di Antonio Gramsci
Un mese di soggiorno in Sardegna: banchetti, bicchierate, strette di mano, entusiasmo per
l’italiano illustre che ha fatto il sacrifizio di portare la sua preziosa persona fra i briganti, i
mendicanti, i pastori vestiti di pelli dell’isola. E l’italiano illustre ritornato in terra ferma si atteggia a
Cristoforo Colombo e scopre qualcosa, tanto per dimostrare che non ha perduto il suo tempo.
Anche Mascagni non ha perduto il suo tempo, e sotto i portici di via Po ha versato nella capace
vescica di G. Corvetto la piena delle sue impressioni; e il risultato fisiologico lo abbiamo visto
stemperato in due colonne della «Stampa». Tutte le competenze, si è trovato ad avere l’illustre
compositore! Tanto è vero che può giudicare dei terreni, «splendidi, sterminati» (vedi manuale di
geografia: 24 000 kmq) «gente sana e saggia» (hanno applaudito, quindi…), «buoni costumi, belli e
robusti abitanti», che hanno il torto di essere pochi, in un terreno cosí ferace, quantunque il piú
imbecille sociologo sappia che due terzi dei sardi sono emigrati perché il terreno (almeno cosí come
il patrio governo, con la sua legislazione doganale, impone sia coltivato) non è poi tanto ferace.
E Mascagni fa anche opere buone: come uno dei tanti vescovi che la curia manda nei villaggi
per rappacificare i partiti divisi da una vendetta di sangue (e per la verità se ne conta una ogni venti
anni), egli mette la pace fra due partiti che a Cagliari si dilaniano e arrivano persino, in presenza al
forestiero, a prendersi a schiaffi. Meno male che a Cagliari ci sono i questurini, che non permettono
di andare ai banchetti con lo schioppo, altrimenti, dio sa che strage. L’architettura sarda, Mascagni
ne è entusiasta; solo il timore di dire bestialità (benedetto timore!) impedisce al cronista di
riprodurre le sue parole, che pure avrebbero rivelato anche ai sardi ciò che non hanno mai avuto la
possibilità di vedere: l’esistenza di un’architettura sarda (eccettuati i nuraghi che un altro scopritore,
l’on. Giovanni Rosadi, studioso di storia dell’arte, confondeva con i briganti, tanto per dire di averli
visti).
Naturalmente chi, senza timore di dire bestialità, infila per due colonne di queste piacevolezze,
appartiene a quella vasta tribú dai delicatissimi nervi, cui urta e fa sobbalzare ogni improprietà di
linguaggio dei Baedecker o di tutti i libriccini e librucciacci che gli stranieri pubblicano sull’Italia.
Ma le bestialità dette dagli italiani sono rivelazioni… dei tesori nascosti.
Ecco: i sardi passano per lo piú per incivili, barbari, sanguinari, ecc., ma non lo sono
evidentemente quanto è necessario per mandare a quel paese gli scopritori di buona volontà. Un
ufficiale, andato a Cagliari nel 1910 per reprimere uno sciopero, compiange le donne sarde destinate
a divenire legittime metà degli scimmioni vestiti di pelli non conciate, e sente in sé (testuale)
ridestarsi il genio della specie (quella non vestita di pelli), che vuole porsi all’opera per migliorare la
razza. Giuseppe Sergi in quindici giorni si sbafa una quantità di banchetti, misura una cinquantina di crani, e conclude per l’infermità psicofisica degli sciagurati sardi, e via di questo passo. Mascagni
scopre gli schiaffi e i pugilati dei partiti sovversivi, pur affermando la bontà, la saggezza, ecc. ecc.
Ma non potrebbero i Corvetto divertire in altro modo il pubblico? Ci sono tante biondissime
cagnette sotto i portici, sulle quali scrivere interessantissimi bozzetti.
(da Sotto la Mole, 24 maggio 1916)