Quando ancora, in Italia, agosto era il mese delle spiagge piene e delle città vuote, era anche il mese preferito dall’eversione. La strage dell’Italicus è del 4 agosto 1974. Quella della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Doveva scattare nell’agosto 1974 anche il “golpe bianco” di Edgardo Sogno. Ancora non sappiamo i nomi dei registi e di molti degli esecutori dei piani eversivi. Conosciamo però la trama, il contesto: la guerra segreta dell’Occidente contro il comunismo, di cui i servizi segreti (italiani e internazionali) erano la prima linea, che usava strutture e pianificazioni clandestine come Gladio e i Nuclei per la Difesa dello Stato (Nds), che aveva messo in conto anche morti civili, visto che per le “operazioni sporche” utilizzava anche gruppi terroristici. Carlo Mastelloni, in quegli anni giudice istruttore a Venezia, incrociò nelle sue indagini formazioni terroristiche e apparati di Stato. Ecco alcune delle verità scoperte e delle tante rimaste invece ancora segrete. (Gianni Barbacetto)
Carlo Mastelloni a colloquio con Stefania Limiti
È notte fonda e l’Italia è in vacanza quando esplode la bomba sul treno Italicus, 4 agosto 1974. Sul Roma-Monaco, all’interno della galleria di S.Benedetto Val di Sambro, un tremendo boato polverizza il quinto vagone. Dodici morti e quarantotto feriti. È la strage piú preannunciata d’Italia. Fin dal 18 luglio il capo della polizia, Efisio Zanda Loy, aveva diramato a tutti i dirigenti dei commissariati di polizia ferroviaria un telegramma nel quale diceva: “Persistente allarme in ambito ferroviario, continue segnalazioni presunti attentati […] impone adozione ogni possibile misura”. L’allarme viene poi, improvvisamente e immotivatamente, sospeso dallo stesso ministero dell’Interno.
A ridosso della strage accadde anche un fatto assai strano: la mattina del 31 luglio, la signorina Claudia Ajello, impiegata a Roma presso un ufficio periferico del Sid (il servizio segreto militare) alle dipendenze del colonnello Federico Marzollo, scende in strada e, da un telefono pubblico, dice a interlocutori ignoti: “Le bombe sono pronte… il treno arriva a Bologna… c’è una macchina che ti porterà a Mestre… state tranquilli, i passaporti sono pronti… passerete il confine… state tranquilli!”. La telefonata è udita distintamente dalle tre persone presenti in quel momento nel locale, le due impiegate del banco lotto e un cliente, i quali, dopo l’uscita dell’Ajello, commenteranno sgomenti l’accaduto. Quella telefonata è la più sconcertante della storia dello stragismo: perché Claudia Ajello era una vera e propria spia del Sid, infiltrata nel Pci e tra gli esuli greci e perché, interrogata dopo la denuncia delle due donne che l’aveva ascoltata – il terzo uomo, cliente abituale del bar, scomparirà nel nulla – la ragazza confermava di aver usato spesso il telefono pubblico del banco, ma sosteneva di non aver mai parlato di bombe. Probabilmente le impiegate – disse – l’avevano sentita parlare di “bionde”… o, forse, aveva chiamato la madre con l’affettuoso appellativo di “sexy bomba”.
Le indagini non riuscirono a provare la connessione tra la telefonata e la strage nella quale, tra l’altro, è accertato e incontrovertibile il coinvolgimento della P2. Sul treno avrebbe dovuto viaggiare il ministro degli Esteri, Aldo Moro. Anzi era già salito, doveva raggiungere la sua famiglia in Trentino – così assicura la figlia Maria Fida – ma un attimo prima della partenza arrivano due funzionari del ministero e gli chiedono di scendere. Ci sono carte da firmare alla Farnesina, non si può rinviare. Moro preferì non denunciare la fatale coincidenza.
Di questa strage, dal punto di vista giudiziario, non sappiamo niente: né la mano terrorista che mise la bomba, né la mente criminale che ideò l’azione. Niente. Buio assoluto. Tutti i fili che potevano portare alle responsabilità furono spezzati, a cominciare dal teste chiave, Aurelio Fianchini, principale accusatore dei neofascisti Mario Tuti e Piero Malentacchi: sparì letteralmente dalla circolazione prima di presentarsi al processo.
Fu impossibile allora individuare i fili che portavano a uno degli uomini della Cia in Italia, cioè Marcello Soffiati. Questi era perfettamente informato di quanto stava per accadere: a casa sua, nel 1981, durante una perquisizione, fu trovata una lettera di Amos Spiazzi, ufficiale e capo dei Nuclei per la difesa dello Stato (Nds, organismi clandestini del tipo stay-behind per la guerra non-ortodossa), che nel 1974 gli rivelava che il suo referente nei servizi, Marzollo – il capo di Claudia Ajello – gli aveva chiesto di attivare un gruppo pronto all’azione. Dice poi che Marzollo è l’anello superiore della catena di comando: quale ruolo è stato affidato all’organismo clandestino? Quello di muovere la guerra segreta in Italia, in nome dell’anticomunismo.
È una storia che in parte deve essere ancora scritta. L’organismo più noto della guerra segreta era Gladio, reso noto nel 1991. Ma in una versione ufficiale edulcorata e buonista. La realtà è ben più complicata di quello che ci è stato fatto credere. Confidava tempo fa lo storico Giuseppe De Lutiis, al quale dobbiamo la più lucida ed efficace ricostruzione della strategia della tensione, che una sua fidatissima fonte dell’ambiente dell’intelligence gli raccontò che, in effetti, definire i termini dello sdoganamento ufficiale della Gladio non fu semplice e che “la compilazione della lista dei 622 gladiatori ufficiali non fu affatto facile. Attorno a un tavolo discussero per qualche giorno e qualche notte alcuni alti funzionari per decidere chi mettere ‘in chiaro’ e chi tutelare. La mia fonte”, continuava De Lutiis, “sapeva tutto ma non volle mai dirmi altro in merito alla reale consistenza del fenomeno Gladio. Certamente i nomi che si decise di tutelare furono tanti, forse persone insospettabili che mai potremo conoscere a meno di una loro stessa improbabile autodenuncia”.
Il magistrato Carlo Mastelloni, allora giudice istruttore a Venezia e oggi procuratore a Trieste, intuì anzitempo l’esistenza di questo organismo militare occulto, ma si ritrovò il vuoto intorno. Quando parli con Mastelloni, in effetti, pensi al Mossad e a Gladio. Perché lui a metà degli anni ’70 ebbe il coraggio di incriminare il capo del più potente e aggressivo tra i servizi segreti. Zvi Zamir, così si chiamava il numero 1 delle spie israeliane, fu poi assolto dall’accusata di aver sabotato l’aereo militare dei servizi segreti italiani, l’Argo 16 (cadde a Porto Marghera il 23 novembre 1973, morirono due ufficiali e due sottoufficiali). Ma solo perché i nostri servizi avevano deciso subito che quella responsabilità non dovesse essere accertata. Comunque il giudice Mastelloni riuscì a portare Zvi Zamir alla sbarra.
Si spese molto, e tra mille ostacoli, per scoprire i responsabili dell’abbattimento dell’Argo 16, un aereo Dakota dei servizi segreti italiani. Quale fu il principale impedimento che trovò sulla sua strada? “Il rischio che l’inchiesta portasse al disvelamento, in piena Guerra Fredda, di Gladio, la struttura Stay-Behind in Italia. La prova del nove sta nel fatto che la prima istruttoria fu chiusa in fretta nel febbraio 1974 con un’archiviazione di poche righe del consigliere istruttore dopo una consulenza tecnica affidata a soli militari dell’Aereonautica: la caduta dell’aereo era avvenuta per ‘causa imprecisata’. Sugli ‘incivoli’ (incidenti aerei) in territorio italiano potevano indagare solo militari: lo imponeva, pensi un po’, una circolare del ministero della Giustizia concertata nel 1969 con lo Stato Maggiore della Difesa a tutela del segreto militare e Nato. È una circostanza emersa alla fine della istruttoria sul presunto sabotaggio di Argo 16. Tenga conto che l’equipaggio dell’aereo, pur appartenendo all’Aeronautica, lavorava a tempo pieno per la struttura Gladio, sezione quinta, ‘guerriglia’, percependo la cosiddetta ‘indennità di cravatta’ dal Sid. Il segreto di Stato mi fu opposto nel 1988 sia sull’identità dei civili, i ‘gladiatori’ che si addestravano in una base militare ad Alghero, sia sull’armamento, con relativi numeri di matricola, occultato nei cosiddetti Nasco”. I Nasco erano depositi segreti di armi disseminati soprattutto nell’Italia del nord-est, a disposizione dei gruppi di Gladio.
Continua Mastelloni: “Si trattava di armamento leggero e di esplosivo. Gli accertamenti sulla attività svolta dal velivolo Argo 16 prima del novembre 1973, quando precipitò, ha consentito il disvelamento non solo della struttura Gladio, ma pure della attuazione concreta del Lodo Moro, visto che Argo 16 serviva ad attuare gli espatri clandestini dei guerriglieri palestinesi arrestati in Italia”. Il Lodo Moro era l’accordo segreto secondo cui i guerriglieri palestinesi dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e dei gruppi collegati avevano libero accesso in Italia, in cambio dell’impegno a non realizzare attentati sul nostro territorio nazionale.
Proprio questo provocò la reazione del Mossad, che sabotò Argo 16 per dare un segnale al governo italiano, considerato troppo accondiscendente con i palestinesi. “Fu una reazione criminale di un servizio di sicurezza di un Paese amico come Israele”, spiega Mastelloni. Al processo, il capo del Mossad fu assolto. “Sì, andò così”, commenta Mastelloni, “ma voglio ricordare una eloquente deposizione di Caliendo, un alto funzionario già del Sid che, a proposito del sabotaggio israeliano di Argo 16, mi rispose: ‘Al Sid lo sapevano pure i sassi!’”.
Mastelloni è convinto che Gladio avesse una doppia attività. “Quella operativa, garantita negli accordi degli anni Cinquanta, è stata esigua. Più intensa invece l’attività informativa, di carattere anticomunista, che ebbe un forte impulso dopo il sequestro Moro, nel 1978. Esistono chiare deposizioni in tal senso. A proposito”, conclude i magistrato, “dove sono finite tutte le informative prodotte da Gladio?”.
di Stefania Limiti, Il Fatto quotidiano, 28 agosto 2016