La sparizione dell’Agenda rossa: “Non dobbiamo stupirci”
di Giorgio Bongiovanni e Marta Capaccioni
“La sparizione dell’Agenda rossa purtroppo nella sua importanza non deve stupire, nel senso che purtroppo i grandi delitti, quelli che nella storia della nostra Repubblica legati alla convergenza di interessi, e questi del ’92 lo sono sicuramente, tra la mafia e altri poteri sono sempre caratterizzati dalla necessità di fare sparire qualsiasi traccia che possa nell’immediatezza delle indagini indirizzare in un certo modo l’operato di magistrati in ipotesi coraggiosi, avveduti e senza paura”. Con queste parole il consigliere togato Nino Di Matteo ha parlato ieri sera alla conferenza di presentazione del libro “Il patto sporco”, scritto a quattro mani dallo stesso magistrato e dal giornalista-scrittore Saverio Lodato, nell’Auditorium Gaber di Milano. “Questo è avvenuto sempre – continua Di Matteo – era avvenuto poco tempo prima nella strage di Capaci con la manomissione dei file informatici di Falcone, 10 anni prima con la sparizione dei documenti dalla cassaforte della residenza palermitana del prefetto dalla Chiesa la sera del 3 settembre del 1982. È avvenuto anche con la sottrazione dell’Agenda rossa, perché è provato che Paolo Borsellino l’avesse con sé quel giorno. Allora bisogna capire che cosa quelle parti infedeli dello Stato potevano temere dalle annotazioni di Paolo Borsellino”.
Una serata di stimolo e di incoraggiamento. Una serata necessaria per tutti coloro che ogni giorno combattono, rischiando e sacrificando la propria vita, per la ricerca della verità. Durante la conferenza sono intervenuti anche altri relatori che hanno portato un contributo importante all’incontro: Luigi Piccirillo, consigliere regionale e componente della commissione antimafia, che ha aperto i lavori della serata, Salvatore Borsellino, fondatore delle Agende Rosse e fratello del giudice Paolo, è intervenuto in collegamento, Angelo Garavaglia Fragetta, anche lui Agende Rosse, che con impegno e dedizione ha ricostruito in un video lo scenario della strage di Via D’Amelio, concentrando la propria attenzione in particolare sulla sparizione dell’Agenda rossa. Infine nelle ultime battute della conferenza ha parlato con grande decisione anche Monica Forte, presidente della commissione antimafia della regione Lombardia. Dal periodo stragista degli anni 1992 e 1993 agli anni del governo Berlusconi, dai depistaggi istituzionali ai rapporti tra mafia e politica, dalle delegittimazioni di magistrati e giornalisti all’assordante silenzio della politica e della stampa su fatti scomodi ormai accertati: questi sono stati i temi affrontati dal magistrato Nino Di Matteo insieme al giornalista e moderatore della serata Marco Lillo.
Sentenza Trattativa Stato-Mafia: “Un silenzio assordante”
“Tutti speravano ed erano convinti in una sentenza assolutoria che finalmente potesse spazzare via anni e anni di inchieste”, afferma il consigliere togato riferendosi alla sentenza Trattativa del 20 aprile 2018 “perché la verità era troppo scomoda per essere ricordata, cioè la verità che mentre saltavano in aria i nostri giudici con i loro agenti della scorta, mentre nel 1993 ci furono altre 5 stragi, una parte dello Stato cercava Totò Riina e poi i suoi successori per capire cosa volessero per fermare questa escalation di violenza. Ci sono fatti che emergono e che non potranno mai essere smentiti: fu lo Stato a cercare la mafia e non il contrario”. Quell’inchiesta aperta a Palermo da magistrati coraggiosi, che la stampa nel tentativo di isolarli chiamava “protagonisti e politicizzati”, portò non solo ad affermare finalmente a livello giudiziale che parti deviate dello Stato scesero a patti con la mafia, ma portò anche all’accertamento di rapporti con alti vertici della politica: come il rapporto, veicolato dal senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, con il gruppo imprenditoriale dell’ex premier Silvio Berlusconi, il quale è approvato che a partire dal 1974 fino ad almeno agli anni delle stragi, abbia versato centinaia di milioni nelle casse di coloro che mettevano le bombe. Ma “in quella sentenza c’è scritto qualcosa che l’opinione pubblica italiana non deve conoscere, la politica ha dimenticato, tutti lo hanno dimenticato oppure hanno fatto finta di dimenticare”.
Tre giorni fa la sentenza Mannino: “Sarà contrapposta alla sentenza Trattativa”
“Purtroppo in questi giorni ho dovuto leggere le pagine di quella sentenza che mi ha sconvolto, perché ho dovuto leggere cose aberranti”, commenta Salvatore Borsellino in riferimento alla motivazione della sentenza d’appello depositata qualche giorno fa, che ha assolto l’ex politico della DC, Calogero Mannino, accusato di attentato a corpo politico dello Stato.
Il magistrato Di Matteo, leggendo i resoconti giornalistici e i primi articoli di giornale, ha chiarito come “si vuole rappresentare la contrapposizione tra due sentenze che non possono essere messe a confronto senza specificare la differenza ontologica”: la sentenza Mannino, emessa in giudizio abbreviato, riguardante una sola posizione e in relazione ad una fattispecie relativa alla fase iniziale della trattativa e la sentenza Trattativa, firmata dai giudici Montalto e Brambille, frutto di cinque anni di dibattimento, con centinaia di testimoni sentiti, centinaia di intercettazioni ascoltate, centinaia di documenti studiati e con addirittura presidenti della repubblica, tra cui Giorgio Napolitano, sentiti dalla Corte d’Assise.
Una politica assente nella ricerca della verità
Il consigliere togato ha continuato facendo riferimento alla complicità e forse alla colpevolezza di una parte dello Stato e della politica di quegli anni. Perché “in relazione alla trattativa molti uomini dello Stato erano stati informati e avevano taciuto, che quella minaccia da parte di Cosa Nostra era stata diretta a tre diversi governi e nessuno aveva denunciato quello che stava accadendo e che avevano chiaramente percepito”. Una complicità in cui si persevera ancora oggi, con l’arma del silenzio e della divisione. “Per andare avanti c’è bisogno di tutto e di tutti. Ci sarebbe bisogno di una politica che, non soltanto con la commissione parlamentare antimafia, ma anche con le direttive che i ministri dovrebbero dare alle forze di polizia, spinga per il completamento di quel percorso di verità. E invece quando la magistratura va avanti loro frenano piuttosto che spingere”, ha spiegato Di Matteo. A quest’ultimo proposito il magistrato ha fatto più volte riferimento a quei rapporti “di corrente” con la politica che rischiano di minare l’indipendenza della magistratura. È un problema, perché “la lotta per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non è una lotta per la tutela di una prerogativa per noi magistrati, ma è una lotta di libertà e di democrazia dei nostri cittadini”.
Di Matteo ha anche ricordato la sua estromissione dal Pool Antimafia lo scorso maggio, la cui decisione sembra fosse arrivata dal procuratore Cafiero de Raho, precisando che la sua “colpa” era stata quella di “aver messo in fila in un’intervista che riguardava la strage di Capaci tutti elementi noti, pubblici e perfino consacrati con sentenza passata in giudicato, ma fa già paura il mettere in fila queste cose. Fa già paura il fatto che qualcuno possa collegare i tasselli”. E in quel caso è caduto ancora una volta il silenzio, soprattutto da parte del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, che avrebbe il compito e il dovere di valorizzare i magistrati e tutelare quest’ultimi, in particolare quelli indipendenti e coraggiosi, che non appartengono a nessuno e sono ispirati solo dall’intento di cercare verità e fare giustizia.
“La verità è ancora possibile”
Di Matteo ha concluso la serata pronunciando parole di speranza, di fiducia, di risolutezza e di unione verso un desiderato, quanto temuto obiettivo: “La verità è ancora possibile, a cercarla sono rimasti in pochissimi che ancora sono convinti di combattere una guerra che gli altri pensano sia definitivamente conclusa. Io mi auguro e vi auguro che voi tutti, opinione pubblica più informata, Agende rosse, che voi giornalisti come Marco Lillo, Saverio Lodato, che ci hanno stimolato negli anni, come Giorgio Bongiovanni e tutti quelli di Antimafia Duemila che hanno tenuto alta l’attenzione e che ricordo quando nei primi processi per le stragi venivano a Caltanissetta, dove le udienze duravano dalla mattina alla sera, con il pullman dalle Marche e dopo la conclusione con un altro pullman per tornare. Io vi auguro di non scoraggiarvi, noi sappiamo che il cammino verso la verità è necessariamente lento e pieno di insidie, di tranelli, di ostacoli ma può essere un cammino inesorabile, non ci dobbiamo scoraggiare”.
17 Gennaio 2020