Cosa hanno in comune Lemno, Ischia, un arcipelago nell’Oceano Indiano e tante baie o porti fluviali che si addentrano verso l’interno? E che relazione c’è tra La Mora (toponimo tra Persiceto e San Matteo della Decima) e il complesso sistema di regolamentazione delle acque? E perché la necessità di provvedere alle corvées (costruzione e manutenzione di argini, chiuse, bonifiche, e gestione di terre per il pascolo e l’agricoltura) ha disegnato il paesaggio e modellato per migliaia di anni le forme di governo delle comunità? E perché si ripresenta ciclicamente la lotta fra demanio pubblico, a conduzione comunitaria o affidato ai piccoli contadini, e latifondo privato, fondato sulla usurpazione delle terre comuni?
Dal punto di vista linguistico, che credibilità ha la glossa di Esichio, la cui fonte è probabilmente Varrone, che sostiene che àrimo significa scimmia in etrusco? Con gli strumenti aggiornati della linguistica preistorica si dimostra qui che quella paretimologia non ha alcun fondamento, e che àrimo va probabilmente inserito nella serie dei toponimi-idronimi-etnonimi della serie Rimini-Lèmene, uno sciame di nomi risalenti almeno all’età del bronzo e declinati localmente nelle forme LIM-, LUM-, RIM-, ecc. ecc. Ma la cosa davvero sorprendente è che questi termini si trovano anche in Asia e in America, come scoprirono i marañones (i marangoni imbarcati sulle navi spagnole) quando nell’alto corso dell’Orinoco, in Perù, seppero come si chiamava in lingua quechua quel fiume.
Dal marangone, uccello delle paludi, al marangone, falegname delle palafitte, al mastro d’ascia delle Repubbliche marinare e poi della marineria spagnola, il termine marangone va in cerca delle sue radici, e, al di sopra delle Marane, delle marañas, di Marano e di Maranello, si muove verso l’arcilessema Mar- Moor- Meer- Mair- Mare, diffuso in tutto il mondo.
L’indagine linguistica è il filo conduttore che caratterizza non solo le traduzioni dal lemnio, dall’etrusco, dall’umbro, dal greco, dal latino, ma anche, per quanto riguarda la storia recente e recentissima, l’interpretazione dei termini utilizzati nel linguaggio poliziesco, che forniscono ahimè la prova di una preoccupante continuità lessicale e di procedure.
Nell’antologia è presente un capitolo, “Miscellanea”, nel quale si polemizza (non che la polemica sia assente negli altri articoli, anzi) contro accademici ignoranti, contro Verità Ufficiali indifendibili e contro la moda leghista delle targhe in dialatt. Qui il lettore interessato potrà trovare la edificante storia dei dadi etruschi, quella dei 34 scheletri del Poggio, quella del re Franceschiello, quella del memoriale Gelli-Cavedon-Morucci, su cui si basa ancora lo squallido depistaggio sulla strage di via Fani, e avrà la possibilità di leggere per la prima volta in vita sua nomi, cognomi, numeri di telefono e indirizzi di terroristi rossi e terroristi neri gestiti da Vincenzo Parisi, il capo dei Servizi, regista per conto della Nato di squadre di assassini che hanno ammazzato centinaia di agenti, di carabinieri e di poliziotti.
Fra gli articoli di questo capitolo ce n’è uno, recentemente apparso anche sulla pubblicazione on-line iskrae.eu, intitolato “Il rintraccio della verità. Linguistica e polizia”, che dà un’idea di come lo strumento dell’indagine linguistica possa servire anche nell’indagine poliziesca.
Buona lettura.