di Davide de Bari
Processo Messina Denaro: in trasferta a Firenze sentiti Sinacori, Di Matteo e Geraci
Il progetto di attentato a Roma contro Giovanni Falcone, Maurizio Costanzo, Michele Santoro ed Enzo Biagi, l’attentato al dirigente del commissariato di Mazara, Rino Germanà, il 14 settembre ’92, l’omicidio del boss di Trapani, Vincenzo Milazzo e della sua compagna Antonella Bonomo. Sono questi gli argomenti principali trattati mercoledì all’udienza in trasferta a Firenze del processo al super latitante di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro, che è imputato per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e Via d’Amelio.
Il collaboratore di giustizia, Vincenzo Sinacori, ex reggente del mandamento di Mazara del Vallo, ha parlato di una riunione dove si sarebbe programmata la partenza per Roma per colpire Falcone, Costanzo ed altri obbiettivi. “Agate mi disse andiamo a Castelvetrano che c’è lo zio Totuccio che ci vuole parlare. – ha detto – Quando siamo arrivati ho incontrato altre persone e in quell’occasione ci illustrò la situazione, dicendo che dovevamo partire per Roma e cercare Falcone per rompergli le corna sia a lui che ad altri personaggi, come Costanzo, Martelli e qualche giornalista; perché parlavano male di Cosa nostra”.
L’ex reggente di Mazara del Vallo ha parlato della costituzione di un gruppo denominato la “supercosa” che era alle dipendenze dirette di Totò Riina, una sorta di “risposta alla super procura antimafia che voleva Giovanni Falcone”: “Lui (Riina) formava dei gruppi che dovevano stare solo alle sue dipendenze. Gruppi che non avevano bisogno di comunicare al capo mandamento. Eravamo io, Matteo Messina Denaro, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, che portarono all’interno altre persone come Lorenzo Tinirello, Fifetto Cannella per il mandamento di Brancaccio, mentre Matteo aveva portato Francesco Geraci. Poi non so se c’erano anche altri gruppi”.
La squadretta su Roma
E proprio questa squadra fu affidato l’incarico di recarsi a Roma ed iniziare a pianificare gli attentati e a loro furono affiancati anche i Nuvoletta di Marano, segno che le stragi non erano solo un fatto interno di Cosa nostra ma riguardava anche altre organizzazioni criminali: “Sono venuti anche loro a Roma, ma prima a Palermo è venuto Ciro Nuvoletta e uno che si chiamava Maurizio. Io lì ho accompagnati da Riina e in quell’occasione gli disse che se avevamo bisogno su Roma si dovevano mettere a disposizione mia”. Il collaboratore, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci, ha raccontato i tentativi fatti per individuare il giudice Falcone e il ministro Martelli nelle zone maggiormente frequentate dai soggetti, come ad esempio ristoranti nei pressi della Cassazione e del Ministero di Grazia e Giustizia, ma la ricerca non diede alcun risultato. “Per Martelli noi andavamo in via Aurelia ma non l’avevamo mai visto. Avevamo un’indicazione per cercare Falcone che frequentava un ristorante che si chiamava Amatriciana ed invece il ristorante era Il Carbonaro. Credo che era nei pressi della Cassazione in via dei Gracchi. Però non l’abbiamo mai visto. Poi siamo andati da Costanzo. Non siamo mai entrati all’interno del Teatro (Parioli, ndr) ma solo dall’ingresso principale per vedere come usciva e i movimenti che faceva. Per diversi giorni lo abbiamo seguito e utilizzava una strada facile”. Per uccidere Falcone, ha spiegato il teste, l’ordine era che “se dovevamo utilizzare le armi potevamo agire senza alcun altro consenso. Invece se dovevamo utilizzare l’esplosivo dovevamo avvisare Riina. Avevamo intorno ai 100kg in due sacche. Ma i detonatori non li avevamo, non ricordo chi doveva portarli su. Io non sapevo confezionare l’esplosivo e nemmeno Matteo (Messina Denaro, ndr) credo”. Valutate le varie possibilità di attentato ad un certo punto Sinacori viene rimandato in Sicilia. “Con Matteo e gli altri abbiamo parlato e poi deciso che si poteva fare solo Costanzo – ha continuato il teste – Con le armi potevamo farlo su un viale che prendeva lui mentre con l’esplosivo quando usciva dai Parioli e prendeva una strada piccola, dove c’era un cassonetto che si poteva piazzare qualcosa lì. Noi abbiamo percepito che oltre l’autista, Costanzo aveva una scorta e dove abitava vicino la Cassazione c’era una persona sempre armata quindi si sarebbe dovuto utilizzare l’esplosivo. Per questo si doveva avvisare Riina. Scendo io e lo stesso giorno arrivo a Palermo e vado da Biondino per parlare con lo zio Totuccio. Lui mi fa aspettare un attimo e va a vedere se posso incontrarlo. Ricordo che prima di me era salito Brusca, che lo vidi scendere. Poi incontrai Riina e gli spiegai la situazione, ma lui mi disse di tornare giù perché aveva trovato una soluzione migliore. Sono tornato a Roma e ho spiegato a Matteo la situazione”. In quel momento la squadra inviata a Roma per uccidere Falcone, Martelli e Costanzo viene richiamata. Come è noto il giudice sarà ucciso a Capaci, il 23 maggio 1992 mentre per Maurizio Costanzo si procederà con un attentato il 14 maggio 1993, in via Fauro a Roma, fortunatamente senza mietere vittime.
Una foto d’archivio di Matteo Messina Denaro e l’ultimo identikit realizzato e diffuso sulla base delle informazioni fornite da un confidente
Il tentativo di aggiustamento del maxiprocesso e l’attentato a Germanà
Il collaboratore di giustizia ha anche parlato del tentativo da parte di Cosa nostra di intervenire sull’esito del maxiprocesso: “Si sapeva che Riina si interessava tantissimo per il maxi. Era risaputo”. Sinacori ha ricordato un episodio in cui insieme a Francesco Messina, detto “mastro Ciccio”, andarono a Roma per parlare con un certo Paolo: “Paolo ci disse che non funzionava più come una volta. Ora le sezioni giravano e ci diede delle indicazioni su chi poteva essere il presidente della sezione. Questo l’ho riferito a mastro Ciccio che poi l’ha detto a Riina”. Successivamente quando si capì che non c’erano più speranze “voleva fare piazza pulita, così ordinò che ciascuno di noi nel proprio paese iniziasse a ‘pulite le scarpe a casa’. Così si iniziò con Salvo Lima. E noi a Mazara con Germanà”. L’ex capo mandamento di Mazara ha poi ricordato il piano d’attentato nei confronti del commissario. “L’attentato era un discorso che andava avanti già da tempo in quanto Germanà era un investigatore che dava fastidio nel trapanese – ha spiegato – In Cosa nostra c’era una commissione sulla carta mentre in realtà c’era un commissario che era Riina che decideva lui. Infatti, Riina non conosceva Germanà, qualcuno andava lì a lamentarsi e quindi mastro Ciccio nel castellamarese e a Castelvetrano Messina Denaro che su di lui Germanà ci andava duro”.
A parlare dell’attentato a Germanà è stato l’altro collaboratore di giustizia, Francesco Geraci, ascoltato dalla corte. Secondo il collaboratore prima di agire sul dirigente della mobile di Mazara, Giuseppe Graviano voleva assassinare il commissario di Castelvestrano Franco Misiti. “Graviano veniva tante volte a Castelvetrano, voleva uccidere il commissario Misiti del mio Paese. Infatti, io e Matteo dovevamo fargli vedere chi era – ha detto – Bisognava farlo fuori perchè dava fastidio a Messina Denaro, ma poi si decise di fare l’attentato a Germanà. Una volta siamo andati dal papà di Matteo e parlavano di tutti e due, dicevano che quello là (Germanà, ndr) era uno sbirro vero”.
Le armi e l’esplosivo per l’attentato a Roma
Geraci ha poi parlato della sua partecipazione nei preparativi della partenza per gli attentati a Roma. “Io e Matteo eravamo in periferia a Mazara del Vallo, c’era anche Sinacori e un signore che aveva una certa età. – ha raccontato – Lì abbiamo preparato le armi che poi dovevano essere portate a Roma. Sono state fasciate con del cellofan e scotch e poi pulite. C’erano kalashnikov che sono stati portati in campagna per vedere se funzionassero. Matteo aveva comprato più di 300 milioni di armi tutte nuove che le ha portate Giuseppe Fontana di Castelvetrano nel ’91. Sono arrivate parecchie volte ed erano nascoste neigli sportelli delle macchine”. Alla domanda del pm Gabriele Paci se ci fosse l’esplosivo, il collaboratore ha risposto: “Esplosivo onestamente non l’ho visto, ma una volta siamo andati a Palermo dove c’era Giovanbattista Ferrante che ha dato dei detonatori in un sacco a Matteo dove poi li abbiamo messi all’interno dell’intercapedine della mia macchina. Lui mi disse vai piano altrimenti saltiamo in aria e lì ho capito che c’era dell’esplosivo. Penso che i detonatori sono stati portati a Roma per fare poi l’attentato a Costanzo”. L’ex gioielliere di Castelvestrano ha poi detto che “siccome Scarano gli aveva fatto la cortesia di tenere le armi allora Matteo gli disse cosa ti posso regalare e questo gli disse se avesse dell’hashish, gli avrebbe fatto piacere. – ha continuato – Quindi con Messina Denaro siamo andati a Palermo da Graviano. Un ragazzo ci ha aperto un capannone pieno di hashish e ne ha preso 100kg più o meno”.
Mario Santo Di Matteo nel trapanese
E’ stata poi la volta dell’ex mafioso del mandamento di Altofonte, Santino Di Matteo, padre del piccolo Giuseppe che fu ucciso brutalmente da Cosa nostra l’11 gennaio 1996, che ha parlato degli episodi criminosi con cui ha concorso con il boss di Castelvetrano, come l’attentato a un tal Greco insieme ad altri ragazzi che entrarono in conflitto con la famiglia di Alcamo.
Il teste ha poi parlato anche dell’omicidio del boss di Alcamo Vincenzo Milazzo che a suo dire si potrebbe inserire all’interno di dinamiche di potere in contrasto a quelle di Riina, in quanto quest’ultimo “doveva mettersi la Sicilia nelle mani”. Dietro a quel delitto, però, potrebbe anche esserci altro, con il capomafia di Alcamo che sarebbe stato contrario alle stragi e che avrebbe partecipato anche ad incontri in cui sarebbero stati presenti agenti del servizio di sicurezza.
Dopo qualche giorno dall’omicidio di Milazzo, la compagna Antonella Bonomo si sarebbe rivolta a Di Matteo chiedendo se avesse visto il marito. “Io cercai di aiutarla andando da Antonino Gioè dicendogli che sono venute queste persone che cercavano Milazzo e mi disse ti faccio sapere – ha raccontato il teste – Parlò con Brusca e gli disse che non l’aveva vista. Poi il giorno dopo Gioè mi disse che avevano ucciso questa ragazza”.
L’incontro tra Bellini, Gioè e Brusca
Di Matteo ha poi parlato dell’incontro che c’è stato tra Paolo Bellini, ex esponente di Avanguardia nazionale, vicino al mondo dell’eversione nera, Antonino Gioè e Giovanni Brusca. “Conosco Bellini tramite Gioè nel ’90. Antonino uscito dal carcere nel ’89 aveva dato appuntamento a casa mia a questo Bellini. – ha spiegato – Gioè mi disse che faceva parte dei servizi segreti, ma poi ho capito che non faceva parte di niente. Gioè si doveva interessare per fare trovare un quadro e Bellini si interessava a far togliere il 41bis e far uscire Bernardo Brusca e qualche altro. Gioè lo ha portato a casa sua, Brusca non si è fatto vedere e non voleva vederlo perchè diceva che era dei servizi, ma ascoltava dietro la porta. – ha continuato – Gioè diceva che questo Bellini era amico di Spadolini che era presidente del Senato”. Il pentito ha poi ricordato di essersi rivisto con Bellini nel 2006-2007 a Pagliano: “Quando sono diventato collaboratore di giustizia, in una stanza io dissi che questo lo conosco e non pensavo fosse Bellini. Invece lui si ricordava bene di me. Ma poi non ne abbiamo più parlato. A me sembrava più un imbroglione che altro”.
05 Aprile 2019