di Gianni Barbacetto
Quando il Comune di Milano, nel 2012, sindaco Giuliano Pisapia, annunciò che avrebbe tolto la sede al Circolo Perini, scrivemmo su queste pagine: “Salvate il soldato Iosa”. Ci riprovò, lo scorso anno, il sindaco Giuseppe Sala, e scrivemmo di nuovo: “Se davvero volete bene alle periferie, salvate il soldato Iosa”. Antonio Iosa era il fondatore, l’anima, il condottiero del Circolo Perini. Fu salvato, entrambe le volte. Fu garantita la sopravvivenza del circolo da lui fondato nel 1962 a Quarto Oggiaro, quando ancora il quartiere era chiamato “Corea”, o “Barbon city”, e che per quasi 60 anni ha fatto attività culturale in periferia contando solo sulla sua passione civile e sull’impegno volontario dei soci.
Da allora, Antonio si annunciava al telefono, e a volte anche si firmava, così: “Il soldato Iosa”. Ci teneva, a quel riconoscimento di tenacia e di valore. Ne era fiero. Ora se n’è andato, all’età di 86 anni, dopo una vita intensa che si è in gran parte identificata con quella del suo circolo.
È un pezzo della storia di Milano, il Perini. Iosa lo fonda in un quartiere di periferia appena sorto, Quarto Oggiaro: case popolari costruite in fretta – il riformismo ambrosiano esisteva, prima di essere agglutinato nella retorica della Milano da bere – per accogliere gli immigrati del boom, che venivano a cercar lavoro dal Sud (i “terroni”) o dal Nordest (i “terroni del Nord”). Nato nei fermenti degli anni Sessanta, il Perini diventa centrale nella vita del quartiere un decennio dopo, dentro i conflitti durissimi dei Settanta. In anni in cui i fascisti giravano per Quarto Oggiaro con le loro squadracce e le Br avevano gruppi attivi di militanti e fiancheggiatori.
Entrambi incrociano il Perini: i fascisti assaltano la sua sede il 21 giugno 1971; le Br gambizzano il suo fondatore il 1 aprile 1980. Per i primi, Iosa era un pericoloso “comunista”; per i secondi un “amico dei fascisti e dei padroni”. In verità era democristiano, Iosa. Un democristiano del dialogo. Non si occupava di raccogliere voti, dispensare favori, organizzare clientele, ma si impegnava a far incontrare e discutere personaggi anche distanti tra loro, purché avessero qualcosa da dire a tutti. Diventa così un punto di coagulo, una specie di don Camillo che litiga ma dialoga con Peppone, un uomo che ascolta “i segni dei tempi”, che mette i valori prima delle appartenenze.
Democristiano, cattolico del Concilio Vaticano II, all’inizio degli anni Novanta non ce la fa più a stare dentro il partito di Francesco Cossiga e di Giulio Andreotti, che garantisce gli equilibri mafiosi in Sicilia. Segue Leoluca Orlando e Nando dalla Chiesa nella Rete, il partito che tenta di riformare la politica italiana. Ma il suo impegno principale resta quello di tener vivo il dibattito e l’attività culturale nelle periferie, tra mille difficoltà, attraverso il Circolo Perini.
L’attentato delle Br gli segna la vita. “Di quella sera”, raccontava, “m’è rimasto il ricordo della pistola puntata alla mia tempia e il terrorista che dice: ‘Se reagite sarà una carneficina’. Io che lo supplico di risparmiarmi (‘Ho moglie e figli’), lui che mi spinge contro la parete: ‘Inginocchiati, stronzo!’. Poi lo sparo, l’improvvisa vampa alla gamba”.
Gli risparmiarono la vita, ma gliela avvelenarono: 34 interventi chirurgici, negli anni, per evitare l’amputazione, dolori continui, il ricordo di quella sera che tornava spesso, negli incubi notturni.
Diventato presidente dell’Aiviter, l’associazione italiana vittime del terrorismo, è stato sempre rigoroso contro gli ex militanti del partito armato che girano a dar lezioni di storia e di vita senza una parola per le vittime. Ma, uomo del dialogo, lo tenne aperto anche con i suoi carnefici: partecipò a un incontro tra ex terroristi e le loro vittime, voluto dal cardinale di Milano Carlo Maria Martini. Ora, in ricordo del “soldato Iosa”, c’è da tenere in vita il Perini e da impegnarsi – davvero – per le periferie.
30 agosto 2019