la storia di chi aveva di fianco? Se lo sapeva, come ha fatto a rilasciare un commento del genere? E se non lo sapeva, come può un Ministro da cui dipende la Polizia di Stato essere così sprovveduto?
E come può chi vuole il Daspo urbano sedere fianco a fianco con chi il primo Daspo se lo prese nel 2004 in occasione della trasferta Palermo-Milan? Cosa sarebbe accaduto, in un’altra epoca, se in una foto di fianco a un personaggio con quei legami ci fosse stato Andreotti o Berlusconi?
E soprattutto: la famiglia di Virgilio Motta, completamente abbandonata dallo Stato, davanti a quella foto oggi come dovrebbe sentirsi?
Risponda, Ministro. Se non a noi, almeno alla famiglia Motta.
17 dicembre 2018