di Juan Manuel Karg
Si sono compiuti i 500 giorni di prigionia di Luiz Inacio Lula da Silva il 20 agosto 2019, nel mezzo di una crisi politica-economica di grandi dimensioni che sta vivendo Brasile. Le rivelazioni di Glenn Greenwald hanno dimostrato che Lava Jato è stato lo strumento giudiziario per una doppia operazione a forma di tenaglia: l’uscita del Partito dei Lavoratori dal governo, attraverso l’impeachment dell’allora presidentessa Dilma Roosseff e la prigione, con successiva inabilitazione di Lula, che, prima di essere arrestato, dominava tutti i sondaggi sulla corsa presidenziale nel suo paese. A causa di questa deformazione è stato eletto l’estremista di destra Jair Messias Bolsonaro: il triste risultato dell’annichilimento delle leve politiche nell’idea di cancellare il PT dalla mappa.
Lula è cresciuto misurandosi con le avversità: quelle della sua infanzia, con tutte le rinunce che si possono immaginare in un nordest di esclusione; quelle di una giovane vedovanza a Sao Paulo, dove poi ha conosciuto Marisa Leticia, la sua compagna storica; quelle della prigione della dittatura militare per aver guidato gli scioperi nell’ABC di Sao Paulo; quelle dei potenti di fronte alla creazione della Centrale Unica dei Lavoratori (CUT) e poi del Partito dei Lavoratori (PT); quelle della sconfitta in molte elezioni consecutive alla presidenza del suo paese. Questi 500 giorni sono un altro tratto del cammino di queste avversità, però ora in un capitolo più avanzato della sua biografia, dove per di più ha perso sua moglie e suo nipote Arthur. In ogni caso ha la pelle indurita: sa che Bolsonaro è che una congiuntura in più nello zigzagare politico e ideologico del Brasile, così come lo è Marcri in Argentina.
La lunga storia di rapine del nostro continente conserverà come una vera vergogna questo episodio che mantiene condannato e detenuto senza prove il principale leader politico-sociale di questo continente. “Non è strano, è quello che sempre succede. Cos’è successo con San Martin? E con Artigas? Cos’è successo con tutto quello che funzionava in America Latina? Che merda è successo? Ah, 50 anni dopo era una cosa meravigliosa, però, mentre la vivevano, come è stata?” ha detto Josè Mujica un mese fa, dalla sua fattoria a Rincon del Cerro, per parlare del suo punto di vista sulla prigione del suo amico, che è stato due volte presidente del Brasile.
Non l’ha detto chiunque: Mujica ha sofferto dodici anni e mezzo di privazione, prigioniero e confinato nelle peggiori circostanze che un essere umano possa attraversare. Poi ha ritrovato il suo spazio, si è unito al Frente Amplio, ha vinto le elezioni parlamentari, ha aiutato a costruire la vittoria di Tabarè Vazquez e alla fine è stato eletto presidente del suo paese. Però prima di passare le consegne a Tabarè non ha lasciato la politica: ora fa campagna elettorale perché Ernesto Talvi, un erede della Scuola di Chicago, non finisca con il ciclo del FA, cosa alla quale aspira anche Lacalle Pou.
“Lottare, vincere, cadere. Alzarsi, lottare, vincere, cadere, alzarsi. Fino a quando non finisca la vita: questo è il nostro destino”, ha detto durante una visita in Argentina il vicepresidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia, Alvaro Garcia Linera, raccontando delle privazioni che subiscono quelli che vogliono modificare lo status quo.
La perdida elettorale del “macrismo” è una buona notizia per Lula e una molto cattiva per Bolsonaro: dimostra i limiti dei governi che vogliono restringere la cittadinanza nel nome di una libertà di mercato che è sempre più messa in discussione in scala globale. Una buona notizia, 500 giorni dopo che una delle ingiustizie più grandi che abbia visto questo continente. Lontano dal volontarismo umiliato, Lula continua a resistere. E da questa trincea prepara il suo ritorno alla politica del Brasile, dalla quale hanno voluto cancellarlo. “Lottare, vincere, cadere. Alzarsi, lottare, vincere, cadere, alzarsi” direbbe ancora Garcia Linera. E’ la storia dell’America Latina. E anche quella di Lula.
Agosto 27, 2019
da Cubadebate