Vincitore del premio Leonida Repaci 2018 per la saggistica.
Un libro radicale e coraggioso sul baratro che si è venuto ad aprire tra ‘sinistra’ e ‘popolo’ con l’abdicazione della ‘sinistra’ ai compiti e ai fini per cui è nata.
«La conclusione tumultuosa e, per taluni, sconcertante, del secolo XX ha imposto a tutti un drastico ripensamento sulla direzione e sulle dinamiche del ‘movimento storico’, come lo chiamava Tolstoj. Si sa che le grandi crisi – quelle che don Abbondio chiamava ‘colpi di scopa’ – non solo rimescolano le carte e innescano nuovi e diversi rapporti di forza, ma fanno saltare molte ‘filosofie’ della storia e impongono una rinnovata riflessione sul suo senso. Tra il cupo fatalismo assertore dell’eterno ritorno degli stessi fenomeni sia pure con mutati protagonisti e il pervicace ottimismo degli assertori delle inarrestabili ‘sorti progressive’, la lezione epocale della fine del ’900 può – come avvenne anche in altre epoche – aprire una prospettiva critica e realistica: che cioè nessun ritorno è davvero un ritorno al punto di partenza e nessuna restaurazione è davvero tale. Il sinuoso movimento della storia può sprofondarci in deprimenti bassure ovvero innalzarci verso affrettate illusioni. Chi abbia avuto la ventura di vivere crisi epocali e delusioni salutari può tenersi immune da entrambi i rischi: purché sia consapevole del peso delle tradizioni, dell’ingombro dei pregiudizi, dell’insidia costante rappresentata da quel ferino egoismo che costituisce il nucleo del sentire degli umani. Quel nucleo necessita di una drastica, ininterrotta, spesso perdente, educazione all’uguaglianza e alla fratellanza, concetti che datano perlomeno dal 1789. Di tale sinuoso movimento, che non può aver fine, discorre questo libro.» Luciano Canfora
Il moto, che è un fenomeno fisico, è anche un fondamento della storia, quantomeno dei modi di interpretarla. L’intuizione è di Luciano Canfora (autore di La scopa di don Abbondio, Laterza), che la ricava da Guerra e pace di Tolstoj. Il quale c’entra con Manzoni perché fa anch’egli storia scrivendo romanzi, ma ha soprattutto riguardo alla scopa che don Abbondio evoca come una provvidenza minore pensando al flagello della peste che “ha spazzato via certi soggetti” come don Rodrigo. Al pari del movimento che fa la scopa, il moto tolstojano è basculante, giacché avanza, arretra e poi avanza di nuovo. E movimento è detto il divenire storico, il cui moto, a differenza di quello fisico, non è rotatorio, semmai spiraleggiante o meglio ancora “sinuoso”, ovvero serpeggiante. Comunque mai rettilineo perché, contrariamente alla freccia del tempo, torna spesso e volentieri indietro.
Tale è appunto il moto storico concepito da Tolstoj che lo vede in senso olistico, frutto cioè dell’insieme delle volontà individuali (di massa più che di élite, per dire meglio: di persone e non di personaggi) che non hanno soluzione di continuità, diversamente da come riusciamo comunemente a comprendere la storia, quando la scomponiamo in unità compiute e autonome. Tuttavia anche Tolstoj, come nota Canfora, si addisse a raccontare la storia attraverso singole vicende, né riuscì a stabilirne il reale spirito. Come la natura, “non fa salto” né procede a brani scuciti, è vero, ma è tutt’altro che stabile come sarebbe un atomo pesante.
L’idea di Canfora della storia a coda di topo, tale da smentirne l’invalso senso di determinismo per accostarsi più al Leopardi schierato contro le “magnifiche sorti e progressive” che allo storicismo manzoniano dato dal “misto di storia e di invenzione”, si trova nella sua visione in contiguità anche con la felicità oltre che col moto: la felicità consacrata come diritto dell’uomo dalla Costituzione americana e imposta dagli enciclopedisti quale dovere che l’uomo deve soddisfare, ondivaga e instabile anch’essa, progressiva e regressiva, strettamente legata al destino individuale e dunque alla storia generale. “Carta straccia” chiama Canfora la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, donde come strame può essere vista anche la storia e per questa via il diritto-dovere alla felicità. E par di vederla la carta mentre viene stracciata: in modo violento, traumatico. Il teorema di Canfora postula infatti un moto ondoso che la storia subisce più che determinare e lo subisce in maniera “feroce”, come egli definisce “il gorgo” entro il quale si agita il “brutale rapporto schiavile”, quel moto ricorsivo per il quale la schiavitù vinta un tempo riappare sulla scena del mondo per via del capitale produttivo “sempre più dipendente da quello finanziario-parassitario-delinquenziale: cioè dall’onnipotente macchina del credito, vero padrone delle esistenze individuali”. L’esempio fra i più evidenti dell’attuale schiavismo proposto da Canfora è la delocalizzazione della produzione che comporta lo sfruttamento del lavoro.
Il moto violento della storia, riflesso della furia feroce della peste manzoniana e della febbrile scopa di don Abbondio valsa come turbinoso flagello, è l’esito che sortisce il moto continuo della storia stessa – non frantumabile, non scomponibile come vedeva fare invece Tolstoj – all’incrocio quindi di Manzoni e Tolstoj nel punto in cui il divenire umano appare fuori controllo, con l’innesco forse di un processo entropico che Canfora, irriducibile storico del dubbio e dell’indeterminatezza, antidogmatico par excellence, lascia solo supporre. La storia, nell’immagine dello studioso pugliese, è una vecchia talpa che scava tunnel diretti a esiti inattesi: “inediti”, scrive precisamente Canfora per segnalare come poco si sia scritto circa tali esiti e la loro natura ingovernabile. Il sogno di ogni governante di dirigere la storia si è sempre infranto contro il moto continuo della storia rivelandosi un’utopia. La più grande è stata quella comunista. L’ideale marxista-leninista di una società (prima europea e poi mondiale) fondata sull’eguaglianza è andato via via sfumando per colpa di coscienze, “impazienti” di vedere realizzata la rivoluzione, che hanno nelle more scelto la prospettiva riformista lungo la cui linea si sono infine ritrovati nella sfera socialdemocratica. Questo perché le rivoluzioni, ci dice Canfora, echeggiando un po’ Merleau-Ponty, valgono come movimenti – moti appunto – ma cedono come istituzioni, quando sono prese da una voglia di diseguaglianza che ne fa forme di assolutismo (il bonapartismo successivo alla Rivoluzione francese, il bolscevismo seguìto alla Rivoluzione russa) più severe di quelle che hanno abbattuto. Di qui lo spiraleggiamento della storia che i nuovi impazienti della sinistra perseguono nella ricerca di rinnovate utopie, senonché il risultato è un avvitamento.
Tale è il processo ecumenico che la Chiesa cattolica ha da tempo avviato nei confronti non solo delle altre confessioni cristiane ma, per Canfora, pure delle altre fedi religiose quali l’islamismo e il buddismo: entro una estensione un po’ forzata del termine “ecumenismo” per indicare, nella spinta a ricercare punti in comune, il regresso a una concezione del divino di tipo deistico-illuministico. Anche qui il moto violento e continuo della storia ha mostrato il suo tipico andamento sinuoso. Del quale abbiamo avuto altre prove significative: mentre infatti negli Usa divampava la Guerra di Secessione, scoppiata sulla questione della schiavitù, in Russia veniva abolita la servitù della gleba e in Inghilterra nasceva la Prima internazionale. Nella direzione del bene comune e del progresso, la foce della storia si confermava quindi a forma di delta anziché di estuario. Così è stato del resto per le guerre coloniali e poi per le due guerre mondiali: concepite per sottomettere nazioni del Terzo mondo e per spartire quelle del primo e del secondo, hanno segnato piuttosto “l’irruzione come soggetti attivi, non più come prede, nella storia mondiale, dei popoli oppressi”. Un rivolgimento inatteso dunque ed anche inedito, che tuttavia non ha insegnato molto, come gli altri fenomeni del moto violento della storia, se tutt’oggi assistiamo anche in Italia ad analoghe manifestazioni. Anch’esse violente e in parte chiamate da Canfora “fascistiche”, termine che costituisce l’evoluzione di quel “fascismo-aggettivo” che Vittorini opponeva al “fascismo-sostantivo” per dargli una connotazione in qualche modo positiva, sterilizzata nella sua contingenza storica e privata dell’intimo senso di sopraffazione: un fascismo “buono” com’è oggi quello per esempio americano, contrapposto al fascismo-regime che Canfora vede come storicizzato ma non per questo irrecidivante.
Fascistici sono i movimenti populisti e sovranisti al governo in Italia e all’opposizione in Francia, il cui pragmatismo ideologico è fondato, in un quadro di “contraddittorie retoriche”, sul chimerico programma di avvicinamento delle classi più povere a quelle più ricche, con l’additare ad entrambe – per accomunarle in un’unica istanza nazionale – le due grandi empuse che sono complementari una all’altra: l’euro come fattore di impoverimento delle classi deboli nonché motivo di avversione contro l’Europa e “la migrazione che esaspera quei medesimi ceti deboli penalizzati dalla moneta unica”. In questo modo la xenofobia agitata dalla Lega diventa mezzo di sostegno dell’euroscetticismo e nello stesso tempo scava il baratro tra sinistra e popolo, per cui si ha che la prima “(En marche in Francia, il Pd in Italia) si è assunta il ruolo di puntello dell’élite sedicente europeista; il parafascismo leghista e lepenista si propone come paladino del ‘popolo’, mescolando torti e ragioni”.
Il moto della storia ha rovesciato in sostanza le posizioni: esprimersi oggi contro le diseguaglianze sociali significa, secondo Canfora, strizzare l’occhio alla destra, che nei fatti si è sostituita alla sinistra nella difesa delle rivendicazioni popolari, divenute populiste per via dei loro giochi. Di qui ancora una volta la violenza del moto continuo della storia, che distorce i fatti nel loro sviluppo e pone anche una fondamentale questione esistenziale che diventa anche questione sociale: lo stato di infelicità dell’uomo in balia di moti che non può e non sa controllare.