di Raffaella Fanelli*
“La busta non era sigillata e i bossoli erano diversi. Erano i famosi gevelot, quelli ritrovati nell’arsenale della Banda della Magliana. Lo dissi in aula che erano stati sostituiti. Ma non rivanghi tante cose, per carità, perché andiamo a finire male. Si rischia brutto. Perché con Pecorelli scappano fuori Moro e altre storie, ed è meglio lasciar stare”. Ha paura? “Voglio morire nel mio letto”. Antonio Ugolini, classe 1932, è il perito che durante il processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli dichiarò che la busta contenente i reperti era stata manomessa. “Trovai una cravatta marrone con i vetri sopra, sparita pure quella… Ma per i bossoli ci sono le foto. Fotografai tutto quella notte. Arrivai subito, con un collega dell’Istituto di Medicina Legale. Entrambi accompagnati dai carabinieri. Quando entrammo negli uffici di via Tacito, con il magistrato, avevano già aperto la cassaforte. Poi mi fecero un sacco di storie. Ci furono dei giudici che coprirono tutto. Ma lasciamo perdere… quello che ho visto non si può dire”. E’ un uomo alto e robusto, con i capelli bianchi e la memoria lucida. Che dal suo “non si può dire” tira fuori circostanze, riferimenti e nomi. Quello di un perito che “era dei servizi, di quelli deviati, e che faceva un sacco di impicci” e i nomi di due magistrati, entrambi vicini a questo consulente prezzolato.
Cosa ricorda del caso Pecorelli?
“So che i bossoli vennero mandati a Torino. Quando li consegnai feci un verbale e i gevelot avevano un’impronta particolare, un’imperfezione presente, probabilmente, nello stampo di fabbricazione. Fotografai i fondelli dei bossoli e le foto devono esserci ancora. A sparare fu una sola arma, che non si trovò. Una automatica o semiautomatica corta calibro 7.65 munita di silenziatore. Pecorelli fu ucciso con 4 colpi esplosi attraverso il vetro… c’erano i frammenti sulle ferite e sui proiettili. Non ricordo bene, dovrei rivedere i miei appunti ma non credo di averli conservati”. Eppure lo sguardo va verso la sua scrivania dove ci sono fascicoli e carte, libri accatastati e una pila di vecchi giornali: “Lavoro ancora. Sto rivedendo le perizie su Capaci e Ustica. Ma non c’è Pecorelli”.
Quella sera, in via Tacito, arrivò il generale dei carabinieri Antonio Cornacchia…
“No, prima arrivò Tonino Ragusa, quello che poi passò al Sismi. Stringeva una mazzetta e fece le fotografie di tutti i documenti. Arrivò il magistrato Domenico Sica e prima ancora, in via Orazio, il comandante della vicina stazione dei carabinieri”.
Torniamo alla cravatta. E’ certo che ci fossero dei vetri sopra?
“Guardi, non mi posso sbagliare. Con due carabinieri cercammo traccia della pistola, nei cestini, sui marciapiedi di via Tacito, convinti che il killer si fosse liberato dell’arma subito dopo aver sparato. Trovammo una cravatta in seta, vicino a un cestino dei rifiuti tra via Boezio e via Tacito, tra il marciapiede e l’asfalto della strada. Sulla cravatta c’erano piccoli frammenti di vetro, luccicavano pure”.
Troviamo il verbale del 20 marzo 1979 firmato dal maggiore Pasquale Speranza e da un altro militare della stazione dei carabinieri Roma Prati dove si legge chiaramente: “sulla superficie esterna della cravatta ci sono piccoli frammenti di vetro”. Presenza che viene data per certa. I frammenti c’erano. Inoltre, in quello stesso verbale, viene riportato il nome e l’indirizzo di un testimone, un professore residente nella vicina via Visconti, che spontaneamente dichiarò che intorno alle ore 20 era passato dal posto descritto e che per terra non aveva notato alcuna cravatta. Antonio Ugolini ci dice di non averne saputo più niente che “pure quella cravatta sparì dalle indagini”. Sparì per una perizia eseguita nel maggio del 1979 e che escluse la presenza di vetri e tracce ematiche. Com’è possibile che quei piccoli frammenti di vetro ben visibili ad occhio nudo, dati per certi dal perito e dai due carabinieri non fossero più presenti? La cravatta fu sostituita come i bossoli? E’ una domanda che a questo punto non possiamo non farci. Chi uccise Pecorelli aveva le spalle coperte. Sapeva che le indagini sarebbero state controllate. Come le perizie. Perché c’era chi “faceva impicci”.
Il 27 novembre del 1981, nell’ambito delle indagini volte ad accertare legami tra la malavita romana e ambienti della destra eversiva, furono perquisiti gli uffici del ministero della Sanità in via Liszt a Roma. Fu una “fonte confidenziale” a portare la Digos negli uffici del ministero dove fu scoperto l’arsenale della banda della Magliana. Tra le numerose armi c’era anche una pistola rubata il 5 agosto del 1980 dall’armeria di piazza Menenio Agrippa, a Roma, da Valerio Fioravanti e dai suoi camerati. C’erano anche i fumogeni dello stesso lotto di quelli usati dai brigatisti per coprirsi la fuga dopo l’omicidio del colonnello Antonio Varisco. Furono sequestrati anche i proiettili Gevelot, dello stesso tipo e con la stessa imperfezione di quelli esplosi per uccidere il giornalista Carmine Pecorelli. Perché i fumogeni usati dai brigatisti e le armi dei Nar erano nello stesso arsenale?
I bossoli dell’omicidio Pecorelli sono stati sostituiti dopo il sequestro dell’arsenale. “Tutti i processi peggiori sono passati dalle mie mani. Anche le armi della banda della Magliana. Ero perito di parte. Le armi erano state alterate con l’acido. Le fotografai. Non si poteva fare niente. Il perito era il nipote del cardinale Vagnozzi, quello legato alla Cia. Alterò tutte le armi. Lo vidi mentre sparava i proiettili sequestrati all’arsenale. Anche i gevelot”.
IL CARDINALE E IL DOSSIER SPARITO
Su un’agenda sequestrata a Gilberto Cavallini, l’ex Nar sotto processo a Bologna con l’accusa di concorso nella strage del 2 agosto alla stazione, compare il nome Vagnozzi. L’agenda fu sequestrata nel 1983. Chi era il Vagnozzi in questione? Non risultano estremisti di destra con quel cognome. Non è detto che si tratti del cardinale Egidio Vagnozzi, e comunque Cavallini non lo confermerebbe mai.
Del cardinale ci ha parlato Francesco Pazienza, l’ex consulente del Sismi condannato per il depistaggio nelle indagini sulla strage di Bologna: “L’avvocato Peter Duft di Zurigo, vicino all’Opus Dei, era stato consulente del cardinale Egidio Vagnozzi ed era il depositario dei suoi documenti. Anche delle carte compromettenti che riguardavano monsignor Marcinkus. Vagnozzi era stato un acerrimo nemico di Paul Marcinkus, al tempo in cui quest’ultimo lo aveva scalzato nella gestione delle finanze vaticane. Quindi si trattava di documenti che avevano la loro origine proprio all’interno del Vaticano”. Vagnozzi era legato alla Cia? “So che alla fine degli anni Cinquanta era stato delegato apostolico negli Stati Uniti e aveva rivestito una posizione chiave in Vaticano come presidente della Prefettura per gli affari economici della Santa Sede”. Francesco Pazienza ci dice altro dell’omicidio Pecorelli. Lo pubblicheremo. Intanto torniamo a Cavallini e ai Nar. E’ più facile pensare che quel Vagnozzi sia un criminale e non un porporato. D’altronde è difficile credere che il nome di un timorato di Dio sia presente nell’agenda di un assassino. Di un estremista di destra. Eppure ritroviamo il nome del cardinale Ugo Poletti (quello che autorizzò la sepoltura del boss della Magliana Enrico De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare) sull’agenda di Stefano Soderini, l’ex militante di Terza Posizione poi passato ai Nar che nel 1983 fu arrestato proprio con Cavallini a Milano. Cardinali che non gradivano il papa polacco. Egidio Vagnozzi è tornato d’attualità perché inserito nelle carte dell’ultima Commissione Moro: nella relazione sul sequestro e l’omicidio del presidente della Democrazia Cristiana compare un’indagine sulle palazzine romane che si trovano in via Massimi 91 a Roma, perché la prima prigione di Moro è stata individuata dalla Commissione proprio in uno di quegli appartamenti distanti circa un chilometro e mezzo da Via Fani, il luogo dove Aldo Moro fu rapito e la scorta sterminata. In quelle palazzine costruite dalla società Prato Verde, riconducibile allo Ior, alloggiarono sia il cardinale Vagnozzi sia monsignor Marcinkus. Nessuno dei due porporati – lo speriamo – sapeva del covo-prigione. Ma Pecorelli sapeva di Marcinkus. E aveva scritto di Moro, del sequestro e dell’omicidio. Aveva anticipato. Anche i contenuti di un memoriale che sarà ritrovato anni dopo la morte dello statista. Aveva scritto di Marcinkus e lo aveva inserito nella lista dei 121 cardinali, vescovi e alti prelati “presunti massoni”. Lo Ior di Marcinkus e il Banco Ambrosiano di Calvi erano strettamente legati al crac Sindona di cui Pecorelli si stava occupando. Marcinkus aveva legami con Mario Foligni, altro nome finito sulle pagine di OP. Fra i reperti sequestrati dopo l’omicidio del giornalista c’è un faldone di cartone rigido, grigio scuro, ritrovato vuoto. L’etichetta riporta un’indicazione sui contenuti scomparsi “1978/Marcinkus”. Era forse il dossier di Vagnozzi?
I GEVELOT E I NERI LATITANTI
Torniamo alle dichiarazioni di Antonio Ugolini: “Il perito era il nipote del cardinale Vagnozzi, quello legato alla Cia. Alterò tutte le armi. Lo vidi mentre sparava i proiettili sequestrati all’arsenale. Anche i gevelot”.
I gevelot erano proiettili molto particolari e all’epoca era difficile trovarli sul mercato, anche su quello clandestino. Dalle dichiarazioni di Maurizio Abbatino (fondatore insieme a Franco Giuseppucci della Banda della Magliana): “Danilo Abbruciati portò al deposito una borsa di armi e all’interno, oltre a una pistola calibro 22 – quella che usai per uccidere Nicolino Selis – c’erano una carabina e numerosi proiettili. I gevelot ritrovati al ministero della Sanità potevano provenire dal quel borsone, consegnatoci personalmente da Danilo, oppure da Massimo Carminati, perché era l’unico dei Nar ad aver accesso al deposito. Noi della banda della Magliana non abbiamo mai usato quei proiettili perché preferivamo pistole calibro 9 o 38, non 7.65”.
Ricapitolando: nell’arsenale della banda della Magliana arrivarono proiettili gevelot. Proiettili che quelli della Banda non usavano. Che erano stati portati da altri. Da Abbruciati o da Massimo Carminati, l’ex Nar che Abbatino indicherà come il killer di Pecorelli. Carminati sarà assolto. Ma gli altri Nar cosa sanno dell’omicidio?
“Mi tenga fuori. Dei Nar non so niente”, ci dice Antonio Ugolini, il perito che vuole morire nel suo letto.
Nel fascicolo sull’omicidio di Domenico Balducci, detto Memmo er cravattaro, ho trovato un verbale che la riguarda. Ci sono due marescialli che scrivono di lei. Di alcune sue dichiarazioni.
“Arrivarono in tre per portarmi via i reperti. Mi dissero che dovevo restituire tutto. Che non dovevo più fare la perizia. Che non potevo più occuparmi dell’omicidio di Balducci. Infatti, è rimasto irrisolto. Erano dei servizi, due entrarono in casa mia, un terzo rimase in auto”.
Domenico Balducci era il più noto usuraio di Capo dei Fiori. Per polizia e carabinieri restò solo uno strozzino di quartiere, fino a quando nelle tasche del cadavere del boss mafioso Giuseppe Di Cristina – falciato per le vie di Palermo da un commando di killer guidato da Leoluca Bagarella – non furono trovati assegni legati al traffico di droga tra Sicilia e America, e al banchiere Michele Sindona, firmati proprio da Domenico Balducci. Memmo il Cravattaro fu ucciso la sera del 17 ottobre 1981, con cinque pallottole 7.65, nella sua casa di via Pepoli, a Roma. In tasca, Balducci, aveva un biglietto da visita di Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati del ministero degli Interni. Che rapporti c’erano fra un personaggio come Balducci, legato alla Banda della Magliana e Federico Umberto D’Amato? Dalla Relazione Mandanti delle stragi consegnata alla procura di Bologna per far luce sui responsabili della strage alla stazione, risultano legami fra Federico Umberto D’Amato e Monsignor Felix Morlion, il religioso a capo della Pro Deo (una sorta di servizio segreto del Vaticano collegato con la CIA (pag.76 della Relazione). Un altro prelato, Don Carlo Ferrero, viene indicato come la persona che per conto della CIA retribuiva Federico Umberto D’Amato. Rapporti c’erano fra padre Morlion e Licio Gelli (ne dà atto un appunto sulla agenda 1990 del colonello Federico Mannucci Benincasa). Ed è il caso di ricordare che nella documentazione relativa a Morlion rinvenuta nell’abitazione di Pecorelli, dopo l’omicidio, sono presenti alcuni documenti che evidenziano i rapporti del religioso e della sua Pro Deo con ambienti industriali e istituzionali. Di particolare interesse i documenti riguardanti le relazioni di Morlion con il mondo dei servizi segreti. Sempre nella Relazione Mandanti leggiamo che la Pro Deo forniva in Spagna assistenza ai latitanti di destra italiani. E Mino Pecorelli lo aveva scoperto.
23 Agosto 2019
* ha collaborato con numerose testate, tra le quali La Repubblica, Sette, Panorama, Oggi, e altrettante trasmissioni televisive, da Chi l’ha visto? a Quarto Grado a Lineagialla. Con Aliberti ha pubblicato Al di là di ogni ragionevole dubbio, il delitto di Via Poma, con EdizioniANordest Intervista a Cosa Nostra e con Chiarelettere La Verità del Freddo. Al libro intervista a Maurizio Abbatino è stato assegnato il premio internazionale al giornalismo d’inchiesta “Javier Valdez” 2018