di Gustavo Carneiro
da avante.pt
Traduzione di Mauro Gemma per Marx21.it
“Giustificata” con pretesti “umanitari”, l’aggressione contro la Jugoslavia nel marzo 1999 è stata un elemento centrale nella strategia per l’affermazione degli Stati Uniti come potenza egemonica mondiale, inaugurando il rinnovato concetto strategico della NATO, che ha consacrato nella dottrina ufficiale la propria natura apertamente aggressiva e il suo ruolo di intervento globale.
L’aggressione della NATO contro la Jugoslavia alla fine del ventesimo secolo è esemplare per molte ragioni, dal momento che ha inaugurato, insieme alla Guerra del Golfo, il “mondo unipolare” post-Guerra Fredda, disegnandolo con il fuoco e il sangue. Ma anche perché è in Jugoslavia che molte delle strategie ricorrenti oggi nelle azioni dell’imperialismo contro i popoli – in Venezuela, Siria, Libia, Iraq o Afghanistan – sono state applicate per la prima volta, in modo completo.
Nei Balcani, come negli altri esempi, l’aggressione militare (aperta o mascherata) è stata inquadrata in un piano più ampio di interferenze, ricatti, destabilizzazione interna, blocco economico, pressione diplomatica, strumentalizzazione da parte di organizzazioni internazionali e provocazione. Anche qui, le campagne di manipolazione e menzogna sistematica dei grandi mezzi di comunicazione sociale – dominati dall’imperialismo e, come tali, al suo servizio – hanno svolto un ruolo di primo piano nella “giustificazione” della guerra attraverso la “difesa dei diritti umani”, come avrebbe fatto in seguito con la “lotta al terrorismo” o la “protezione contro le armi di distruzione di massa”. Anne Morelli denuncia il ruolo dei media nella promozione della guerra e presenta la Jugoslavia come un caso esemplare nel libro Principi Elementari della Propaganda di Guerra.
Come avviene in Venezuela oggi, l’aggressione contro la Jugoslavia è stata “giustificata” con pretesti “umanitari”. Per quanto riguarda gli attacchi della NATO, ci è stato detto che erano “chirurgici”. La verità, tuttavia, è che durante 78 giorni di attacchi aerei (dal 24 marzo al 10 giugno), quattromila persone sono morte e molte altre sono rimaste ferite; quartieri residenziali, vie di comunicazione e strutture sociali come scuole e ospedali sono stati distrutti, così come il palazzo della televisione statale jugoslava e l’ambasciata cinese.
Massacri silenziosi
Le morti sono continuate anche dopo la cessazione del fuoco. Molti serbi, montenegrini e kosovari si sono ammalati di malattie oncologiche a causa dell’utilizzo su larga scala da parte delle forze della NATO di munizioni all’uranio impoverito, i cui effetti sull’ambiente – e, di conseguenza, sulla salute delle popolazioni si faranno sentire per secoli (AAVV, Armas de Urânio – Destruição sem Regresso, Edições Avante!, 2001).
Ma l’uranio impoverito – utilizzato non solo in Jugoslavia ma anche in Iraq, Afghanistan e Libia – ha ucciso pure soldati statunitensi e della NATO (Bob Nichols, 11,000 US soldiers dead from DU poisoning, Global Research, 25.02.2005). I risultati dell’autopsia sul soldato portoghese Hugo Paulino, morto nel 2000 dopo aver prestato servizio nei Balcani, avvalorano l’ipotesi di una relazione tra morte e contaminazione radioattiva (Público, 5.1.2001). Le autorità portoghesi, anche se non hanno mai ammesso formalmente alcuna connessione, alla fine hanno risarcito la famiglia ammettendo che la morte del militare era conseguenza di una “malattia acquisita in servizio” (Avante!, 5.8.2004).
Verità e narrazione
La storia ufficiale secondo cui fu il rifiuto del Presidente Slobodan Milosevic di firmare il celebre Accordo di Rambouillet a chiudere le porte a qualsiasi soluzione politica e diplomatica dal conflitto che opponeva le autorità jugoslave ai terroristi dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), rendendo quindi “inevitabile” l’opzione militare. Di fatto, ciò che le autorità jugoslave non accettavano era il famigerato allegato B dell’accordo, che non era stato nemmeno discusso nel corso dei negoziati.
La sua formulazione era intenzionalmente inaccettabile, poiché il proposito statunitense non era di negoziare ma di attaccare militarmente la Repubblica Federale di Jugoslavia. Ciò fu persino riconosciuto da Henry Kissinger, il sinistro Segretario di Stato di Nixon: “Il documento di Rambouillet è stato formulato in modo tale che nessun serbo potesse accettarlo” (Daily Telegraph, 27.06.99).
Analogamente a quanto accade oggi nei confronti del Venezuela, la narrazione sul Kosovo è stata fin dall’inizio presentata in modo tendenzioso e incompleta dall’imperialismo e dai media al suo servizio. Il “massacro” di Racak, che costituì la “goccia che fa traboccare il vaso” per l’intervento della NATO, non esisteva, come confermarono la coordinatrice dell’autopsia delle vittime, Helena Ranta, e il generale tedesco Heinz Loquai. Anche i “racconti” del conflitto sono stati presentati da un punto di vista unilaterale e considerevolmente esagerati, sempre in una prospettiva anti-jugoslava.
Il quotidiano britannico The Guardian, ad esempio, pur non avendo mai abbandonato la linea filo-interventista, ha riconosciuto queste dissonanze più di una volta. Anche il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, istituzione imperialista per imporre la sua “giustizia”, ha finito per scagionare posteriormente dalle accuse di “crimini contro l’umanità” l’ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, che è morto in carcere lentamente assassinato (Avante!, 18.1.18).
L’UCK assunse in questo scenario il ruolo che i “ribelli” siriani e l'”opposizione democratica” venezuelana avrebbero svolto in seguito. “Ripulito” della sua vera natura terrorista e fascista, è stato presentato all’opinione pubblica mondiale come un esercito liberatore. È ancora il Guardian (14.12.2010) a denunciare che nel suo curriculum si contano, oltre al terrorismo contro le popolazioni civili, crimini come il traffico di organi umani, che hanno coinvolto lo stesso Hashim Thaçi, capo del movimento e attuale “presidente” del Kosovo.
Obiettivi politici, economici e geo-strategici
Con la fine dell’Unione Sovietica e del campo socialista in Europa, gli Stati Uniti hanno cercato di affermarsi davanti al mondo come l’unica “superpotenza” incontrastata (Gerard Baudson, The New World Order and Yugoslavia, 1996). La disintegrazione della Jugoslavia è stata, fin dall’inizio, l’obiettivo principale dell’imperialismo per la regione, allo scopo di includere i fragili Balcani nella sua zona di influenza, estesa fino ai confini della Russia.
A distanza di due decenni, questo è chiaramente visibile: la maggior parte dei paesi che sono risultati dalla frammentazione della Jugoslavia oggi fanno parte della NATO e dell’Unione Europea, e molti di essi ospitano basi e strutture militari statunitensi. La base di Bondsteel in Kosovo è una delle più grandi delle centinaia che gli Stati Uniti possiedono al di fuori del proprio territorio.
L’aggressione contro la Repubblica Federale di Jugoslavia ha offerto copertura a un’operazione che da molto tempo si andava preparando: la revisione del concetto strategico della NATO in un senso apertamente aggressivo e globale, completata all’inizio di aprile 1999 in un vertice a Washington.
Rivelatrice degli scopi geo-strategici della guerra è la “confessione” di Willy Wimmer, un deputato tedesco che nel 2000 era vicepresidente dell’Assemblea parlamentare dell’OSCE. In un messaggio al primo ministro Gerard Schroeder, affermò che era stata scatenata per consentire alle truppe statunitensi di stazionare nella regione, in modo da correggere quello che era considerato un errore compiuto mezzo secolo prima dal generale Eisenhower.
Per quanto riguarda le motivazioni economiche, si presti attenzione alla confessione del comandante delle forze NATO nella regione, Mike Jackson: “Resteremo qui [nei Balcani] per molto tempo per garantire la sicurezza dei corridoi energetici che attraversano la Macedonia” (citato in: Michel Collon, Monopoly, L’OTAN à la conquête du monde, 2000).
Il vero volto dell’imperialismo
L’aggressione alla Jugoslavia iniziò molto prima che le bombe iniziassero a cadere su Belgrado. Dall’inizio degli anni ’90, la Germania, gli Stati Uniti e altre potenze occidentali si erano impegnate nelle guerre che hanno fatto a pezzi la federazione socialista costruita nella lotta contro il nazifascismo. Sebbene abbiano radici storiche e culturali, i conflitti balcanici sono stati alimentati dall’esterno per servire obiettivi estranei ai popoli della Jugoslavia. Per raggiungerli, l’imperialismo ha dovuto piegare i serbi, i principali difensori dello stato federale.
La demonizzazione mediatica di questo popolo e dei suoi leader ha raggiunto proporzioni senza precedenti (Diana Johnstone, Crusada de Cegos, 2006) e sul terreno l’azione delle potenze occidentali è andata nella stessa direzione. Nel 1994, il CPPC (Centro Portoghese per la Pace e la Cooperazione, NdT) aveva denunciato i bombardamenti aerei della NATO contro posizioni serbe in Bosnia e Croazia e la “vergognosa copertura” del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (CPPC, Décadas de Luta pela Paz, 2017). Tre anni prima aveva condannato il riconoscimento tedesco dell’indipendenza della Slovenia e della Croazia, senza che i diritti delle minoranze nazionali venissero negoziati e garantiti (ibid.).
Nel tentativo di indebolire i serbi e smantellare la Jugoslavia, l’imperialismo fece ricorso a ogni tipo di alleati. L’UCK, pur essendo paradigmatico, è ben lungi dall’essere l’unico. Il maggiore generale Carlos Branco, autore di A Guerra dos Balcãs – Jihadismo, Geopolítica e Desinformação, ricorda che la leadership del partito bosniaco, guidata da Alija Izetbegovic, era “estremista e sosteneva la creazione di uno stato islamico teocratico” ricorrendo al “supporto di al-Qaeda e dei paesi che sostenevano il proselitismo religioso radicale” (Diário de Notícias, 23/11/16). Non sarà un caso se, a fianco dei vari gruppi terroristici islamici, nessun paese europeo ha in proporzione più combattenti in Siria che la Bosnia (www.bbc.com/news/world-europe-33345618).
Nella Croazia di Franjo Tudjman i riferimenti erano altri, ugualmente rivelatori: dalla simbologia alla narrazione e alla pratica politica, il potere croato faceva riferimento al movimento Ustascia, che durante l’occupazione hitleriana era stato responsabile del massacro di centinaia di migliaia di serbi, ebrei e zingari (Carlos Santos Pereira, Da Jugoslávia à Jugoslávia, 1995). E’ in questo territorio, per inciso, che, secondo Carlos Branco e Carlos Santos Pereira, si verificò l’unico caso di genocidio nei conflitti jugoslavi, nell’agosto del 1995, contro le popolazioni serbe della Krajina.
Posizione ferma a cui la storia ha dato ragione
(…) Il PCP sottolinea che ciò che è in corso è un’azione unilaterale della “polizia” statunitense, che usa la NATO per i suoi fini imperialisti, con arrogante mancanza di rispetto per le più elementari norme del diritto internazionale.
Comunicato della Commmissione Politica, 18.10.1998
Il PCP ritiene che l’ordine degli attacchi militari della NATO contro la Jugoslavia sia della massima gravità per la pace nei Balcani e in Europa, a cui il governo portoghese ha già dato un consenso esplicito. (…)
Il PCP mette in guardia sulla straordinaria ondata di disinformazione e manipolazione dell’opinione pubblica in atto per coprire l’aggressione contro la Jugoslavia e gli obiettivi militaristi ed espansionistici degli Stati Uniti così come della Germania e di altre importanti potenze della NATO. (…)
Comunicato della Segreteria, 24.3.1999
(…) La NATO proclama l’abbandono del limite dell’area della sua azione iniziale e si comporta come un’organizzazione dedita ad intervenire in ogni angolo del mondo, anche ai margini dell’ONU e del diritto internazionale. I suoi interventi in Jugoslavia sono esempi paradigmatici della sua nuova filosofia interventista (…).
Comunicato della Commissione politica, 5.4.1999