di Gianni Barbacetto
La valigetta di documenti più contesa della Svizzera sarà finalmente mandata a Milano, dove è attesa dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale che sta indagando sulle presunte corruzioni internazionali di Eni. Dopo tre anni di braccio di ferro e sei pronunce delle autorità giudiziarie elvetiche, ieri la suprema corte svizzera ha deciso di consentire alla Procura di Ginevra di condividere con l’autorità giudiziaria italiana la documentazione sequestrata più di tre anni fa a Emeka Obi, uno dei due mediatori già condannati in primo grado a 4 anni di carcere, con rito abbreviato, per la supertangente che sarebbe stata pagata da Eni e Shell in Nigeria per ottenere la concessione del campo d’esplorazione petrolifera off-shore chiamato Opl 245.
Tutto inizia nell’aprile 2016, quando le autorità giudiziarie elvetiche fanno perquisire l’ufficio a Ginevra di Olivier Couriol, un fiduciario svizzero indagato per tutt’altra vicenda: un investimento di 15 milioni di euro realizzato dalla compagnia franco-tedesca Airbus in una miniera d’oro in Mali, sospettato di coprire una tangente per l’acquisto di elicotteri Super Puma e velivoli cargo Airbus da parte del governo del Mali.
L’inchiesta su questo affare è ancora in corso in Francia e in Svizzera. Ma tra il materiale sequestrato a Couriol quella mattina d’aprile, il procuratore di Ginevra Claudio Mascotto trova anche un trolley che il banchiere dice appartenere a un amico e cliente, Emeka Obi, che gliel’ha dato in custodia. Il trolley contiene documenti, un hard drive con 41 mila file elettronici, passaporti britannici e africani e chiavette usb. Poiché Obi nel 2016 è già indagato per corruzione internazionale dalla Procura di Milano, Mascotto comunica subito la notizia del ritrovamento di documenti al suo collega italiano Fabio De Pasquale.
La Procura di Milano avvia una rogatoria internazionale per ottenere la valigetta. A questo punto inizia una intricatissima gimkana giudiziaria. Couriol sostiene di essere un fiduciario tenuto al segreto professionale e chiede dunque che alla valigetta di Obi, che non contiene documenti attinenti all’inchiesta ginevrina all’origine della perquisizione, siano apposti i sigilli. Parte così quella che in Svizzera viene chiamata “procedura interna”. Si pronuncia il Tribunale penale federale di Bellinzona e, in seconda istanza, il Tribunale federale di Losanna. Entrambi respingono i ricorsi di Obi. La valigetta torna nella disponibilità della Procura di Ginevra, che dispone il trasferimento in Italia.
Obi si oppone ancora davanti al Tribunale penale federale di Bellinzona, che però sostiene che il materiale sequestrato può avere “potenziale pertinenza” nel procedimento italiano e può dunque essere inviato in Italia senza violare la legge svizzera. L’ultimo ricorso è presso il Tribunale federale di Losanna, che ieri ha preso la decisione finale e inappellabile: la valigetta può essere trasmessa alla Procura di Milano, che valuterà se far entrare i documenti in essa contenuti nel processo in corso su Opl 451.
Imputati sono le società Eni e Shell, oltre a 13 persone fra le quali l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. L’accusa ipotizza che siano state pagate tangenti per 1,092 miliardi di dollari su 1,3 miliardi versati nel 2011 da Eni e Shell per avere Opl 245. Eni ribatte di aver versato i soldi, dopo regolare contratto, su un conto ufficiale del governo nigeriano. Ora arrivano i documenti svizzeri.
24 settembre 2019
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