Giorgio Bongiovanni
Condannate all’ergastolo i criminali della dittatura fascista
Nazisti! Nazisti! Solo così possono essere definiti i folli torturatori della dittatura argentina. Nemmeno le bestie sanguinarie uccidono e torturano i propri fratelli in questo modo. Purtroppo non si tratta, come spesso si tende a sminuire, di fatti del passato.
Dittature simili non sono meno feroci di quelle avute in Europa, in cui si adottarono i metodi della Gestapo di Adolf Hitler e trovarono la morte migliaia di persone con i campi di concentramento ed i forni crematori.
Ciò che è avvenuto ha riguardato Paesi occidentali, “guidati ed eterodiretti” da una democrazia criminale a stelle e strisce: quella degli Stati Uniti d’America.
Un modus operandi che abbiamo visto anche in Italia ai tempi delle stragi, rosse e nere, rimaste impunite così come le stragi di mafia. Ed oggi nei luoghi di potere serpeggia il medesimo ideale con personaggi pronti a schiacciare la vita altrui con la tortura e la dittatura politica. In questo articolo, scritto dai nostri colleghi argentini, (I pozzi dell’Inferno) un esempio di grande denuncia per non dimenticare e far sì che certi crimini non siano più commessi.
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I pozzi dell’inferno
È iniziato il processo per crimini di lesa umanità che unifica le cause dei pozzi di Banfield, Quilmes e l’inferno di Lanús
di Agustín Saiz
L’inferno esiste ed è sulla Terra. Allontaniamo per un momento ogni preconcetto che possa condizionare il percorso che stiamo per intraprendere. Quello che segue è il racconto del segretario del Tribunale Federale Nº 1 di La Plata presentato il 27/10/2020 nella Megacausa conosciuta come “I pozzi” (Banfield e Quilmes) e “L’inferno” (Lanús). Questi tre centri clandestini di tortura e sterminio (CCDTyE) erano il fulcro del dispositivo repressivo nella provincia di Buenos Aires, conosciuto come il “Circuito Camps”. L’immaginazione umana, per quanto perversa possa essere, non potrà mai arrivare agli effetti collettivi dell’ultima dittatura civico – militare – ecclesiastica nell’Argentina del ‘76/’83). In quel periodo differenti settori della società si mossero per attuare nel loro insieme questa macchina di sparizione e annientamento dell’individuo. Le giustificazioni avanzano, sono in tutto 442 i casi di vittime che accusano 18 imputati per crimini di lesa umanità. La maggior parte di loro sono già stati condannati in precedenti processi e molti, dai domiciliari, hanno potuto ascoltare, in modo virtuale, l’inizio di questa causa che li vede coinvolti.
Oltre al ristabilimento della giustizia per le vittime ed i loro familiari, con la sentenza di questo processo si cerca di lasciare inciso un precedente storico di quello che fu l’azionare della Polizia Bonaerense durante la dittatura al comando dei genocida Ramón Camps e Miguel Osvaldo Etchecolatz. La prima denuncia di familiari e sopravvissuti fu presentata nel 1984, più tardi, con la riapertura dei processi, si riuscì nell’anno 2012 a portare la causa in tribunale. E solo oggi, dopo un così lungo percorso, il processo sta iniziando. Questa prolungata attesa purtroppo ha fatto sì che parte delle vittime e degli accusati, oggi, non siano tutti presenti.
Ad ognuna delle vittime ed in particolare alla memoria di Adriana Calvo Laborde e Nilda Eloy, dedichiamo la cronaca di questo primo giorno di processo storico.
Il pozzo di Banfield
Entriamo in questo edificio, ci si può arrivare incappucciati nel cofano di un’auto dal parcheggio. È uno dei tanti centri clandestini di repressione esistenti in provincia di Buenos Aires (29 in tutto). Si arriva fin qui solo per il fatto di avere una posizione politica o un pensiero ideologico differente a quello della massa, per il sospetto infondato di qualcuno o perfino per sbaglio. Quello che importa è non aver visto il volto dei sequestratori. Sei morto se per caso lo fai, meglio il cappuccio, la benda, le mani legate e che ti portino senza fare domande. Puoi essere un operaio che “causa problemi”, uno studente con intelligenza critica, un militante di qualche giusta causa o semplicemente qualcuno che si è perso in mezzo alla moltitudine… qualunque scusa loro ti addossino è a loro utile. L’importante al di là di tutto il discorso ideologico giustificativo del genocidio, è che tu ti senta vivo e libero, perché giustamente è quello che cercheranno di spegnere, con l’uso della violenza indiscriminata. A questo fine è stata montata questa macchina assurda di sterminio dell’individuo ed uno dei suoi punti nevralgici è il pozzo di Banfield.
A pianterreno c’è l’ufficio del capo, la polizia di Buenos Aires lo coordina sotto la supervisione dell’esercito. Lungo il corridoio si vedono sopra due finestre piccole, in una si scorge parte di un monoblock e nell’altra appena un’antenna di radio. Se sei fortunato, è l’unica cosa possibile che vedrai sotto la benda dei tuoi occhi prima di arrivare alla sala di tortura: “mi fecero denudarmi, mi misero su una barella o letto dove mi applicarono la ‘picana elettrica’ (pungolo elettrico, ndr.) e si ripeteva ogni notte”, “mi torturarono lì per la seconda volta ed io pensai che non avrei resistito, mi misero una borsa di sabbia nella bocca e credo che con i denti la strappai e la sabbia mi andava in bocca e non potevo respirare, pensavo di morire”. Al primo e secondo piano c’erano le celle, anche le stanze del personale poliziesco, uffici, cucina e bagni. La maggior parte del tempo i detenuti sono ammanettati, con gli occhi bendati o incappucciati.
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Come prevedeva la metodologia impartita sono obbligati ad ascoltare le grida del resto dei detenuti quando sono torturati. Vivevano in condizione di igiene deplorevole e non venivano informati di dove si trovavano, e di niente dell’esterno. Pablo Díaz è uno studente sopravvissuto alla ‘notte delle matite’: “la caratteristica del pozzo di Banfiled è che non ci aprivano le celle, la prima settimana non mangiavamo niente, noi ci scherzavamo sopra perché avevamo visto il film Papillon e facevamo scherzi che se vedevamo un insetto lo avremo mangiato, quelli che eravamo riusciti a recuperare vestiti indossavamo biancheria intima, io ero in boxer che, dopo tre mesi, finirono in stracci. Dormivamo a terra e facevamo i nostri bisogni a terra, per una settimana non ci aprirono le celle per cui l’odore era molto forte, dopo una settimana ci aprirono, uno dei problemi delle ragazze erano le mestruazioni e le guardie si divertivano dicendo a chi era in cella con loro di toglierci la nostra biancheria intima per darla a loro come stracci per le proprie necessità. Una volta ci offrirono cibo e ci chiesero se volevamo di più, alcuni abbiamo detto di sì, dopo ci chiesero di chi era un piatto colore verde, due di noi abbiamo detto per sbaglio che era nostro, ma avevamo gli occhi bendati e guardavamo da sotto ma non vedevamo bene… quell’errore ci costò una forte repressione, ci picchiarono forte quella volta”.
La maternità clandestina
Al fine di disumanizzare i detenuti, il programma di sparizione veniva esteso addirittura alla discendenza dei detenuti. A Banfield era organizzata la maternità clandestina che aveva come proposito sottrarre, occultare e sostituire l’identità dei neonati. Lì non solo davano alla luce le donne rapite sul posto, ma venivano portate anche donne da altri centri. Si presume che in tutto, nel periodo della dittatura, furono 500 le madri incinte in cattività. Al meno 16 di loro ebbero figli nel pozzo di Banfield. Soffrivano le stesse condizioni che il resto dei detenuti, erano bendate in condizioni deplorevoli di alimentazione ed igiene, erano torturate fisicamente e psichicamente e non ricevevano alcun trattamento di riguardo per il loro stato. Chi condivideva la stessa cella con loro eventualmente doveva gridare e fare rumore per riuscire a far venire le guardie. Al momento del parto erano portate al primo piano dove davano alla luce in condizioni aberranti, nude, iniettate, mentre erano insultate ed obbligate a pulire il proprio sangue subito dopo il parto. Dopo tanto orrore, i bambini venivano strappati alle madri per essere affidati a famiglie vicine alla dittatura ed essere registrati sotto altro nome.
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La testimonianza di Adriana Calvo è emblematica perché diede permise l’apertura del primo processo contro la giunta genocida nel 1985. Dottoressa in fisica e docente, Adriana Calvo fu sequestrata nella sua casa di Tolosa e portata all’‘Unità di Investigazioni’ e al Centro di Detenzioni di Arana, e poi rinchiusa nel commissariato Quinta de La Plata “…il 15 aprile iniziò il travaglio e ero sdraiata sul pavimento della cella, erano passati praticamente tre mesi senza mangiare per cui non mi aspettavo che il bebe fosse grasso, in realtà non mi aspettavo niente. Questo è il modo (anche se in realtà non avevo scelto niente) in cui cercavo di proteggermi. Non mi aspettavo niente oramai, facevo come se non fossi incinta, il mio bebe non si muoveva da tanto e io fingevo di non sapere niente. Non facevo caso a niente. Finché arrivò il momento della nascita e dovette affrontarlo. Rimasi nel Commissariato 5 diverse ore, le mie compagne chiamarono gli ufficiali. Un poliziotto gridò di portarmi e vennero a cercarmi, mi misero una benda, mi legarono molto forte le mani e mi misero in un’auto della polizia, una di pattuglia. Lo so perché poi la benda si allentò e si vedeva la luce, uscimmo dal commissariato a tutta velocità. La mia unica speranza era, essendo che stavo per partorire, che mi portassero in un ospedale. Ad ogni modo non ci fu il tempo. Teresa nacque nell’auto. Teresa ovviamente era unita a me dal cordone ombelicale. Non avevo espulso la placenta, non avevo neppure intenzione di farlo lì. Io ero con le mani legate e non potevo prenderla. Teresa era sul sedile dell’auto. Andavano molto veloci, prendevano i dossi. Ad un certo punto cadde tra i sedili ed io chiedevo per favore che la prendessero. Che la mettessero sulla mia pancia. Non lo fecero. Poi seppi che la mia speranza che stessimo andando in un ospedale era infondata, perché in realtà quella gente si era persa durante il tragitto cercando il pozzo di Banfield e non lo trovavano. Quindi non ebbero idea migliore di quella di frenare in una fermata di autobus e chiedere ad un signore che aspettava lì. Il signore dovette avvicinarsi all’automobile per rispondergli e mi vide. Io ero sul sedile posteriore piena di sangue e c’era una creatura piangendo. Gli chiesero della via Larroque e lì capì che stavamo andando al pozzo di Banfield. In primo luogo perché sono di Temperley e conosco la via Larroque. E secondo perché già nel Commissariato 5 le compagne che venivano da altri centri di detenzione avevano parlato del pozzo di Banfield che era in via Larroque e lo avevano definito molto peggio del Commissariato 5. A quel punto non ebbi dubbi che stavamo andando al pozzo di Banfiled. Effettivamente l’auto arrivò a un parcheggio e mi lasciarono lì tirata a lungo dentro l’auto, faceva tanto freddo e una delle persone che riuscì a vedere da sotto la benda era Jorge Antonio Berges. Infilò metà corpo nell’auto e tagliò il cordone ombelicale. Io chiesi che mi dessero mio figlio. Mi slegarono le mani e me la diedero. Così salì con Teresa in braccio. Entrammo in una sala, qualcuno mi tolse la benda dagli occhi e sentì la voce di chi me la tolse “questo a voi non serve più”, era la voce di Berges. Così io vidi il suo volto perfettamente. Berges mi tolse la bimba, quella era una sala dove c’era un tavolo e attorno delle piastrelle bianche, in mezzo una barella, evidentemente era un posto predisposto per gente ferita. Una barella di ospedale. Berges mi tolse la placenta, c’era anche l’ufficiale di guardia che ho riconosciuto, a partire da quel momento vedevo i loro volti, con quello che ciò comportava. Io ero sicura che mi avrebbero uccisa. C’era l’ufficiale di guardia e tanti altri ufficiali fermi che guardavano come Berges mi tirava fuori la placenta e mi insultavano. Soprattutto Berges e l’ufficiale di guardia. Realmente dei selvaggi. Non so come definirlo perché mi insultavano mentre mi tiravano fuori la placenta e mentre mi facevano pulire il pavimento, con il secchio, pulire la barella… con Teresa che piangeva ancora sul ripiano ancora sporca. Loro infierivano di continuo insultandomi e io ormai me la sono giocata, fu la prima volta che pensando che non c’era più niente da fare, mi diedi il gusto di rispondere almeno ad ognuno di loro per gli insulti. Quella notte mi fecero dormire al primo piano, dove mi fecero salire lungo una scala rossa di ceramica, ormai non avevo alcun dubbio che mi trovavo a Banfield. Ero al primo piano e mi portarono in un altro posto molto oscuro con appena alcune finestre. Ho dormito per la prima volta in tre mesi in un letto con lenzuola e coperta insieme a Teresa. Mi addormentai profondamente e non so quando Teresa ad un certo punto stava soffocando, perché l’avevo molto attaccata a me e quasi muore di soffocamento. Non riuscì più ad addormentarmi e rimasi così da sola con Teresa. Quando si fece giorno al mattino seguente, salì con Teresa al secondo piano del pozzo di Banfield”.
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“Dio mio aiutami”, è rimasto inciso sulla parete di una delle celle del pozzo di Quilmes. Tra il 1975 e 1979 passarono da qui circa 278 detenuti, 80 desaparecidos, 108 liberati, 16 con destino incerto, 74 non identificati. C’erano almeno 7 detenute incinte, delle quali si sa che due di esse persero il bambino a causa di torture e trattamenti brutali.
Nel 1976 ci fu una manovra amministrativa, decidendo il trasferimento in massa di funzionari della polizia a Lanús, per nascondere che continuavano a prestare servizio a Quilmes. In questo modo si sa che lavoravano oltre 100 funzionari della polizia come guardie, custodi, sorveglianti e controllo dell’esercito, che aveva la massima autorità. Secondo dei sopravvissuti “Convivevano fino a quattro o cinque persone per ogni cella – a volte allagate – di 2 m. quadrati, dormivano a terra senza niente per coprirsi, anche in inverno, quasi non ci davano da mangiare e dovevano fare i nostri bisogni in cella”.
L’igiene dei detenuti era assente, rare volte, nei periodi più permissivi, i detenuti erano portati in bagno una volta al giorno ed in alcune occasioni le donne erano obbligate a fare i propri bisogni sopportando gli insulti e le molestie dei carcerieri. Ma la maggior parte di loro non riuscì a fare neanche una doccia per mesi “Il contenitore di candeggina era il nostro vasino di notte, a volte, usavamo lo stesso per due, tre o quattro notti fino che potevamo portarlo il bagno e scaricare i nostri escrementi e l’urina” (Alberto Maly). I detenuti erano obbligati a mangiare con gli occhi bendati, le mani legate e senza utensili di nessun tipo. Luis Horacio Fernández, raccontò che durante la sua cattività “ogni quattro o cinque giorni mi davano acqua e da mangiare”.
Ma altri detenuti dichiararono che in realtà “la quantità di cibo dipendeva dalla quantità di detenuti”. Secondo la testimonianza di Gustavo Calotti“il cibo era una forma… un sistema di tortura, ci portavano ciotole di cibo che molte volte lasciavano alla vista, non ce lo davano ed a volte ce lo davano quando era ormai andato a male, per questo motivo avevamo spesso intossicazioni molto forti, al punto che una forma di autodifesa era nascondere il pane per nutrirci di pane e non mangiare i cibi che ci portavano” (*1)
L’applicazione di tormenti fisici era costante: in generale, i detenuti erano sottomessi a sessioni di tortura, poi si dava loro quattro o cinque giorni per “riprendersi”, e dopo venivano portati nuovamente alla tortura, e così via. La tortura non era solo applicata come metodo per ricavare informazione, ma anche come divertimento. Spesso costringevano prigionieri a presenziare alle sessioni di tortura alle quali erano sottomessi i loro parenti ed amici. “Ci portarono via da lì, ci separarono, a me mi portarono in un posto dove bisognava salire le scale, aprirono una cella (…) a Luis Alberto lo portarono in un altro posto, per tre ore sentì le grida della sua tortura” (28) Rebeca Krasner in riferimento al suo compagno Luis Alberto Santilli.
La sala di torture che alcuni sopravvissuti chiamavano la “sala operatoria”, si trovava a Pianterreno e si accedeva direttamente dal garage di entrata. Molti detenuti scendevano dagli automobili e venivano subito interrogati a volte per diverse ore “mi tolsero tutti i vestiti, un materasso bagnato, piedi e mani legati… mi perdoni signore, così legato nel letto, e loro comandavano, all’inizio sentivo tutto… dopo alla fine erano colpi e nient’altro, non sentivamo niente… Io calcolo che mi hanno tenuto lì sopra due ore, Signore. Mi sottoposero quattro volte alla ‘picana’, quattro volte, ma non 10 minuti, io calcolo più di due ore” (Luis Horacio Fernández), “iniziarono a farmi domande, loro ritenevano che io non dicevo niente, con un cuscino mi coprirono il volto e mi dissero che quando mi fosse deciso a parlare dovevo fare così con la mano e mi avrebbero tolto il cuscino e bene ed io quando non ce la feci più feci così ma io non avevo molto da dire, e allora continuarono a torturarmi”.
Rispetto ai reati sessuali, le violazioni da parte dei repressori erano la normalità, una delle sopravvissute Nora Úngaro raccontò che le prigioniere soffrivano costantemente questo tipo di vessazioni: “C’era una questione particolare riguardo le donne, ci dovevano palpare, ci dovevano violentare, quello con tutte le prigioniere”.
L’Inferno di Lanús.
“Questo è l’inferno e da qui non si esce”, dicevano i suoi torturatori a Nilda Eloy. A Lanús operava la ‘Brigada de investigaciones’ della polizia di Buenos Aires. Essendo equidistante da altri centri clandestini di detenzione, funzionava come luogo di permanenza temporanea. Per questo motivo molte delle vittime del pozzo di Quilmes passarono da lì e da qui la necessità di unificare le cause.
Questo inferno si trova in pieno centro di Lanús, vicino alla stazione di pompieri, della ferrovia e del campo sportivo di Racing che è uno dei club di calcio con più tifosi in Argentina. I detenuti entravano da un garage e percorrendo un lungo corridoio sulla destra arrivavano dritti alla sala di tortura. C’era dietro un cortile chiuso nel soffitto da sbarre e più avanti un padiglione con 7 celle. Dall’altro lato del cortile c’era un altro padiglione con 5 celle individuali ed una grande con 8 brande e latrine.
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Le torture erano praticate sistematicamente nell’ambito di un processo di disumanizzazione. L’obiettivo principale era spezzare la capacità di resistenza dei detenuti, negare loro l’esistenza come gruppo ed individui. Le persone venivano private della propria libertà perdevano il loro nome e venivano chiamati con un numero o codice. Durante la loro incarcerazione restavano legati in condizioni di igiene deplorevoli, li tenevano con gli occhi coperti da bende o cappucci nella testa. Esposti al sovraffollamento in luoghi insalubri, costretti a posizioni scomode, alla nudità, all’incomunicabilità assoluta con il mondo esterno e sottoposti a spietati maltrattamenti attraverso differenti metodi di tortura fisica e psicologica:
“… nel mio caso ero nudo e mi misero un filo di ferro in uno delle dita quando mi applicavano la ‘picana’, non ricordo se sono ritornato in cella nudo o in mutande perché ero svenuto, mio fratello ritornò in mutande” (Óscar Ernesto Solís), “… mi portarono in una stanza dove c’era una rete, mi denudarono, mi coricarono e mi legarono lì, incominciarono a picchiarmi e torturarmi con la ‘picana elettrica’, mi interrogarono su gente di Lujan, erano andati in una casa a cercare qualcuno e trovarono noi, non so dire con precisione per quanto tempo mi misero una borsa coprendomi il viso fino che non riuscivo a respirare, poi mi picchiarono ancora e mi riportarono in cella” (Gustavo Fernández), “… Chiche arrivò a metà novembre 1976 e morì nella cella numero 3 vicino ad un altro ragazzo che disperato chiamava le guardie che non lo ascoltarono, ma lasciarono il cadavere nella cella due giorni per terrorizzare il resto dei detenuti” (Nilda Eloy).
Nilda Eloy è stata un’altra delle eroine, emblema della resistenza contro la dittatura ed uno dei punti di riferimento più amati dell’attivismo per i diritti umani. La sua testimonianza nel 1999 è parte essenziale di questa causa ed è stata letta dal segretario del tribunale: “quando fu reclusa da sola cominciarono a usarla come donna per tutti i servizi, e quindi la porta della sua cella rimaneva sempre aperta. Fu oggetto di molteplici violazioni abituali ad opera dei capi della guardia e dei membri della ‘patota’ (squadre di militari in borghese) subendo ogni tipo di abusi, come masturbazioni sul suo corpo.
L’aggressore, che non era sempre lo stesso, si sedeva sul suo corpo senza slegare neanche i piedi, e si masturbava su di lei. Dopo avere trascorso due mesi nell’inferno pesava 29 chili”. Inoltre nel suo racconto dice che “in un’opportunità si servirono di lei per sperimentare un dispositivo di tortura che si introduceva nella vagina e causava scottature, nell’endometrio, allo scopo di non far nascere più figli di puttane”. Rimase sotto sequestro dall’ottobre 1976 a Lanús, passando poi da altri 6 centri clandestini di tortura e sterminio, fino al 22 agosto 1977 quando mi portarono “in una prigione e mi misero a disposizione della giunta militare, rimasi detenuta ancora altri due anni senza un capo d’accusa”.
Nunca más significa nunca más
Di fronte a una generazione di genocida, che vede la maggior parte di loro morire impuniti con l’avanzare della vecchiaia, questi processi ci mettono di fronte alla responsabilità di poter guardare noi stessi nei confronti della storia. La cosa più difficile non è sviscerare le presunte complessità che ancora oggi purtroppo vengono strumentalizzate per sminuire un genocidio. La cosa più difficile è riconoscere quello che tutta la società nel suo insieme fu capace di fare oltre ai diretti responsabili. Ascoltare le voci delle testimonianze e dilatare quella sofferenza nelle nostre coscienze, è un esercizio necessario.
Testimonianze che rimangono nell’inconscio collettivo oggi saturo di banalità. Ma sono ancora lì senza una soluzione e ci ritorneremo sopra una ed un’altra volta ancora fin quando i nostri fantasmi riusciranno a purificarsi. Forse la fame, la disuguaglianza, l’indifferenza e deferenza al potere siano ancora oggi strutturate come un karma che continua a fossilizzarci come popolo, incapaci di trovare una via di uscita. I sopravvissuti di questa gran macchina dell’inferno che abbiamo costruito, sono ancora i nostri fari nell’oscurità.
E i processi per la memoria, giustizia e verità la nostra unica vera via di uscita.
Sono 30.000!
Nunca más significa nunca más!
Adriana Calvo Laborde PRESENTE!
Nilda Eloy PRESENTE!
6 Novembre 2020