di Gian Carlo Caselli – 7 maggio 2013
Sul piano umano, la morte merita sempre rispetto. Dell’attività politica del sen. Andreotti non posso parlare perché non ne ho titolo. Posso invece parlare del processo di Palermo, avviato dalla Procura di quella città quando ne ero a capo, che l’ha visto imputato (in estrema sintesi) di rapporti con la mafia. In primo grado c’è stata assoluzione. In appello la sentenza del tribunale è stata parzialmente ribaltata. Mentre per i fatti successivi Andreotti è stato ancora assolto, per quelli fino all’80 è stato dichiarato colpevole, per aver COMMESSO il reato contestatogli. È evidente che chi parla di assoluzione anche per i fatti prima del 1980 è completamente fuori della realtà. Il reato COMMESSO è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente COMMESSO. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello anche nella parte in cui si afferma la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980.
PROCESSUALMENTE è questa la verità definitiva ed irrevocabile. La Corte d’appello (confermata, ripeto, in Cassazione) si è basata su prove sicure e riscontrate. In particolare ha ritenuto provati – con altre decisive parti dell’impianto accusatorio – due incontri del senatore, in Sicilia, con Bontade, all’epoca capo dei capi, e altri mafiosi dello stesso calibro. Negli incontri (lo dice la sentenza) si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Piersanti Mattarella, capo della Dc siciliana, politico onesto che pagò con la vita l’essersi opposto a Cosa nostra.
Principale fonte di prova fu il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia (teste oculare di un incontro), un “pentito” rivelatosi sempre analiticamente preciso (già con Giovanni Falcone) e mai smentito. La Corte d’appello sottolinea poi che l’imputato non denunciò le responsabilità dei mafiosi incontrati, “in particolare in relazione all’omicidio di Piersanti Mattarella , malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza”. In conclusione, la Corte d’appello ha ravvisato a carico di Andreotti “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. Fissiamo altri punti: fecero ricorso in Cassazione sia l’accusa che la difesa. Ecco la prova provata, secondo una logica elementare, che non vi fu “assoluzione” per i fatti fino al 1980. Mai visto, in oltre 50 anni di magistratura, un imputato che ricorre contro la sua assoluzione. Non esiste.
La prescrizione è rinunciabile, ma l’imputato non lo fece, convinto che sarebbe stato assolto anche per i fatti fino al 1980, ma la Cassazione gli diede torto. La formula “reato COMMESSO” è nel dispositivo della sentenza d’appello. Sono 10 semplici righe. Sarebbe bastato leggerle per cancellare ogni dubbio.
INVECE la verità è stata stravolta o nascosta: il popolo italiano – in nome del quale le sentenze vengono emesse – è stato truffato. Buscetta (che di Andreotti non volle parlare a Falcone: “Sennò ci prendono per pazzi”) in realtà ne aveva già parlato nel 1985 al pm Usa Richard Martin, che confermò la circostanza (sotto giuramento) in pubblica udienza del processo Andreotti. Con il che diventa ridicola qualunque accusa di “teorema”. Con una sorta di distrazione di massa per cancellare la verità, le cronache (invece che sugli incontri con Bontade) si incentrarono pressoché esclusivamente sul “bacio”, che la Corte ritenne non riscontrato ma senza denunciare per calunnia chi ne aveva parlato. Ricorrendone tutti i presupposti, la Procura esercitò l’azione penale, che è obbligatoria. Non farlo sarebbe stato illegale, disonesto e vile. Nessuno quindi ha mai pensato di riscrivere la storia d’Italia. Chi ha nascosto la verità e non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase si è (almeno parzialmente) formato il consenso, ha reso un pessimo servizio alla trasparenza democratica del nostro Paese.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano