Ventisei anni fa il Premio Nobel per la Pace veniva assegnato a Nelson Mandela e Frederik de Klerk che con il regime segregazionista sudafricano avevano messo fine anche al lungo boicottaggio sportivo internazionale. Un boicottaggio ignorato però da molti calciatori britannici che non si fecero scrupoli pur di incassare milioni di dollari.
di Vincenzo Lacerenza
Lo sapevate? Gordon Banks, il portierone inglese della parata del secolo su Pelè ai Mondiali del 1970, ha giocato anche in Sudafrica, anche se si è trattato soltanto di un pugno di match d’esibizione con l’Hellenic FC, la squadra della comunità greca di Città del Capo.
Erano anni bui per il paese di Nelson Mandela. Lo sport si specchiava in una società frammentata da un muro ideologico innalzato dal National Party, il papà dell’apartheid. Tutto era diviso e per un certo periodo sono esistite contemporaneamente svariate federazioni e almeno tre campionati diversi, in pratica uno per ogni etnia.
Le “contaminazioni”, i contatti tra mondi che dovevano restare assolutamente separati, erano vietatissimi. Il ministro Jan de Klerk, padre di Frederik – insignito del Premio Nobel per la Pace insieme a Nelson Mandela esattamente 26 anni fa, era stato chiaro: “Nessuna squadra mista deve partecipare a competizioni né in questo paese né all’estero”. Chi disobbediva finiva dritto in carcere.
Questo, sostanzialmente, è stato il motivo per cui tra gli anni ’60 e ’70 CAF e FIFA decisero di espellere il Sudafrica dalla comunità calcistica internazionale, tenendolo in isolamento sino al 1992, quando a Durban la nazionale di calcio giocò una partita amichevole con il Camerun, dando vita al mito dei Bafana Bafana, ovvero “i nostri ragazzi” in lingua zulu.
La reazione del mondo dello sport di fronte alle politiche segregazioniste del governo sudafricano, però, non fu unanime. Molti atleti, come il tennista newyorkese John McEneroe, si rifiutarono di mettere la loro popolarità al servizio dell’apartheid, unendosi al boicottaggio internazionale al grido di “No normal sport in abnormal society” (Nessuno sport normale in una società anormale).
Altri, invece, accettarono la corte del Sudafrica, visto come una sorta di Eldorado dove spendere gli ultimi anni di carriera oppure monetizzare un’estate passando da un torneo di esibizione all’altro.
I britannici furono tra i più pronti nel cedere alle lusinghe del governo sudafricano. Il loro fu un vero e proprio esodo di massa, un viaggio collettivo verso una nuova terra promessa. Secondo un censimento del quotidiano Daily Mail realizzato nel 1969, in quel periodo ben 150 calciatori britannici risultavano tesserati per sedici club della massima divisione sudafricana, vale a dire la National Football League (NFL), accessibile solo ai bianchi.
Tre anni prima, addirittura, in NFL avevano cominciato a nominare due “Giocatori dell’anno”, uno locale e l’altro scelto tra la nutritissima “legione straniera”.
Oltre a Banks, infatti, girando per gli stadi di Johannesburg, Durban, Pretoria e Città del Capo, in quegli anni era possibile ammirare tanti altri Campioni del Mondo del 1966. Dal leggendario capitano Bobby Moore, protagonista di un tour nel 1979, a Roger Hunt, accasatosi in prestito al Cape Town City nel 1973, passando per Geoff Hurst, l’autore del gol-fantasma più famoso della storia dei Mondiali; e i fratelli Charlton, Jack e Bobby, transitati anche loro per una toccata e fuga estiva, fino ad arrivare a Terry Paine, uno dei pochi ad aver messo poi radici nella futura Rainbow Nation.
I ragazzi del ‘66 erano in buona compagnia: in Sudafrica hanno giocato match d’esibizione, o sono passati in tournee con le squadre più improbabili, anche personaggi come Frank Mclintock, Sir Stanley Matthews, il primo Pallone d’Oro della storia del calcio, Alan Ball, Kevin Keegan, Peter Lorimer e persino il divino George Best.
Uno dei tour più criticati dall’opinione pubblica internazionale è stato quello del 1982, voluto da una società sudafricana e organizzato da Jimmy Hill, l’ex presidente della PFA, l’asso-calciatori del Regno Unito: inizialmente erano previsti sei match di esibizione, ma l’assordante coro di polemiche levatesi da più parti, tra cui anche dalla FIFA, portarono alla conclusione anticipata del tour dopo appena tre partite, l’esatta metà di quelle programmate.
La notizia ha fatto grande scalpore soprattutto nel Regno Unito, ma ogni volta che qualcuno è tornato a girare questa pagina imbarazzante per il calcio inglese, i protagonisti non hanno mai mostrato alcun segno di pentimento. Anzi, si sono sempre difesi a spada tratta, facendo quasi finta, alle volte, di cadere dalle nuvole.
Ad esempio Roy Hodgson, ex tecnico di Inter e nazionale inglese, ha giocato col Berea sudafricano tra il 1973 e il 1974, ma non ha mai sentito il dovere, né tantomeno la necessità, di scusarsi con qualcuno o di pentirsi per qualcosa: «All’epoca ero giovane e sono andato lì per ragioni esclusivamente calcistiche. Volevo solo giocare a calcio e non ho pensato al sistema politico: non ha avuto alcun peso nella mia decisione».
17 ottobre 2019