di Giorgio Bongiovanni
Nell’ultima settimana la notizia che Silvio Berlusconi è indagato a Firenze assieme a Marcello Dell’Utri nell’inchiesta sui mandanti occulti delle stragi del 1993 ha trovato spazio su diversi giornali e anche a livello politico non sono mancati i commenti polemici o di stupore da parte dei vari Renzi, Salvini, Meloni e Toti. Tutti fanno finta di non conoscere i motivi per cui l’ex premier è finito più volte sotto indagine. Intervenuto il 13 settembre 2017 davanti alla Commissione Parlamentare antimafia, allora presieduta da Rosy Bindi, il magistrato Nino Di Matteo aveva elencato una lunga serie di elementi di prova “meritevoli di approfondimento investigativo”.
“Il Fatto Quotidiano” ha pubblicato questa mattina sul quotidiano ampi stralci di quell’audizione che anche noi seguimmo come testata. Vogliamo cogliere l’opportunità di riproporre ai lettori la trascrizione integrale di quell’intervento perché, a nostro avviso, vennero affrontati argomenti chiave per comprendere quanto avvenne non solo con le stragi ma anche negli anni successivi.
Trascrizione integrale dell’audizione del pm Nino Di Matteo alla Commissione antimafia*
a cura di Miriam Cuccu – Video
Per prima cosa volevo ringraziare il presidente e tutti membri della Commissione per aver accolto la mia richiesta di essere audito, motivata dal perseguimento di un duplice scopo: da una parte spero di poter fornire un contributo alla verità, dall’altra di stimolare quegli approfondimenti che ritengo necessari, anche in sede politica, sul probabile coinvolgimento nella strage di soggetti esterni a Cosa nostra. Sono convinto di poter fornire un contributo di chiarezza rispetto alle tante inesattezze, bugie e ingiuste generalizzazioni che da tempo, ed in ultimo in occasione dello scorso anniversario della strage, vengono diffuse e rilanciate con grande clamore mediatico. E ciò con riferimento generale ai processi per la strage di via d’Amelio, celebratisi a Caltanissetta tra il ’92-‘93 e il ‘99, ma ancor più in particolare alla mia attività in quel pool antimafia, nel tentativo di coinvolgermi in vicende di investigazioni ed indagini che non ho vissuto e delle quali nemmeno marginalmente sono stato protagonista.
In occasione dell’ultimo anniversario della strage si è parlato, scritto e commentato di 25 anni di depistaggi e silenzi, da parte di autorevoli strumenti della stampa. Di 25 anni persi nella ricerca della verità sulla strage. Ritengo, sulla base dei fatti che vi esporrò, che queste sono affermazioni profondamente ingiuste. E anche molto pericolose, paradossalmente utili a chi teme e ha da temere che il percorso di accertamento completo della verità possa andare avanti.
Nell’ultimo periodo, anche grazie a indagini da me ed altri colleghi condotte a Palermo, sono emersi a mio avviso importanti elementi di prova che indicano che la strage non fu solo di mafia. Però, proprio in questo momento, e temo che non sia un caso, il dibattito e l’attenzione invece di concentrarsi sulla necessità di ulteriori approfondimenti in tal senso, si orientano a screditare e delegittimare il mio lavoro e la mia professionalità. Si finge di dimenticare, e da più parti sistematicamente si ignora, che tra il cosiddetto via d’Amelio bis e, ancora più importante, il cosiddetto via d’Amelio ter, ben 26 imputati sono stati condannati definitivamente per concorso in strage, per i quali l’affermazione di responsabilità è stata confermata fino alla Cassazione e mai messa in discussione, neppure dopo le acquisizioni più recenti che partono dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza. Il nostro è stato definito il Paese delle stragi impunite, ma questo non mi pare un risultato così irrilevante.
26 condanne definitive: non sono stati 25 anni persi nella ricerca della verità. Il processo di revisione ha riguardato, per quanto concerne le accuse di strage di imputati del cosiddetto via d’Amelio bis, 7 posizioni. Nessuno ricorda che già all’esito del processo di primo grado di quel troncone, via d’Amelio bis – sentenza di primo grado del 13 febbraio 1999 – 6 dei 7 soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla Corte d’Assise di primo grado. Tutti fingono di dimenticare che per 3 posizioni di quelle 6 erano stati gli stessi pubblici ministeri a chiedere l’assoluzione.
Sono stato chiamato in causa, anche da molti articoli di stampa, per quello che non ho fatto. Allora devo ricordare il contributo minimo che ho dato a queste indagini, e a questo accertamento dei fatti che continua e continuerà per sempre a rimanere uno dei punti principali del mio impegno. Io sono orgoglioso, e la considero un’esperienza professionale e umana unica, di un dato oggettivo. Ho seguito, tra quelli per la strage, un solo processo dall’inizio dell’indagine alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto Via d’Amelio ter. In quel processo sono state irrogate 20 condanne per concorso in strage. Quel processo prescinde completamente dalle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, che non era stato chiamato neppure a testimoniare. Nelle sentenze e negli atti del processo non c’è alcun suo riferimento. Quelle 20 condanne per strage sono state il frutto di un lavoro particolarmente complesso e delicato, sia nella fase delle indagini che in dibattimento, presieduto con una professionalità e un impegno eccezionali dal presidente Zuccaro. Quelle indagini e quel processo, in primo grado conclusosi con sentenza del 9 dicembre del ’99, sono stati la sede dove per la prima volta sono emerse con un grado di approfondimento notevole molte e concrete circostanze che anche oggi mi inducono a ritenere che la strage non fu solo di mafia, e che il movente non è stato esclusivamente mafioso.
L’allora giovane pubblico ministero ha fatto emergere in quella sede le piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimimo-Ros dei Carabinieri. Qui, per la prima volta, Salvatore Cancemi, pentito già appartenuto alla commissione provinciale di Cosa nostra, affermò che nello stesso contesto temporale, giugno ’92, nelle stesse riunioni in cui Riina di fronte agli altri membri della commissione si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito, a meno di 60 giorni di distanza da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare ora e in futuro, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga un bene per tutta Cosa nostra, anche per i soggetti già all’epoca detenuti.
Sono solo due spunti, ma ce ne sono tanti altri recentemente alimentati da numerose altre acquisizioni, che a mio avviso dovrebbero portare ad una immediata riapertura delle indagini sui mandanti esterni a Cosa Nostra e a un rinnovato impegno collettivo di tutte le istituzioni nel completamento del percorso di ricerca della verità.
Da magistrato e uomo delle istituzioni mi preoccupa il fatto che molti vogliono concentrare il dibattito e l’interesse esclusivamente sulla questione Scarantino, che nel compendio del lavoro dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta, nel periodo ’92-’99, è questione solo inizialmente centrale, e via via sempre più marginale. Affermare che tre processi sono stati fondati sulle dichiarazioni di Scarantino è un falso, ed è assolutamente infondato.
Affermare che anche il via d’Amelio bis si sia fondato esclusivamente sulle dichiarazioni di Scarantino è un altro dato falso, tanto è vero che molte condanne inflitte da quella Corte – Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano – sono state confermate e mai successivamente messe in discussione nonostante le dichiarazioni di Spatuzza. Ecco perchè nel fare questa affermazione significa non conoscere gli atti, adeguarsi ad una prospettazione che molto abilmente qualcuno sta instillando, anche nella mente di persone in buona fede. Significa non avere letto la requisitoria, fingere di non ricordare che lo stesso pubblico ministero, già nel via d’Amelio bis, aveva sostenuto che le dichiarazioni di Scarantino erano state inquinate dopo i primi 3 interrogatori, e che potevano essere utilizzate solo se confortate in maniera particolarmente significativa da altri e forti elementi di prova. Per questo motivo lo stesso pubblico ministero, in assenza di altri elementi di prova diversi dalle propalazioni di Scarantino, già nel via d’Amelio bis chiese ed ottenne l’assoluzione per il delitto di concorso in strage di Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati perchè altre fonti di prova in appello – in processi che non seguivo io né la Procura di Caltanissetta, ma l’organo inquirente della procura nissena – e le assoluzioni si trasformarono poi in condanne, ecco il perchè della revisione.
In questi anni si è detto di tutto, a proposito del movente e delle motivazioni del depistaggio, presunto o reale non spetta a me dirlo. Per prima cosa è stato scritto, da parte di tutta la stampa e degli orientamenti politici e culturali, che coinvolgere Scarantino nell’inchiesta e pilotare il suo pentimento fosse stato finalizzato a tenere fuori i fratelli Graviano e il mandamento di Brancaccio dalla fase esecutiva del delitto. Questa ipotesi, contrabbandata ormai come una certezza, cozza con un dato obiettivo: Scarantino nelle sue dichiarazioni obiettivamente false in gran parte, indicò subito i Graviano e loro principali uomini come Francesco Tagliavia e Lorenzo Tinnirello, come partecipi alla fase esecutiva della strage. Non è possibile, quindi, che il depistaggio Scarantino abbia avuto la finalità di tenere fuori i Graviano perchè erano i detentori principali di determinati rapporti di tipo politico.
Ancora, si è ipotizzato che arrestare Scarantino e pilotare le sue dichiarazioni possa essere stato finalizzato ad escludere ogni possibile coinvolgimento di apparati deviati dei servizi nella preparazione ed esecuzione della strage. Anche questo dato cozza con un altro: Scarantino fu il primo ad accusare nella fase di preparazione della strage Gaetano Scotto, che secondo molti collaboratori di giustizia ritenuti ora attendibili ha costituito per molti anni il principale punto di collegamento tra le cosche mafiose più sanguinarie di Palermo, i Madonia di Resuttana e i Galatolo dell’Acquasanta, e apparati deviati dei Servizi. Recentemente anche uno degli avvocati costituitosi parte civile nel cosiddetto Borsellino quater ha affermato che il ruolo di Scotto come membro di collegamento tra mafia e servizi sia particolarmente evidente, ed io sono assolutamente d’accordo. L’indagine che partì dalle dichiarazioni di Scarantino coinvolgeva Scotto, tanto che quest’ultimo fu condannato per concorso in strage, ma non solo sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Oggi Scotto è tra i soggetti revisionati ed è tornato in libertà a Palermo.
Non si tratta di difendere le dichiarazioni di Scarantino, smentite inequivocabilmente da Spatuzza e dalle successive indagini. Ma di capire qualcosa di più difficile: come mai queste dichiarazioni, false perchè fatte da un soggetto non coinvolto nella strage, in parte coincidono con quelle, ritenute attendibili, di Spatuzza?
Per esempio, nel coinvolgimento della fase esecutiva della strage del mandamento di Brancaccio, dei fratelli Graviano, di Francesco Tagliavia, di Lorenzo Tinnirello, nel ruolo attribuito a questi soggetti da Scarantino e Spatuzza c’è una sostanziale ed incredibile coincidenza. Il che lascia ipotizzare che alcune informazioni vere erano arrivate a chi, per sfruttarle, ha fatto un errore gravissimo mettendo in bocca a un soggetto che non sapeva nulla informazioni che chi le aveva ricevute riteneva attendibili.
Il dato di fatto è che Scarantino è un soggetto sottoposto a ordinanza di custodia cautelare per concorso in strage con ordinanza del gip di Caltanissetta il 26 settembre 1992. Quindi le presunte indagini depistanti vengono condotte dal 19 luglio, un minuto dopo l’esplosione, al 26 settembre. Scarantino non è un soggetto che dal nulla si presenta ai magistrati per farsi arrestare. Quelle indagini che portarono al suo arresto mossero da dichiarazioni e indagini precedenti. Quindi si tratta di capire chi condusse quelle indagini e i motivi degli errori o dei possibili depistaggi dal 19 luglio al 26 settembre ’92.
Ed è qui che crolla miseramente l’assunto di chi a tutti i costi, per screditare il mio lavoro di oggi, vuole coinvolgermi in vicende che non ho vissuto e di cui altri sono stati protagonisti. Quando vennero avviate le prime indagini dopo la strage non avevo nemmeno la funzione di magistrato. In quel momento ero un uditore giudiziario presso la Procura della Repubblica di Palermo. Divenni sostituto procuratore a Caltanissetta a fine settembre ‘92, proprio nei giorni in cui il gip sottoponeva a custodia cautelare Scarantino. Essendo neo arrivato, mi occupavo solo di procedimenti ordinari fino al dicembre del 1993. Solo il 9 dicembre ‘93 entrai a far parte della Direzione distrettuale antimafia, ma con il compito esclusivo, che ho mantenuto fino al novembre del ‘94, di inchieste e processi che riguardavano la mafia e la stidda di Gela. Entrai a far parte per la prima volta del gruppo di magistrati che seguivano le indagini e i processi per le stragi solo nel novembre del ‘94: 2 anni e 4 mesi dopo la strage, 2 anni e 2 mesi dopo l’arresto di Scarantino avvenuto sulla base di accuse di pentiti – Candura, Valenti e Andriotta – che io non ho mai interrogato, e di intercettazioni telefoniche che all’epoca non ho mai avuto modo di leggere o ascoltare. Sono entrato a far parte del pool che si occupava delle stragi del ’92 sei mesi dopo l’inizio della collaborazione di Scarantino, ben dopo quei colloqui investigativi della polizia che solo nei mesi scorsi, dalle cronache processuali, ho appreso che avevano anticipato e accompagnato quei primi interrogatori.
Questa è la verità oggettiva. Non mi sono mai a nessun titolo occupato del primo processo per la strage di via d’Amelio, nel quale era imputato Scarantino. Nel processo Borsellino bis ho rappresentato l’accusa solo in dibattimento, ed anche nell’udienza preliminare i magistrati che rappresentavano l’accusa erano altri. L’unico troncone che ho seguito in ogni fase è quello del ter. Questi sono dati di fatto che mi dispiace vengano sistematicamente ignorati.
Cito alcuni dati su delle questioni, come la lettera della dottoressa Boccassini, che nell’ottobre ‘94 esprimeva al procuratore di Caltanissetta le proprie perplessità sull’attendibilità delle prime dichiarazioni di Scarantino. Io dell’esistenza di questa lettera ho appreso quattro, cinque o sei anni fa nel momento in cui, svolgendo indagini a Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, avevamo avviato un collegamento investigativo con Caltanissetta, e ho avuto modo di sapere prima dai colleghi e poi di leggere il suo contenuto tra il 2011 e il 2012. Quando è stata redatta non ero nemmeno entrato a far parte del pool stragi. Come ho già detto in occasione della mia testimonianza al processo Borsellino quater io, giovane magistrato di allora appena arrivato, non ho mai parlato di indagini sulle stragi o di nessun tipo con la dottoressa Boccassini. Lei era l’autorevole esponente del pool, io non ne facevo ancora parte. Nè la Boccassini ha mai parlato con me di Scarantino. Non ho mai partecipato a nessuna riunione della Direzione distrettuale antimafia a cui partecipò la dottoressa Boccassini. La vedevo spesso gli ufficiali di polizia più importanti ed autorevoli di allora, e con il dottor La Barbera, che neanche mi salutava. Non ho mai parlato con lui di vicende relative ad indagini.
Se a settembre ‘92 si arriva ad un arresto in base ad un’indagine errata o addirittura depistata, chiamare in causa il dottor Di Matteo che inizia ad occuparsi dal novembre ’94 è un fuor d’opera, che certe volte temo sia volontariamente portato avanti sfruttando anche la buona fede e la comprensibile sete di verità di molte persone.
So che è stata posta la questione del cosiddetto mancato tempestivo deposito agli atti del processo Borsellino bis, che ho seguito in fase dibattimentale, dei confronti che nel gennaio ‘95 assieme ad altri colleghi disposi e feci effettuare tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo.
Per questi mancati depositi siamo stati oggetto di una denuncia penale alla Procura di Catania, poi chiusa con un’archiviazione, da parte di alcuni avvocati. Ma tutti quei confronti sono stati da noi depositati, a disposizione dei difensori degli imputati, e prodotti alla Corte d’Assise ben prima della conclusione dell’istruttoria dibattimentale del processo. Il processo si è concluso con la piena e legittima consapevolezza e conoscenza di tutte le parti processuali dell’esistenza e dei contenuti di quei confronti. Tanto è vero che oggetto di quel confronto era la partecipazione, assunta da Scarantino e negata dagli altri tre collaboratori, ad una riunione preparatoria della strage a casa di Calascibetta. Tanto abbiamo depositato quei confronti, e tanto eravamo convinti nella fase valutativa che Scarantino su quel punto avesse mentito, che per Calascibetta, accusato solo di partecipazione in questo segmento preparatorio, abbiamo chiesto l’assoluzione.
Perchè non abbiamo depositato subito, ma solo dopo alcuni mesi, senza comunque pregiudicare alcun diritto di difesa? In quel momento avevamo la pendenza in dibattimento del via d’Amelio bis e in fase di indagine del ter, dove erano indagati anche Cancemi e Di Matteo, e avevamo dei motivi ben precisi per ritenere che anche loro fossero stati reticenti sulla strage di via d’Amelio. Cancemi aveva ammesso la sua partecipazione alla strage di Capaci, ma giurava di non sapere nulla su via d’Amelio, cosa che ritenevamo impossibile. Per noi era reticente, e solo a partire dalla seconda parte del 1996 Cancemi ammise la sua partecipazione alla strage di via d’Amelio, riferì di quelle circostanze sulla riunione a casa di Guddo e la citazione, da parte di Riina, di Berlusconi e Dell’Utri, e disse di non aver parlato prima perché troppo delicate erano le sue dichiarazioni su via d’Amelio.
In quel primo momento avevamo delle forti perplessità anche sulla reticenza di Mario Santo Di Matteo, che come Cancemi sosteneva di non sapere nulla di via d’Amelio. Ma nel dicembre del ‘93, poco dopo il rapimento del figlio del collaboratore di giustizia – il piccolo Di Matteo – su disposizione della Procura di Caltanissetta la Dia di Roma effettuò un’intercettazione del primo drammatico colloquio, successivo alla notizia del sequestro, tra Mario Santo Di Matteo e la moglie Francesca Castellese. In quel momento la moglie invocava il marito di non parlare di via d’Amelio perché erano coinvolti quelli che la signora Castellese definiva infiltrati della polizia. Quindi il mancato iniziale deposito di quei confronti dipendeva dal fatto che in relazione a questi elementi pendeva un’indagine che poi sfocerà nel via d’Amelio ter, per cui dovevamo capire chi avesse detto la verità e chi no. Quando siamo stati convinti che quella riunione a casa di Calascibetta non c’era stata non solo abbiamo depositato e prodotto, ma abbiamo chiesto in dibattimento un ulteriore confronto davanti alla Corte tra i pentiti che si contraddicevano.
La presidente Bindi interviene per chiedere al dott. Di Matteo quanto tempo sia passato tra la fase degli accertamenti e il loro deposito.
Credo un anno. Ma in questo anno non c’è stata una tappa processuale, non c’è stato alcun momento che abbia potuto pregiudicare il diritto di difesa degli imputati. Perchè, quando tutti dicono che i pm dovrebbero chiedere scusa per i revisionati, nessuno ricorda che per una parte di quei soggetti i pm già allora avevano chiesto l’assoluzione?
Si è parlato anche delle ritrattazioni di Scarantino prima della sentenza del Borsellino bis. Nelle occasioni in cui ho interrogato Scarantino in fase di indagine e dibattimento, non mi ha mai fatto cenno di essersi inventato alcunchè o di essere stato indotto da chicchessia a dire qualcosa. L’ho già riferito nella testimonianza a Caltanissetta: ho letto che lo stesso Scarantino, interrogato al dibattimento, ha detto che siccome il dottor Di Matteo manteneva un atteggiamento assolutamente formale e distaccato lui non gli ha mai detto questo. Addirittura ha detto – e ho dovuto smentirlo – che lui non aveva mai nemmeno telefonato all’utenza in uso al dottor Di Matteo per lamentare i modi in cui veniva gestita la protezione. L’ho smentito perché qualcuno aveva dato il numero dei sostituti procuratori a Scarantino, e in un’occasione ho ricevuto nella segreteria telefonica 8 chiamate di seguito da parte di questo soggetto che diceva di voler tornare a Pianosa perché erano state disattese le promesse fatte dagli organi di polizia deputate alla protezione sua e dei suoi familiari e sulla possibilità di trovare un posto di lavoro.
Scarantino a me non ha mai detto nulla. Io non ho mai autorizzato, né mai ho letto un’autorizzazione di un magistrato, a colloqui investigativi della polizia con Scarantino o con altri collaboratori di giustizia. Sono venuto recentemente a sapere dalle cronache del processo Borsellino quater che addirittura prima dell’interrogatorio del 24 giugno 1994 erano stati autorizzati da altri magistrati colloqui investigativi con Scarantino, svolti credo dal dottor La Barbera, quindi prima del primo interrogatorio.
Sulla ritrattazione di Scarantino ricordo bene che nell’ultima fase chiese e ottenne di essere risentito, e nell’aula bunker di Como affermò di essersi inventato tutto. In quella circostanza accusò i magistrati, e anche me – mentre ora afferma di non avermi detto niente – di averlo costretto a dire quelle cose. Sulla base di questo non interrogammo più Scarantino, perchè siamo stati indagati un’altra volta dalla Procura di Catania, almeno immagino, perchè non ho avuto contezza di una mia iscrizione nel registro degli indizi di reato, poi ho letto sulla stampa di una richiesta di archiviazione.
In fase di requisitoria dovevamo fare le nostre valutazioni sulle ritrattazioni di Scarantino. Sulla sua collaborazione l’avevamo già fatta, dicemmo che era attendibile solo molto parzialmente, che non l’avremmo mai usato per chiedere una condanna senza altri autonomi elementi di prova, e così abbiamo fatto. La Corte, sulla base di elementi oggettivi, ha ritenuto che la ritrattazione, veritiera o meno, fosse stata illecitamente indotta. Noi avevamo la prova attraverso le dichiarazioni di un sacerdote di Modena, don Neri, che nei giorni precedenti a quella ritrattazione Scarantino era stato avvicinato da familiari suoi e di altri imputati nella località protetta dove viveva in Emilia Romagna. Ma soprattutto, intercettando l’allora latitante Gaetano Scotto, dall’ambientale a casa della moglie Cosima D’Amore, ci accorgemmo che alcuni avvocati, alcuni oggi parti civili nel quater – quelli che pensano che tutti i misteri siano legati esclusivamente alla vicenda iniziale di Scarantino – avevano chiesto soldi anche al latitante e alla moglie così da farli pervenire a Scarantino per ritrattare. Ci sono delle parole di D’Amore Cosima che hanno fatto scrivere ai giudici della Corte d’Assise nella motivazione della sentenza di via d’Amelio bis: “Si trae dall’anomalo comportamento che questa Corte ha potuto verificare con riferimento al disposto esame di Basile Rosalia, moglie di Scarantino Vincenzo, ma soprattutto si trae dalle intercettazioni e dai pedinamenti compiuti nei confronti di D’Amore Cosima, moglie dell’imputato Scotto Gaetano, intercettazioni e pedinamenti dalle quali emerge in modo assolutamente inequivoco l’impegno di carattere economico richiesto ai familiari di un imputato latitante per offrire a Scarantino Vincenzo le garanzie anche di assistenza processuale a lui richieste nonché, a seguito di apposito servizio di osservazione, un anomalo intervento nella vicenda al di fuori dell’ordinario ambito processuale da parte del difensore di Scotto Gaetano, avvocato Giuseppe Scozzola”.
Questi sono i fatti. Se qualcuno ha depistato via d’Amelio andatelo a cercare in chi ha condotto le indagini che hanno portato all’arresto di Scarantino. Se qualcuno in dibattimento ha creduto a Scarantino, ricordate che quei pm citati in causa – io parlo per me – per metà degli accusati di Scarantino hanno chiesto l’assoluzione e per gli altri hanno chiesto la condanna sulla base di altri. Se qualcuno si lamenta del fatto che 7 posizioni sono state revisionate, bisogna ricordare che la stessa Corte di primo grado ne aveva assolte 6.
Questi sono i dati oggettivi su quelle vicende che qualcuno vuole falsamente e strumentalmente utilizzare nei miei confronti. Non voglio fare dietrologia, so benissimo che c’è anche una gran parte di persone, politici, giornalisti, che aspira alla verità e pensa che questa sia la questione centrale dell’accertamento della ricerca della verità su via d’Amelio. Ma temo che ci sia invece qualcuno che voglia azzerare, delegittimare e buttare al vento tutto quello che si è fatto: i 26 ergastoli definitivi, dire che su via d’Amelio non sappiamo niente, per non andare avanti. Abbattere anche le parti solide dell’impianto probatorio per non ripartire mai più.
E invece ci sono degli spunti, delle parti solide per dire che quei processi quelle indagini, soprattutto il via d’Amelio ter l’ha iniziato a tracciare, che oggi meriterebbero l’approfondimento, su cui oggi si dovrebbe appuntare l’attenzione, non solo della magistratura e degli organi investigativi ma anche della politica, della Commissione parlamentare antimafia e dell’opinione pubblica in generale.
Uno dei principali protagonisti della stagione delle stragi del ’92, Mario Santo Di Matteo, nel momento drammatico del primo colloquio con la moglie dopo il rapimento del figlio viene in maniera disperata pregato di non parlare della strage di via D’Amelio. Nell’ambito delle indagini su via d’Amelio ter io li ho poi posti a confronto: hanno negato la valenza di quelle intercettazioni, che però pesano come un macigno.
Per me è un momento liberatorio poter dire che questi 25 anni proprio persi non sono stati. E che in questi anni qualcuno si è esposto in maniera particolare per queste indagini, per cui leggere 25 anni di insabbiamenti fa molto male.
C’è uno spunto che è stato sempre trascurato: il giorno dopo la strage di via d’Amelio un ufficiale molto stimato del Ros dei Carabinieri, l’allora capitano Sinico, si presentò in procura a Palermo e ad alcuni magistrati – Antonio Ingroia e un altro – disse che aveva saputo che nel momento immediatamente successivo all’esplosione in via d’Amelio era stato visto il dottor Contrada allontanarsi dal teatro della strage, non ricordo se disse o meno con un’agenda in mano. Il collega Ingroia riferì immediatamente a verbale questi fatti a chi conduceva le indagini all’epoca. La dottoressa Boccassini, in particolare, prese a verbale il dottor Ingroia. Io lo leggo quando, nel ’95, comincio a sfogliare le carte delle indagini precedenti. Sinico era stato chiamato dalla dottoressa Boccassini e aveva detto: “Si tratta di un mio amico fraterno, e non lo voglio esporre, non le dico chi è la persona”.
Dal ’92 fino a quando il giovane pubblico ministero nel ’95 prende queste carte e legge il verbale, questa affermazione di Sinico bloccò le indagini su quel punto. Io andai dal procuratore dell’epoca e dissi che questo ufficiale non poteva invocare il diritto di non rivelare la fonte della sua informazione, non si trattava di un confidente ma di un amico. Richiamai quell’ufficiale, particolarmente efficace ed esposto nella lotta alla criminalità, che era stato indicato dal confidente D’Anna come il possibile oggetto di un attentato insieme al dottor Borsellino. Mi disse a verbale: “Lei ha ragione ed ha coraggio, però io mi faccio incriminare, non rivelo i nomi di chi ha saputo che Contrada era in via d’Amelio”. Io lo iscrissi nel registro degli indagati per false informazioni al pm. Quando lo stavo per rinviare a giudizio si presentò spontaneamente e mi disse: “Ho deciso di fare il nome”. Nel frattempo altri ufficiali dei Carabinieri avevano detto di aver saputo da Sinico la stessa informazione. Io avevo messo a confronto gli ufficiali ed in una prima fase Sinico aveva detto a Canale che si stava inventando tutto, poi mi disse che Canale non si era inventato niente. Il soggetto che gli aveva detto di aver saputo che Contrada era lì era un funzionario di polizia, dottor Di Legami, prima sottufficiale del Ros, poi vinse il concorso in polizia e passò alla Squadra Mobile. Di Legami aveva riferito a Sinico che la stessa sera del 19 luglio alla Squadra Mobile degli agenti di polizia sopraggiunti per primi sul luogo della strage avevano visto Contrada in via d’Amelio, avevano preparato una relazione di servizio che attestasse questa circostanza ed era stato intimato loro di distruggerla. Sinico dice: “E’ stato il mio amico, il dottor Di Legami, a dirlo, e ve lo può confermare anche un altro ufficiale del Ros, tenente Del Sole, che era con me quando me lo disse”. Io disposi dei confronti tra ufficiali dei carabinieri e funzionari di polizia, tutti stimati, da una parte e dall’altra. Uno diceva “tu mi hai detto che c’era Contrada”, l’altro, il dottor Di Legami, disse “tu stai dicendo una bugia e io so perché”. Un contrasto su una circostanza che non è proprio di poco momento. Avevamo da una parte due ufficiali di Carabinieri, dall’altra un funzionario della Polizia di Stato, che dicevano il contrario. Tanto che nel momento in cui venni trasferito a Palermo, scelsi di esercitare l’azione penale. Si è fatto un processo che è passato completamente sotto silenzio, nei confronti del dottor Di Legami per falsa informazione al pubblico ministero, concluso con un’assoluzione. Ma il dato di fatto è che se non ha mentito Di Legami l’avrebbero fatto gli ufficiali del Ros. Tutti questi spunti sono nelle indagini.
Anche su Salvatore Cancemi ci sono molti spunti. Il Ros aveva ricevuto dai procuratori di Caltanissetta, Tinebra, e Palermo, Caselli, l’incarico di custodirlo. Dal ’93 al ’96, nel momento in cui era sotto la protezione diretta del Ros – credo fu l’unico collaboratore di giustizia – materialmente custodito in una caserma dei carabinieri, dice di non sapere nulla della strage di via d’Amelio. Nel ’96 ci chiama e ci dice che aveva partecipato alla strage, ai pedinamenti la mattina degli spostamenti del dottor Borsellino. Cancemi aveva detto che Raffaele Ganci gli aveva detto che Riina aveva parlato con persone importanti, grazie alle quali aveva le spalle coperte. In quell’occasione per la prima volta mi dice: “Ricordo una riunione a casa di Girolamo Guddo nel giugno ’92, tra Capaci e via d’Amelio, quando Riina ci disse ‘adesso dobbiamo mettere mano all’eliminazione del dottor Borsellino’. Qualcuno degli esponenti disse ‘perchè in questo momento?’”. Ricorderete tutti che dopo l’iniziale reazione che portò al decreto legge l’8 giugno ’92 con l’introduzione del 41 bis in Parlamento stava maturando, e se ne aveva conoscenza dai giornali, una maggioranza contraria alla conversione in legge di quel decreto. Qualcuno fece notare a Riina che fare un’altra strage a ridosso avrebbe comportato delle conseguenze negative, con l’espressione raccontata da due collaboratori di giustizia, Cancemi e Brusca, con la quale Ganci Raffaele disse a Riina “ma che dobbiamo fare, la guerra allo Stato?”. E Riina disse: “La responsabilità è mia, si deve fare ora e sarà un bene per Cosa nostra” e, secondo Cancemi, in quel momento avrebbe detto: “Ora e in futuro dobbiamo sempre appoggiare Berlusconi e Dell’Utri, fare riferimento a queste persone, Cosa nostra ne avrà dei benefici”.
A proposito dell’insabbiamento, della “procura paramassonica” e quant’altro. All’epoca eravamo due giovani magistrati, io e il dottor Tescaroli, anche se non siamo stati i soli, perchè alcuni magistrati ci appoggiarono. Davanti al procuratore capo, dottor Tinebra, che venne alla riunione con Il Giornale che titolava in prima pagina “le balle di Cancemi”, pretendemmo che venissero iscritti per concorso in strage Berlusconi e Dell’Utri, con i nomi di copertura Alfa e Beta. Facemmo delle indagini e delle deleghe di indagini firmate esclusivamente dai due giovani magistrati della procura, Di Matteo e Tescaroli.
Ricorderò sempre il dato poi ripetuto processualmente anche da un collaboratore di giustizia più recente: Vito Galatolo, soggetto appartenente ad una famiglia stragista, che scrisse nel novembre del 2014 chiedendo di avere un colloquio con me, che ero alla Procura di Palermo. E come è diventato noto anche a questa Commissione, quando fu al cospetto mio e dell’ufficiale di polizia giudiziaria non volle verbalizzare niente ma disse in maniera agitata che dovevo stare attento perchè l’attentato nei miei confronti era già pronto nei minimi dettagli. Raccontò del tritolo acquistato e di aver visto l’esplosivo destinato all’attentato, e alla mia domanda “perchè?” fece un gesto: c’era in quell’aula del carcere di Parma una nota fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e Galatolo disse: “La sua situazione è non come quello – indicando Giovanni Falcone – ma come l’altro. A noi, come era avvenuto per l’altro, ce l’hanno chiesto. All’epoca ero giovane ma sono figlio di mio padre e queste cose le ho sapute”.
Ovviamente non mi sono più potuto occupare di interrogare Galatolo, penso che altri l’avranno fatto. Ma gli spunti sono tanti. Per anni, soprattutto da quando si è pentito Spatuzza, abbiamo saputo che il principale protagonista della fase esecutiva della strage di via d’Amelio è stato Giuseppe Gravano. L’abbiamo appreso anche prima, dalle indagini da me condotte: c’è il dato che Giovanbattista Ferrante, l’uomo incaricato di pedinare il dottor Borsellino, vide transitare il convoglio delle macchine in via Belgio alle 16.52, per dire che stava arrivando dalla madre, dove sapevano che doveva arrivare, chiamò un telefono nella disponibilità di Cristoforo Cannella, più stretto uomo di fiducia di Giuseppe Graviano. Poi, del ruolo di Graviano, abbiamo saputo ancora meglio con Spatuzza. Però sappiamo anche che Graviano è stato il principale protagonista degli attentati a Roma, Firenze e Milano del ‘93. Oggi sappiamo che è stato anche il principale protagonista dell’accordo con la ‘Ndrangheta che portò nei primi mesi del ’94: il 18 gennaio al duplice omicidio dei due appuntati dei carabinieri a Scilla, Fava e Garofalo, e gli altri attentati per fortuna falliti nei confronti dei carabinieri, sempre in territorio calabrese. Soprattutto, sappiamo che Graviano è stato il principale protagonista del fallito attentato all’Olimpico, il 23 gennaio 1994. Il 27 gennaio, insieme al fratello Filippo, viene arrestato a Milano. Quell’attentato è uno dei grandi misteri, non tanto perchè non sia riuscito il 23 gennaio, ma perchè non sia stato mai più ripetuto, per fortuna, anche se ci dovremmo chiedere il perchè.
Quando Spatuzza si pentì fecero scalpore le dichiarazioni sull’incontro al bar Doney a Roma, in via Veneto, che riusciamo a collocare pochi giorni prima del 23 gennaio. Rivela Spatuzza di come Graviano gli dice che l’attentato lo devono fare lo stesso, che i calabresi si sono mossi, che dobbiamo dare quest’ultimo colpo, tanto ormai “ci siamo messi il Paese nelle mani” e avrebbe fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri come i soggetti con i quali erano stati stipulati quegli accordi. All’epoca si disse che erano dichiarazioni de relato. Oggi, con la nostra attività alla Procura di Palermo, un anno di intercettazioni ambientali dei colloqui tra Giuseppe Graviano e il suo compagno di socialità, c’è la viva voce di Graviano, perno di queste vicende, che parlando del ’92 e ’93 e delle stragi fa riferimento di cortesie fatte e di contatti politici con Berlusconi.
Mi auguro di sbagliare, ma rispetto a questa escalation di elementi di prova sul punto, temo l’indifferenza, la minimizzazione, lo svilimento ingiustificato della valenza probatoria anche delle dichiarazioni di Graviano, attraverso la discutibilissima affermazione prospettata da alcuni difensori e fatta propria dalla maggior parte dei giornali, che Graviano sapeva di essere intercettato. A noi risulta il contrario, ma ammesso e non concesso che sapesse di essere intercettato, il fatto che si riferisse a quelle vicende e persone, in relazione al periodo delle stragi, in ogni caso un significato dovrà pur averlo.
Sono veramente tanti gli spunti che ancora dovrebbero essere approfonditi. Molti sono stati il frutto del lavoro di magistrati tra i quali c’ero anch’io. Tutto viene concentrato sulla vicenda Scarantino: si vuole far credere che il lavoro fatto finora da decine di magistrati non è servito a nulla. Io temo che questo sia controproducente all’accertamento della verità.
Spero che questa mia audizione possa servire anche a stimolare lo sforzo di prosecuzione e completamento del percorso di verità sulle stragi che oggi, lo affermo con molta amarezza ma piena consapevolezza e senza enfatizzazione, è rimasto nel disinteresse generalizzato sulle spalle di pochi magistrati, investigatori ed esponenti della politica.
La presidente interviene evidenziando che per la Commissione Antimafia Scarantino non rappresenta un pretesto per spostare l’attenzione da quello che appare come un vero e proprio depistaggio. La Bindi domanda quindi al dott. Di Matteo se consideri la vicenda Scarantino un errore giudiziario.
Io non penso assolutamente che per la Commissione la vicenda Scarantino possa costituire un pretesto per non indagare in altre direzioni. Per questo motivo, quando dopo le vostre audizioni del 18 e 19 luglio a Palermo si è scatenata quella campagna mediatica, non ho replicato con un’intervista, ma ho chiesto di rappresentare dei dati di fatto, e per me la sede istituzionale più autorevole è questa dove poter rappresentare ciò che avevo già riferito in aula a Caltanissetta.
Non ho mai citato né le interviste né le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Anche per me è importante che si accerti se nella fase iniziale sia intervenuto un depistaggio, perchè può essere indicativo di mandanti o complicità esterne. Ma c’è una parte della stampa – che da sempre fa riferimento a Giuliano Ferrara, al Foglio, molto spesso ripresa da organi di informazione importanti in Sicilia – che concentra tutto quello che c’è ancora da approfondire sulla strage di via d’Amelio sulla fase iniziale di Scarantino, e ho il sospetto che tragga origine dal fatto che si vuole azzerare tutto. Si vuole dimostrare che nulla è stato fatto per dire che nulla ancora si può fare. Si è scoperto che Scarantino era un collaboratore inattendibile o poco attendibile, sul punto preciso che nel via d’Amelio ter, tra il ’97 e il ’99, non l’abbiamo nemmeno citato. Nel via d’Amelio bis, nell’istruttoria dibattimentale, le dichiarazioni di Scarantino sono state usate minimamente, noi stessi abbiamo parlato di inquinamento. Abbiamo chiesto chiesto l’assoluzione di parte importante delle persone accusate da Scarantino, e di tutti quelli che erano accusati solo da Scarantino.
La presidente Bindi interviene ulteriormente sulla questione del depistaggio.
E’ stato pesante nella prima fase: nel primo processo e solo in parte nel secondo. Poi è stato completamente disatteso dallo sviluppo delle indagini. Sul punto sono stati poi sentiti Cancemi, Ferrante, e la stessa Procura di Caltanissetta dell’epoca non l’ha nemmeno messo nella lista dei testimoni. I processi via d’Amelio bis e ter vengono celebrati nel ’96-’97. Non guardate solo alle dichiarazioni di Scarantino. Se lui è il pupo che qualcuno ha vestito bisogna vedere come si è arrivati a individuarlo il 26 settembre ‘92. E quel giorno, ad occuparsi delle stragi in generale, erano altri magistrati, tra i quali i dottori Boccassini, Cardella, Tinebra. Ricorderò male, ma mi pare che al primo interrogatorio di Scarantino ci fosse anche la Boccassini.
Se c’è stato depistaggio, secondo la mia opinione, si è cominciato a concretizzare prima del settembre ‘92. Io entro a far parte del pool stragi due anni e due mesi dopo. È possibile che qualche informatore della polizia avesse indicato in parte la verità, e con un’operazione spregiudicata la polizia abbia trovato una persona che si assumesse e mettesse a verbale la paternità di quelle conoscenze? A me fa paura il dato che Scarantino non accusa solo persone innocenti, ma anche soggetti del mandamento di Brancaccio che anche Spatuzza accuserà, e poi condannate definitivamente. Questo è un altro dato secondo me importante.
Per quanto riguarda la lettera della dottoressa Boccassini anch’io, sotto giuramento da testimone, ho detto prima di oggi queste cose, e cioè che quella lettera l’ho conosciuta soltanto negli ultimi anni a Palermo. Forse non c’è nemmeno contraddizione, a meno che la dottoressa Boccassini non dica di avermene parlato. Ma con me non ne ha parlato. Quella lettera, che ora apprendo non essere nemmeno firmata, non l’avevo mai vista, nessuno me ne ha parlato. E questa è la realtà dei fatti.
La presidente della Commissione Antimafia interviene per chiedere se, al di là di politici, poliziotti e carabinieri implicati in questa vicenda, vi sia anche qualche magistrato.
E’ possibile, ma tra i magistrati che in quella vicenda potevano essere implicati non c’era certamente il dottor Di Matteo… Però, presidente, il mio nome è stato fatto e guarda caso da tanto tempo, da prima del 19 luglio, per la vicenda Scarantino è al centro di una continua campagna di stampa, soprattutto di alcuni organi di stampa che notoriamente sono vicini ad alcuni soggetti di cui alle piste investigative che ho delineato.
L’On. Bindi conclude la seduta chiedendo nuovamente al dott. Di Matteo se ritiene la vicenda Scarantino un errore giudiziario.
Se qualcuno ha messo in bocca a un soggetto che non sapeva niente, come ho ipotizzato ora, qualcosa che aveva appreso da altri, non è semplicemente un errore: è un depistaggio e una condotta gravissima. Se qualcuno nella magistratura l’abbia avallata è altrettanto grave. L’errore può essere la valutazione sulla credibilità piena, non piena o parziale. Se questo è avvenuto, ed è l’ipotesi che ritengo più credibile, non si tratta semplicemente di un errore ma di qualcosa di ben più grave, che è certamente opportuno accertare.
* Audizione tenutasi mercoledì 13 settembre 2017
COMMISSIONE ANTIMAFIA – Audizione sostituto procuratore Di Matteo