Un viaggio nella regione attaccata dai militari di Kiev. La presenza di organizzazioni paramilitari ucraine eredi dei collaborazionisti di Hitler. L’incognita del nuovo presidente ucraino Zelensky
Silvio Marconi
Cosa è cambiato da quando i neonazisti ucraini, coperti dal governo di Kiev, massacravano il 2 maggio 2014 oltre 50 uomini e donne nel rogo della “Casa dei Sindacati” di Odessa, nell’imbarazzante silenzio dell’occidente, o iniziavano sempre nel 2014 bombardamenti aerei e stragi in quel Donbass colpevole di non accettare né la discriminazione dell’antifascismo e la glorificazione dei collaborazionisti dei nazifascisti, né il piano di estirpazione della cultura russa e delle memorie dell’Urss a cui quelle genti erano e sono legate?
Il fallimento delle offensive militari contro il Donbass delle truppe ucraine, in parte composte da demotivati soldati di leva (con percentuali di diserzione e di fuga all’estero assai rilevanti), in parte da ben più motivati “battaglioni punitivi” di stampo neonazista, ha portato a febbraio 2015 alla seconda versione degli “Accordi di Minsk” che dovevano servire a ridurre gradualmente l’intensità del conflitto e avviare ipotesi di soluzioni negoziate. Se in effetti l’azione aerea ucraina è cessata (con l’eccezione dell’uso di droni), le violazioni ucraine di quegli accordi sono costanti, sia sul terreno delle misure politiche previste e mai realizzate, sia su quello della continuazione dei bombardamenti di artiglieria, diminuiti ma mai cessati e che in varie fasi (fra cui quella iniziata nel giugno 2019) si acuiscono. Bombardamenti che, come gli stessi osservatori dell’Osce documentano, colpiscono scuole, centrali di potabilizzazione dell’acqua, mercati, fermate di autobus, ricoveri per anziani e mantengono in uno stato di stress milioni di civili, fra cui centinaia di migliaia di bambini e anziani, che vivono nelle fasce più vicine alla linea di demarcazione.
Il tutto nel continuo affluire di aiuti militari e finanziari occidentali all’Ucraina immiserita dal regime post-2014 (-50% di PIL e con l’emigrazione di milioni di suoi cittadini, verso l’Europa Occidentale e verso la Russia), nell’assordante indifferenza della UE, dei media occidentali e di tante forze democratiche italiane e occidentali. Un silenzio che è essenziale per il regime di Kiev, quello di un Poroshenko che pure il 70% degli ucraini ammessi al voto (sono stati esclusi dal voto gli ucraini che vivono in Russia, oltre 2 milioni, oltre che, “ovviamente”, quelli del Donbass che pure l’Ucraina rivendica come suoi cittadini!) nelle recenti elezioni presidenziali ha ripudiato e quello stesso Zelensky che da attore comico è diventato in quelle elezioni nuovo Presidente dell’Ucraina con grandi promesse di far terminare il conflitto e che ha visto invece, dalla data del suo insediamento, crescere i bombardamenti delle forze di Kiev contro il Donbass, come registrato anche dall’Osce (vedremo se e come passerà dalle parole ai fatti). Tanto essenziale che tutti coloro che si impegnano in diverso modo per disinnescarlo e/o per sviluppare iniziative di aiuto umanitario alle genti del Donbass sono stati nel recente passato inseriti nella “lista nera” ucraina, cosa accaduta perfino ad Eleonora Forenza nel 2017, quando era eurodeputata, per non parlare dei grotteschi veti a personalità italiane del mondo dello spettacolo del tutto estranee alla drammatica situazione locale.
Nel maggio di quest’anno sono stato in Donbass con uno dei soggetti (il gruppo musicale impegnato politicamente “Banda Bassotti”) che per primo e maggiormente si è speso in questi anni per rompere quel silenzio e per portare aiuti umanitari ad anziani, bambini, handicappati, traumatizzati in quella regione di un continente europeo che sembra non interessarsi di quel che avviene a poche ore di volo dalle sue capitali.
Ho visto coi miei occhi i due aspetti intrecciati della realtà: le sofferenze, il coprifuoco notturno, le case sventrate, gli asili bombardati, i cimiteri dei tanti civili e miliziani uccisi (finora si stimano i morti in oltre 13.000, fra cui circa 200 bambini), e d’altra parte la volontà di difendere la “normalità” delle aiuole fiorite, delle scuole e dei centri commerciali funzionanti, delle strade urbane senza un pezzetto di carta per terra della vita culturale e sportiva e ancor di più di difendere e rendere viva ed attuale la memoria della lotta immane contro i nazifascisti invasori ed i collaborazionisti ucraini nella Seconda Guerra Mondiale. Nazifascisti che, è bene ricordarlo, non erano solo tedeschi, ma anche finlandesi, rumeni, slovacchi, ungheresi, spagnoli, croati, rinnegati nazisti francesi, belgi, norvegesi, danesi, olandesi. È bene ricordare che in una prima fase il “Corpo di Spedizione Italiano in Russia – Csir”, protagonista della catastrofica avventura voluta da Mussolini partecipando all’invasione dell’URSS, aveva il suo comando proprio in Donbass, a Stalino (oggi Donetsk) e partecipò attivamente in quella regione sia ai combattimenti al fronte che alla repressione antipartigiana, come narrato anche nel mio libro “Donbass. I neri fili della memoria rimossa”, pubblicato per i tipi delle Edizioni Croce, che ho avuto l’onore di presentare il 10 maggio 2019 a Lugansk alla presenza dei rappresentanti delle due biblioteche della città, di quelli dell’Unione degli scrittori, di dirigenti sindacali e di numerosi scrittori e poeti locali.
Il 9 maggio 2019, sempre a Lugansk, dopo la manifestazione popolare davvero grande per il 74° anniversario della vittoria sul nazifascismo, avevo avuto l’opportunità di incontrare e salutare a nome dell’Anpi di Roma Mikhail Dimitr’evich Gaidukov, anziano presidente dell’Associazione dei Veterani di Lugansk, da cui ho avuto doni per l’Anpi di Roma e col quale si è avviata la costruzione di iniziative da sviluppare nell’anno scolastico 2019-2020 nei territori e nelle scuole romane e delle località della provincia ove hanno combattuto partigiani sovietici, nonché iniziative con l’Anpi di Alessandria.
Quel che mi ha colpito maggiormente nel mio viaggio, però, è stata la visita al ponte di Stanitsa Luganskaja, svoltasi sempre il 10 maggio. Si tratta di un ponte che collegava il territorio ora sotto il controllo della autoproclamata Repubblica popolare di Lugansk e il territorio controllato dalle forze di Kiev; il ponte è stato distrutto dall’artiglieria ucraina e nonostante gli Accordi di Minsk gli ucraini ne hanno fino ad oggi impedito la ricostruzione, cosicché le oltre 11.000 persone che quotidianamente devono passare sono obbligate con ogni tempo (pioggia, per molti mesi la neve…) ad usare due passerelle di legno inclinate; si tratta in larga misura di famiglie con bambini che vanno a trovare i parenti, di persone che si recano a fare acquisti e soprattutto di anziani, spesso con stampelle o perfino in sedia a rotelle, costretti a recarsi nella zona sotto controllo di Kiev per riscuotere le loro pensioni perché da anni (in violazione degli Accordi di Minsk) il governo di Kiev non trasferisce le pensioni ai residenti del Donbass nei loro luoghi di vita e residenza.
Io, figlio di antifascisti ed educato all’antifascismo, ho rivisto in quelle passerelle grondanti sofferenza costruita ad arte, umiliazione voluta, sottoumanizzazione ricercata, l’immagine del passaggio in legno a cui erano costretti gli ebrei del ghetto di Varsavia dai nazisti e del resto sono numerosi i rappresentanti del regime di Kiev che non si fanno scrupolo nel dichiarare che il Donbass deve essere recuperato dall’Ucraina ma svuotato dei suoi abitanti russofoni, nella ripetizione a scala locale di quel General Plan Obst elaborato dai nazisti nel 1941 che prevedeva lo svuotamento attraverso il massacro e la deportazione di tutti i territori che si sarebbero sottratti all’Urss e in particolare proprio di quell’Ucraina che era il “granaio d’Europa”.
12 luglio 2019