In occasione del ciclo di incontri Per Tullio De Mauro, che si tiene in questi mesi presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, riproponiamo una intervista allo studioso scomparso due anni fa, pubblicata su Alfabeta2 (edizione cartacea) nel settembre 2011. (…)
Giuseppe D’Ottavi e Christian Raimo
Che cos’è un’intervista sulla scuola?
Parlare di scuola significa parlare di come una società se ne occupa. Isolare i problemi degli insegnanti, degli alunni, delle strutture o dei programmi dal contesto è fuorviante. Concentrarsi su singole porzioni di questo insieme complicato e strutturalmente interrelato con le diverse classi sociali e con l’impegno (o il non-impegno) dei gruppi dirigenti mi sembra sbagliato in linea di principio.
Il campo di gioco è proprio questo: la scuola come luogo di incubazione e consolidamento di democrazia.
Eh, magari. Se democratico è il mandato, o se comunque la scuola riesce a sviluppare una sua iniziativa in questo senso. Quest’anno mi è capitato di esaminare molti progetti interessanti che ripercorrono la nascita della Costituzione e la storia della scuola di allora. Naturalmente la scuola degli anni Quaranta era una scuola che non è stata priva di responsabilità nella formazione di una coscienza antifascista presso piccoli, anche piccolissimi gruppi, grazie a un certo numero di insegnanti illuminati; nel complesso però era una scuola irreggimentata, che incubava non la democrazia, ma la fedeltà al regime e alla patria fascista. La scuola può essere tutto: dipende da come viene orientata o costretta a orientarsi.
Qui arriviamo a toccare il tema del suo scambio recente con Paola Mastrocola sulle pagine del «Corriere della Sera». L’orizzonte sembra lo stesso: una concezione della scuola come depositaria del Sapere, a fronte di un’idea di scuola il cui compito primario invece sia quello dell’inclusione sociale.
Paola Mastrocola esprime con molta ingenuità e chiarezza quest’idea della scuola come trasmissione: dice che dei suoi venticinque alunni, ventiquattro sarebbe meglio che andassero a spasso e uno è bravo. Demonte (il cognome lo fa lei stessa) è bravo perché quando risponde – racconta Mastrocola – ripete esattamente le parole che ha usato lei. Ecco, questo è un ideale di insegnamento non raro purtroppo, ma che oggi quasi nessuno confesserebbe così candidamente. Pietro Citati ha lodato il libro di Mastrocola perché – sostiene – riporta in auge la scuola come deve essere fatta; Cesare Segre, accademico dei Lincei, l’ha esaltata perché farebbe giustizia – finalmente! – delle malefatte di due figuri che hanno ferito a morte la scuola italiana: Gianni Rodari, che avrebbe trasformato le prime elementari in classi di stupidotti che non fanno altro che giocare, e don Lorenzo Milani che avrebbe devastato l’apparato formativo italiano. Quindi Mastrocola è tutto tranne che sola, anche se si presenta come un guerriero solitario, «Orazio sol contro Toscana tutta»… invece proprio Matteo Renzi, in una delle sue esternazioni leggiadre, ha proclamato il suo apprezzamento per il libro di Mastrocola tanto da volerlo distribuire nelle scuole fiorentine… che peraltro lo rispediranno al mittente. C’è insomma un senso comune che chiede che la scuola sia trasmissione del Sapere – dalle pagine di Mastrocola sembra di capire che questo Sapere coincida essenzialmente con la Gerusalemme liberata da lei letta in classe con scarso interesse dei suoi alunni, coi quali io solidarizzo di tutto cuore. Tutto questo testimonia il mancato ripensamento in Italia di contenuti e metodi dell’insegnamento medio-superiore. Ripensamento che si sarebbe reso necessario dopo quello che è successo negli anni Cinquanta e Sessanta.
Alla fine degli anni Sessanta Aldo Visalberghi colse un nodo centrale della questione cercando di avvertirci del fatto che con la scuola media unificata si sarebbe aperta una grande corsa all’istruzione e si sarebbe sviluppata la tendenza a inglobare il 100% delle ragazze e dei ragazzi che escono dalla scuole di base (in realtà ci abbiamo messo trent’anni, anzi ancora non ci siamo riusciti). Ebbene, questi ragazzi vorranno in gran parte andare alle secondarie superiori. Ma il ripensamento che si è verificato per la scuola elementare e media ma non c’è stato assolutamente per i licei. Se ne parla dal 1969, quando fu promosso da Visalberghi e da altri pedagogisti un primo convegno su questo tema: come riorganizzare l’apprendimento dei contenuti? Perché non è in questione la Gerusalemme liberata, che può anche essere letta nelle medie superiori italiane, piuttosto: a contenuti fermi – magari integrati, arricchiti a seconda dei casi – quali possono essere le modalità di apprendimento per studenti che vengono, come nel caso italiano, da strati sociali in cui non è mai entrato un libro, un giornale, in cui si parla poco e niente…? Questi ragazzi si trovano nel deserto culturale caratteristico del nostro paese. Occorre insistere perché si dia finalmente l’avvio a un ripensamento radicale.
Tempo fa anche su «Le Monde Diplomatique» si parlava di scuola. Qualche economista sosteneva che l’istruzione di massa degli anni Cinquanta-Ottanta fosse il risultato della fiducia in un capitalismo progressivo e in un’idea di futuro nel quale ci sarebbe stato bisogno di figure professionali sempre più qualificate. Non è andata così, siamo nell’epoca della crisi e da vent’anni ormai si è imposta una tendenza diversa, una polarizzazione delle qualifiche: professionalità molto alte a fianco di competenze molto basse.
L’idea che la conoscenza sia così tagliabile a fette, e che ci siano quindi delle fette basse mangiabili ignorando quelle alte, forse può funzionare per costruire automi, non nella pratica della formazione. Io la penso come Aldo Visalberghi, come Martha Nussbaum e tanti altri, cioè come coloro che pongono il problema della formazione democratica, della necessità di fornire a tutti le capacità di orientarsi nelle scelte di una società complessa che richiede a ognuno un livello di competenza impensabile cinquant’anni fa. Oggi per capire come votare per un piano sulle risorse energetiche di un paese – posto che abbia senso parlarne limitandosi a un unico paese – l’informazione minima necessaria è fuori della portata di buona parte della popolazione italiana, anche dei segmenti più istruiti. L’idea di una competenza alta cui soltanto pochi possono accedere – accademici dei Lincei, fisici nucleari, linguisti di rango internazionale e altri pochi eletti – viene messa in discussione da anni. Oggi se voglio capire che cosa trovo nei banchi del supermercato e cosa mi porto nel frigorifero di casa, per capire l’abc insomma, ho bisogno di livelli di cultura che mio padre – laureato – poteva non avere. Figuriamoci mio nonno. Quando diciamo «ripensamento della scuola media superiore» chiediamo una scuola molto più severa, che sia in grado di servire competenze più diversificate e più complesse di quanto non fosse richiesto anni fa.
Cosa ne è della politica scolastica come grande tema della sinistra?
Storicamente la sinistra italiana ha avuto grandi meriti nel promuovere la riflessione collettiva sui temi della formazione e dell’istruzione, dagli asili nido alle Università. Dopo l’exploit della legge di riordinamento dell’architettura complessiva delle forme dell’istruzione voluta da Luigi Berlinguer, la sinistra italiana è andata progressivamente dimenticandosi questi temi, fino direi all’abbandono completo. Negli anni Ottanta e Novanta Romano Prodi è stato uno dei pochi davvero attenti a questi problemi; ma tornato una seconda volta al Governo se ne è dimenticato anche lui. Nelle amministrazioni locali le cose sono sempre state un po’ diverse – è l’elaborazione centrale che manca.
Chi ha posato lo sguardo sui problemi della scuola in generale ha avuto sempre parole di crisi. Oggi sembra che la retorica sia mutata, e si gridi all’emergenza…
Stiamo parlando dell’Italia però. In termini di punti di bilancio pubblico destinati all’istruzione, la situazione internazionale è incomparabilmente superiore alla nostra: Germania, Francia, Stati Uniti, ma ormai anche Venezuela, Brasile, India, i paesi dell’Est Europa – per non citare la solita Finlandia – si muovono su altri piani rispetto alla catastrofica disattenzione italiana. Si impostano campagne elettorali sui modi d’intervento dell’organizzazione scolastica. I governi conservatori – da Sarkozy a Merkel – hanno un impegno in materia di promozione della scuola che Diliberto, per dire, non si immagina nemmeno…
Allora, da dove riprendere il discorso? Chi vuole fare della scuola il proprio campo d’impegno civile e politico, da dove può ricominciare?
È difficile dirlo. Un buon inizio potrebbe essere quello di far circolare informazione. Sono i dati stessi che mancano, questo è un settore difficile da seguire. Gruppi di pressione: si può provare a costruirli, abbiamo provato a farlo all’inizio del Berlusconi 2. Non bisogna stancarsi. I buoni libri ci sono già, scritti da bravi economisti, quelli del gruppo la voce, Tito Boeri, Daniele Checchi. Questi sanno molto meglio di me come stanno le cose e provano anche a dirlo, ma le loro sono parole al vento. È difficile capire come dare uno scossone. Non ci riescono nemmeno i precari, che sono la carne da cannone di una guerra mancata: una guerra che dovrebbe fare l’opposizione, ma che l’opposizione non fa.
Lei ha sempre legato il suo impegno nel campo della scuola alla ricerca linguistica. L’educazione linguistica come strumento di formazione civile, politica e democratica: un’idea minoritaria ma che è passata. Pensa che questa prospettiva sia ancora vitale?
È un’idea che lentamente ha fatto passi nel mondo. L’idea che l’educazione linguistica sia un pilastro per l’educazione tutta – e anche per l’interazione multiculturale – ha fatto molta strada. Insieme a questa, ha cominciato a camminare la convinzione che una parte dello studio linguistico possa essere fatta guardando ai processi educativi e al ruolo che vi ha il linguaggio. Cosa succederà in Italia è difficile dirlo, perché è in atto un assedio. Tremonti, con le sue idee da fiscalista della cultura, ha in mente uno smantellamento di tutte le strutture di formazione della vita culturale, quasi dell’attività intellettuale in toto.
Il frutto della crisi della scuola secondaria superiore è l’abbandono precoce, alle soglie del diploma. Questa è una condanna a morte che grava sulla giovane generazione e coinvolge tutti i paesi, non solo l’Italia. Italiane sono le dimensioni: da noi 200.000 studenti, un terzo degli iscritti al primo anno, arrivati alle soglie del diploma mollano. Di questi 200.000 due terzi vanno a ingrossare l’esercito dei «bamboccioni», ragazze e ragazzi che non studiano più, non si formano e non lavorano: un danno terribile per l’intero sistema sociale. Si tratta di un fenomeno trasversale, non legato al familismo italiano… anzi per fortuna c’è il familismo italiano, per assurdo, sennò sarebbe la fame… Tutto questo non chiama in causa solo la scuola, ma la mancata riorganizzazione di tutti i corpi sociali.
Questa, che è una faccia della crisi tra le meno visibili, non è in parte compensata da un’educazione di tipo informale che avviene al di fuori della scuola?
Certo, ma va per i fatti suoi e non dà frutti se non c’è una formazione critico-scientifica che ne consenta l’assimilazione. In mancanza d’altro, certo, Internet è una salvezza. I ventiquattro alunni che non ascoltano la Gerusalemme Liberata dalla Mastrocola andranno su Internet e vi troveranno stimoli, notizie, sollecitazioni.