Contributo del compagno Mario D’Acunto sui perché della crisi politica dei comunisti in Italia.
Buona lettura e ci sentiamo dopo il Congresso del Csp-Partito Comunista che si tiene a Roma dal 17 al 19 gennaio 2014.
Saluti comunisti
Andrea Montella
di Mario D’Acunto
La nascita del Partito Comunista che sta per celebrare il suo primo congresso, e che si richiama alla tradizione del Marxismo-Leninismo come strumento di analisi e prassi politica, deve essere salutata come un serio e rigoroso salto di qualità politico-organizzativo alla luce della recente storia dei comunisti in Italia. Senza entrare nel merito delle tesi congressuali, che comunque rappresentano un notevole passo avanti dal punto del rilancio di una soggettività comunista, qui e ora, manca quasi del tutto una analisi di cosa sono stati i sedicenti partiti comunisti rifondativi in Italia in questi ultimi venti anni, vale a dire il Partito della Rifondazione Comunista (PRC) e il Partito dei Comunisti Italiani (PDCI) e quali obiettivi perseguivano politici come Cossutta, Bertinotti, Diliberto e i gruppi dirigenti che si sono susseguiti alla guida di queste due organizzazioni.
Gli ultimi due decenni sono stati contraddistinti sostanzialmente da un filo comune: la gestione politica del potere in Italia con la convergenza dei quadri politici ex PCI si è saldata con la destra berlusconiana per la collocazione del paese in un ambito di rapina economica e di assoluta alleanza all’imperialismo USA ed Europeo. Questa politica ha richiesto che, con la fine del PCI e la nascita del PDS-DS-PD, nessuna organizzazione politica consistente potesse formarsi e fare opposizione alla sinistra del PDS-DS-PD, e questo per non mettere a rischio i processi di destrutturazione industriale del paese, di attacco ai redditi dei lavoratori, al ruolo imperialista dell’Italia nei nuovi scenari geopolitici. Tutte queste politiche portate avanti da un grande compromesso destra-sinistra, reale applicazione fedele del pensiero unico, avrebbero avuto enormi difficoltà se, sui media e nelle istituzioni, si fosse presentata una forza politica minimamente coerente che avesse portato avanti posizioni antimperialiste e favorevoli ai lavoratori e contro la dismissione del patrimonio pubblico. Questa forza avrebbe trovato un consenso popolare tale da mettere a rischio i processi della borghesia. E siccome l’unica forza politica in grado di fare una seria opposizione agli interessi del capitale finanziario e industriale non poteva che essere una forza comunista (capace di raccogliere l’enorme patrimonio di militanti comunisti, che non si era certo dissolto con la svolta della Bolognina, svolta che pur ha riguardato una parte consistente della base e di gran parte dei gruppi dirigenti), il processo che ha impedito alla base comunista sana di riorganizzarsi politicamente è stato guidato dal PRC e, successivamente, in combinazione con il PDCI. Per intralciare i disegni della borghesia in questi ultimi venti anni, non occorreva una forza rivoluzionaria, ma una semplice voce di opposizione fuori dal coro e dotata di un minimo di tenuta politica e di coerenza nell’azione politica. Quindi, siccome all’indomani della nascita del PDS, 3 febbraio 1991, i comunisti erano comunque presenti in Italia, occorreva neutralizzarli e rinchiuderli in una riserva politica, anzi, fare anche in modo che questi partiti, autodefinitesi comunisti, aiutassero l’establishment politico a mantenere il conflitto sociale basso, mentre si smantellavano le conquiste del movimento operaio nel ‘900: a questo compito hanno contribuito in modo originale ed efficace i gruppi dirigenti del PRC e PDCI, in primis Armando Cossutta e Fausto Bertinotti protagonisti dell’intera opera di distruzione dell’esperienza politica dei comunisti in Italia. La distruzione della base comunista in Italia, un patrimonio enorme di quadri intermedi e di militanti di base fortemente radicati nel territorio, aveva bisogno di tempi più lunghi e di adeguati contenitori politici.
E’ arrivato il momento di fare i conti con questi processi.
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Il perchè della necessità di fare i conti con il passato recente.
Costruire oggi in Italia un Partito Comunista significa indirizzare un preciso piano di lavoro e dei compiti di cui i comunisti si devono fare carico soprattutto sia alla luce delle sfide di oggi, sia dopo l’esperienza degli ultimi trent’anni, in particolare, ma dopo la lunga fase di revisionismo che il documento del PC descrive bene in parte, almeno fino al periodo degli anni ’80 coinciso con la morte di Enrico Berlinguer e la fine del PCI. E siccome la militanza politica è fatta di uomini e donne, con il carico del loro vissuto, gli ultimi trent’anni sono stati anche il periodo storico vissuto in prima persona dalla stragrande maggioranza dei militanti che oggi vogliono dare vita ad un nuovo partito marxista-leninista in Italia.
Anche se un documento congressuale è sempre una sintesi, accreditare alcune complesse fasi politiche con i nomi dei segretari è sempre un errore che andrebbe evitato. Così, credo che Togliatti o Berlinguer, eccetera, vadano collocati in una finestra storica nazionale e internazionale dentro la quale si sono svolte, e che il potere degli individui, anche se segretari di un partito importante come quello che è stato il PCI in Italia, vada ricondotto nella giusta cornice di reale manovra e azione possibile. Questo senza voler fare sconti agli errori o ai meriti che ci sono stati. Anche perché non solo si sottostima il ruolo e la capacità della base militante, che in Italia ha avuto un certo peso, ma molto spesso si attribuiscono errori di linea politica osservando a posteriori come si sono ricollocati i rapporti di forza, senza tener conto della reale capacità del capitale di contrastare le politiche di emancipazione di classe. Così la vittoria dell’89-91 va attribuita sicuramente alle politiche revisioniste che hanno indebolito il blocco socialista, ma anche alla grande controffensiva del capitale degli anni ’70 basata sulla capacità invasiva e pervasiva del dollaro e dell’imperialismo USA.
La grande eredità degli ultimi trent’anni è stata la capacità di penetrazione del potere economico finanziario internazionale, a partire dall’avanzata neoliberista di fine anni settanta (Reagan e Thatcher), insediandosi in ogni aspetto economico politico e sociale, con un salto ancora più forte nel momento in cui è venuto a cadere il grande nemico di classe rappresentato dal movimento comunista internazionale (fine dell’URSS, economia di mercato in Cina), strutturandosi come una nuova forma di totalitarismo, non a caso spesso definito pensiero unico: nulla esiste fuori dagli interessi dal mercato definito secondo i rapporti forza di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale.
E in quest’ottica, esiste una problematicità supplementare che è data dalla eredità politica pesantissima lasciataci da PRC e PDCI, una delle critiche che oggettivamene va mossa al documento congressuale del PC è quella di aver taciuto su cosa sono state realmente i partiti rifondativi PRC e PDCI in questi venti anni. Sono state lo strumento (cosciente nel gruppo dirigente) di distruzione a livello di massa dell’esperienza comunista in Italia. Se la fase che chiude il PCI e apre la fase PDS-DS-PD è quella di permettere ad un gruppo dirigente di gestire il potere in Italia per conto degli apparati finanziari e industriali internazionali che collocano il nostro paese in un fascia marginale e di sostanziale estrazione di profitto che si manifesta nella continua e sistematica fuga di capitali dal mondo salariato alla rendita, la esistenza del PRC doveva garantire che la base dell’ex-PCI, maggiore partire comunista occidentale, doveva essere resa innocua da un partito che, appellandosi all’identità del comunismo del novecento, nei fatti garantisse spazio di manovra alle politiche di rapina effettuate nei confronti della classe lavoratrice a favore della rendita nazionale e internazionale. Per far questo i militanti comunisti dovevano essere rinchiusi in una riserva ben recintata e incapace di promuovere opposizione al sistema, questa riserva si è chiamata PRC, poi si è duplicata con la nascita del PDCI. Certo, analoghe esperienze sono state vissute in Francia e Spagna, non in Grecia, ma ci soffermeremo essenzialmente sulla situazione italiana.
Il mutuo politico che grava su di noi.
L’eredità politica di questi venti anni sono sotto gli occhi di tutti. Mettiamo ad esempio che una qualsiasi gruppo o piccolo partito politico che si ispiri alla tradizione buona dei comunisti, il marxismo-leninismo, la rivoluzione d’Ottobre, ecc, scenda in piazza a manifestare contro le aggressioni imperialiste, (la lista è lunghissima, solo per citarne qualcuna Iraq, Somalia, Serbia, Kossovo, Afghanistan, Libia, Siria…), o contro le politiche che massacrano i lavoratori creando disoccupazione, debito pubblico e lavoro super-sfruttato, e che voglia mettere i propri nomi e simboli comunisti, è esperienza comune venire tacciati di essere tra coloro che
“ …si eravate contro la guerra senza se e senza ma, e poi avete aumentato le spese militari nel governo Prodi, avete fatto la guerra in Kossovo e finanziato le missioni di guerra in Iraq e Afghanistan…”,
oppure
“…e il pacchetto Treu? Precarizzazione del lavoro, e tutte le finanziarie del taglio allo stato sociale, alla scuola, alla sanità alla ricerca…”
qualsiasi obiezione della serie: “…ma non siamo Rifondazione o il PDCI, noi siamo lavoratori che vogliono organizzare una forza di classe“, non hanno alcun valore, la storia e l’immagine del comunisti in Italia, ovunque siano essi collocati, si appiattisce, a livello popolare, sui danni che hanno fatto coscientemente il PRC e il PDCI. Danni che non sono irreversibili, ma che rappresentano un mutuo che pende sulla nostra testa di comunisti molto difficile da estinguere.
Siccome, però, si sta aprendo una nuova fase, con la riproposizione di un soggetto politico che si richiama alla tradizione marxista-leninista, è necessario guardare con gli occhi della critica costruttiva al nostro passato recente. Marx diceva (cito a memoria) che la vita determina la coscienza, e chi scrive ha fatto parte del PRC, facendo del lavoro politico militante di base a Pisa e tesserandosi dal 1994 al 1997, e dal 2002 al 2006 e nel 2011, collocandosi in una sorta di eterna opposizione, non strutturata nelle varie correnti, ma volta alla costruzione di un vero partito comunista, strumento di emancipazione della classe lavoratrice, meno parolaio nei discorsi e più coerente tra il dire e il fare nelle lotte portate avanti. Un partito cui si chiedeva essenzialmente di lavorare per mantenere aperta una finestra sull’uscita dal sistema di produzione di capitalistico e che avesse come obiettivo il controllo popolare dei mezzi di produzione. Non ho mai amato quella che definisco la metafisica della rivoluzione, con cui molti dirigenti delle organizzazioni menzionate si sono riempiti i discorsi (quante volte abbiamo letto e sentito di fase pre-rivoluzionaria?…), per poi, nella pratica, portare il proprio peso parlamentare a sostegno delle guerre imperialiste. Quanti di noi militanti, che i processi di rapina e di estrazione del profitto dal mondo del lavoro alla rendita li viviamo sulla nostra pelle, chiedevano al PRC di non diventare altro che il partito rappresentato in un documento dei servizi inglesi che dipingeva nel 1965 il PCI come il partito con “… i migliori quadri nell’ambito del mondo occidentale, dei partiti comunisti nel mondo libero e molto denaro proveniente da fonti proprie. Godono inoltre di un grande prestigio per la loro presunta indipendenza dall’URSS (Togliatti era morto da un solo anno, nda)” [Il Golpe Inglese, pagg. 222-223] ? Ecco cosa si chiedeva: quadri politici preparati, autofinanziamento e indipendenza politica. Tre aspetti che si saldano l’uno con l’altro. La questione del finanziamento, ad esempio, presenta anche un altro aspetto dirimente, un partito si autofinanzia quando è sostenuto economicamente dalla base militante e non dalle istituzioni borghesi, come invece hanno fatto sistematicamente PRC e PDCI, e la base sostiene un partito se è convinto di essere tutelato dalla stesso nella propria emancipazione come soggetto di classe.
Invece.
Invece Cossutta, Garavini, Bertinotti, Diliberto e tutto il gruppo dirigente che si è alternato alla guida di queste organizzazioni hanno avuto gioco facile soprattutto per i limiti oggettivi di una gran parte del corpo militante, che al ’91 (prassi comune almeno fino al 1996) praticava il culto della personalità, prima in Cossutta e poi in Cossutta e Bertinotti, poi nei confronti del solo Bertinotti, culto della personalità che si è sempre manifestato nella forma di adulazione di santi laici, quali i segretari di partito erano considerati, e alimentata dalla fedeltà chiesta e puntualmente offerta dai quadri intermedi, in quanto i quadri politici sono sempre stati scelti in base alla fedeltà al dirigente capo piuttosto che alla capacità di analisi e di intelligenza politica. Occorre dire che questo cattivo modo di relazionarsi all’interno dei gruppi dirigenti non era solo ad appannaggio dei personaggi sopra citati ma anche delle piccole correnti che, di volta in volta, sono emerse come opposizione interna nel corso dei due decenni. Sono stati così ottenuti due risultati, uno, avere dei gruppi dirigenti del tutto inetti e fedeli alla voce del segretario nazionale, l’altro di creare un fortissimo malcontento nella base che ha prodotto quel processo, nuovo e unico in Italia, che è stato definito come il turn-over degli iscritti. Dentro la sola Rifondazione sono transitati qualcosa come circa 600 mila iscritti, molti sicuramente di tessere gonfiate per lotte interne nei vari congressi, ma la gran parte dovute alla reale richiesta di una forza di opposizione comunista in Italia. Chi si è avvicinato al PRC con la speranza di condividere un malessere personale e sociale, che doveva tramutarsi in una lotta politica basata su una visione alternativa di società, veniva sistematicamente deluso e offeso. In molti casi la sopravvivenza nel PRC durava un anno, o un paio di anni, quindi nel passare da 112 mila iscritti del 1991, al massimo di 130 mila del 1997, ai 31 mila attuali, questi numeri non descrivono appieno il turn-over di cui il partito è stato oggetto.
Già nella 1° Conferenza organizzativa del giugno ’97 si denuncia una situazione veramente preoccupante: oltre 20.000 iscritti lasciano il partito ogni anno e circa altrettanti vi entrano (o rientrano). E’ un turn-over che caratterizzerà tutta la vita di Rifondazione impedendo una sedimentazione dei suoi militanti e dei suoi dirigenti e la formazione di un pensiero politico omogeneo. Un fenomeno questo che non ha mai provocato nel gruppo dirigente la necessaria riflessione. E non si può non rivelare che nessuno dei soci fondatori da Cossutta fino al segretario storico Bertinotti e al suo delfino Vendola è rimasto dentro il Prc.
Solo per citare un esempio recente, il 20 Ottobre del 2007, PRC e PDCI indicono una grande manifestazione contro le politiche di attacco al salario e allo stato sociale contenute nella legge finanziaria, dell’allora governo Prodi, di cui tra l’altro le due formazioni fanno parte. Alla manifestazione partecipano circa un milione di comunisti, un risultato straordinario non solo in Italia, ma nel mondo, un risultato nemmeno immaginabile, solo giorni prima, per gli organizzatori. La reazione a questa manifestazione è stata un ulteriore inasprimento della legge finanziaria 2008, supinamente accettata dai gruppi dirigenti delle due formazioni. E’ immediato capire come mai dalle elezioni del 2008, PRC e PDCI non riescano a eleggere un parlamentare.
In questa nuova fase occorre utilizzare lo strumento dell’autocritica come strumento dei materialisti storici per capire il passato recente, capire in che modo il potere si struttura, quando una forza di opposizione allo stato presenti di cose sia realmente efficace per affrontare in modo adeguato le sfide odierne. In pratica, l’autocritica deve essere utilizzata come strumento di ri-alfabetizzazione dei quadri politici marxisti-leninisti.
Come posso distinguere un comunista parolaio da uno onesto?
Un criterio è guardare ai fatti, e in seconda battuta alla coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Questo criterio è ragionevole applicarlo a tutte le situazioni della vita, ma nel caso dei comunisti, proprio per il compito ambizioso e importante di cui essi si fanno carico, diventa dirimente.
2) Riflessioni sul PRC.
Quando Occhetto aprì la fase di transizione verso il PDS (novembre 1989-gennaio 1991), non ci furono un’analisi obiettiva e una discussione razionale, impossibile in un partito identitario privato da tempo di ogni reale dibattito interno, che non fosse la caricatura dei gruppi dirigenti, ma uno psicodramma politico-psicologico di deficienti in preda ad una affabulazione verbale “rivoluzionaria”. Alla fine di questo processo identitario e affabulatorio si scoprì che era rimasto un relativamente ampio residuo militante con relativa nicchia elettorale. Allora, e solo allora, Cossutta, Garavini, Libertini, Serri, ecc., decisero di occupare questo spazio. Rifondazione Comunista, non dimentichiamolo mai, nacque con il gruppo dirigente più vecchio dell’intera storia del movimento comunista. Chi non capisce il significato di questo fatto è del tutto irrecuperabile per un dibattito storico razionale. Più tardi, fu cooptato Fausto Bertinotti. Nel 1991, persa la battaglia contro lo scioglimento del PCI, come consigliato da Ingrao, Bertinotti aveva preferito rimanere nel PDS. Nel 1993 Bertinotti lascia polemicamente il PDS, in quel momento è il leader della corrente della sinistra sindacale Essere sindacato della CGIL ed è notoriamente ingraiano. Inizialmente Bertinotti rifiuta una sua adesione al PRC; poi, il 17 settembre, avviene la svolta: Bertinotti è pronto ad aderirvi e Cossutta, abile orchestratore della cooptazione come strumento di creazione o eliminazione di quadri politici, lo vuole subito segretario. Il 23 gennaio del 1994 Fausto Bertinotti diventa il secondo segretario di Rifondazione Comunista, subentrando a Garavini, grazie a un accordo tra Cossutta e Magri.
Non a torto, Rifondazione è stata definita un grosso spazio elettorale con un piccolo corpo militante, e un leader, Bertinotti. Per capire ruolo e peso di Bertinotti basti fare due considerazioni: la sproporzione tra numero di militanti ed elettori è senza precedenti nella storia dei partiti della sinistra in Italia. Fino al 2006, con varie oscillazioni, vi è stata una media che oscilla intorno a 5 iscritti ogni 100 elettori. Qualche confronto: vi sono 10 iscritti ogni 100 elettori tra i Ds, nello stesso periodo, mentre ve ne erano 20 su 100 nel caso del Pci. Dunque, il ruolo del leader costruito ad arte dai media, televisione in primis, è lampante. Il sistema controlla la televisione e decide presenze e temi in cui Bertinotti può giocare le sue partite di affabulatore parolaio.
La diarchia Cossutta-Bertinotti, risolta a favore di quest’ultimo. Sebbene il PRC fosse politicamente controllato dall’apparato di Cossutta, e finché non se ne liberava, non era possibile per lui perseguire il suo obiettivo politico, quello della costruzione di un partito post-comunista massimalista di sinistra, che stava nel codice genetico della sua storia personale (Basso+Lombardi+Fiom). Per questo ci vollero due passaggi tattici, il 1995 ed il 1998, in cui riuscì a scaricare prima Magri (1995) e poi Cossutta (1998), insieme a gruppi parlamentari consistenti.
Dopo il ’98, la rottura con l’apparato cossuttiano, comporta alcune difficoltà da superare soprattutto rispetto alle attese dei militanti. Il partito di Bertinotti rimane totalmente sistemico, dove sistemico significa che non prevede alcuna rottura con il PDS. Dopo il ’92, la riproduzione ideologica del sistema prevede l’assunzione del pensiero unico e che nessuna alternativa è possibile, in questo senso, l’opera di Bertinotti è coniugare la parola Comunismo che lo distingue da altri partiti genericamente di sinistra e che tiene uniti ancora i militanti altrimenti capaci di riorganizzarsi fuori dal sistema, allora ecco che Comunismo si coniuga con non-violenza, e chi critica il sionismo diventa automaticamente antisemita, mentre i palestinesi rimangono terroristi. Gandhi sostituisce Lenin, si cancella tutta la tradizione novecentesca invocando un ipotetico ritorno a Marx, creando una realtà radical-popolare, ma tenendo insieme l’anima identitaria dei comunisti su un presunto verace anti -Berlusconismo a differenza di quello debole del PDS incapace di fare una legge sul conflitto di interessi, e creando un partito con un gruppo dirigente basato essenzialmente da una pletora di carrieristi che balcanizzano il partito, soprattutto a livello degli enti locali. Sulla composizione del gruppo dirigente nazionale e locale, l’orizzonte culturale dei quadri intermedi, cooptati da Cossutta e Bertinotti, era tale da fare in modo da restare abbacinati sia dai privilegi che dalla visibilità mediatica loro offerti dalla posizione di parlamentare, che li proiettava dalla loro posizione precedente di supplenti di scuola media a quella di dirigenti d’impresa di medio livello. Raggiunta questa posizione avrebbero fatto di tutto pur di non perderla subito, ed allora si spiega come si scindano da chi non sembra dare loro prospettive di rielezione e si uniscano con apparati più forti in senso elettorale uninominale e maggioritario. I deputati provenienti da Reggio Calabria, Chieti, Udine o Asti arrivano a Roma, e si trovano subito inseriti in giri mondani gestiti da marpioni politici legati al circo delle maggioranze reali in cui il fare politica significa fondamentalmente contribuire a fare e disfare maggioranze parlamentari. In questo modo, e certo in forme largamente inconsapevoli e in buona fede, questi poveracci passano dalla precedente rappresentanza di compagni di base massimalisti alla nuova rappresentanza di alchimie politiche totalmente parlamentari.
Si costruisce in questo modo un gruppo dirigente appiattito completamente sulle istituzioni borghesi, fonte non solo di carriere individuali, ma anche fonte di finanziamento per un partito sempre più lontano dalla capacità di farsi finanziare dalla base. Generando un meccanismo in cui la ricerca dell’alleanza con il centro-sinistra diventa il vero obiettivo, alla faccia dei discorsi massimalisti e filo-movimento.
Bertinotti è perfettamente consapevole della natura del suo partito: sa che si tratta di un grande spazio elettorale, con un corpo militante debole e socialmente sradicato, sottoposto a un continuo turn-over, circa 20 mila nuovi iscritti in entrata sostituiscono altrettanti o poco più militanti in uscita. Dunque ha scelto, da sempre, di porsi in sintonia diretta con lo spazio elettorale saltando il partito, cioè il suo corpo militante. All’epoca dell’uscita dalla maggioranza che sosteneva Prodi, Bertinotti rompe sulla finanziaria 1999, ma non sulla questione che si profila all’orizzonte, vale a dire la guerra in Kossovo, (Marzo-Giugno 1999), per la quale nascerà il governo D’Alema. Bertinotti aveva correttamente interpretato i segnali che venivano dalle elezioni amministrative parziali ed ha agito di conseguenza. Quando sono sorti i movimenti li ha cavalcati cercando di entrare in sintonia con essi, cioé col suo spazio elettorale. Quando ha compiuto tutti gli strappi ideologici sulle foibe, la resistenza, l’ottobre, il novecento, ecc. il corpo del partito, legato ad un immaginario comunista che pur non pratica affatto, aveva reagito assai male e tra i militanti di ogni corrente ci si aspettava un crollo alle elezioni amministrative. Invece il partito ha guadagnato molti voti. E ciò non certo per merito delle uscite bertinottiane: semplicemente lo spazio elettorale del Prc non è fatto di nostalgici del tempo che fu, è poco politicizzato, ma è radicale. Esso ha votato Prc per effetto dell’antiberlusconismo e delle mobilitazioni.
Se ovviamente il termine comunismo avesse interessato il corpo del partito, e non fosse solo una risorsa simbolica identitaria per gli occasionali militanti del tempo ancora animati dalla fede cieca nel segretario, residuo del culto della personalità che ha caratterizzato l’appartenenza dei comunisti alle proprie strutture politiche, e che continuavano ad ignorare che il partito degli anti-Berlusconi era diretto da forze neo-liberali e filo-americane esattamente come Forza Italia, e questa direzione è saldissima, per cui ai bertinottiani potrebbero essere solo assegnate funzioni minori di copertura di correzione minima, la paroletta nuovo comunismo non è che la vecchia socialdemocrazia.
C’e’ un altro aspetto che caratterizza il PRC fin dalla sua nascita: il Prc non ha una sua burocrazia interna. Questo elemento è fondamentale per comprenderne le dinamiche interne. Vi sono stati partiti nella storia del movimento operaio in cui la presenza di questo strato sociale è stato assai importante: il Pci. Lo è tuttora in organizzazioni di altra natura, ad esempio quelle sindacali. Il Pci disponeva di un enorme apparato di funzionari stipendiati: funzionari di partito, sindacali (la cui nomina dipendeva dal partito), di cooperative, di organizzazioni di massa (Arci, Udi, ecc.). Si trattava di migliaia e migliaia di persone. Questa burocrazia costituiva una piramide, fortemente coesa, disciplinata ed orientata ad un saldo controllo di una vasta base militante. Il Pci appariva, e in parte lo era, una sorta di corazzata assai poco attaccabile, se non dalla storia. Questi funzionari dipendevano dal partito per mantenere il proprio posto, il proprio stipendio, la propria posizione e la speranza di far carriera. Ciò condizionava pesantemente la loro psicologia politica: erano obbedienti in ogni contesto perché sapevano che anche la propria posizione nelle istituzioni, nei sindacati, e ovunque si trovassero dipendeva, in ultima analisi, dalla benevolenza del partito. Dunque, era il partito, la sua gerarchia e la sua struttura, al centro di tutto. Il Prc è tutt’altra cosa, una realtà che senza un leader sarebbe scomparsa, ma che nello stesso tempo dietro l’ombra di quel leader si creavano dei feudi politici con piccoli ras locali che adattavano in modo pragmatico le esigenze identitarie con la necessità di raggiungere accordi con il partito della sinistra maggioritario, fosse esso il PDS, i DS o il PD adesso.
Facciamo un esempio emblematico avvenuto in Toscana, regione dove il peso del PRC è stato sempre consistente ed anche quello del PDS-DS-PD. A Pisa, nel periodo 2002-2004, la giunta DS vuole costruire un nuovo inceneritore accanto ad uno già esistente, la volontà è di ingrassare varie ditte collegate alla cordata politica che governa la città. Come risposta nasce un movimento contro la costruzione dell’inceneritore, un movimento prevalentemente di zona, in cui confluiscono dal locale parroco a cittadini della zona, e il locale PRC, che storicamente a Pisa offre una blanda opposizione, ma pur sempre opposizione, anche perché conti alla mano la giunta di sinistra non ha bisogno dei voti del PRC. Il movimento composto di cittadini molto agguerriti e molto ben preparati sulla questione dei rifiuti, riesce anche a presentare una lista per le elezioni comunali del 2003. Rifondazione cerca disperatamente di fare lista comune anche accettando che la candidata sindaca sia la candidata espressa dal movimento. Candidata, la quale, ad una domanda sulla vicina base militare di Camp Darby, la più grande base di stoccaggio di armi dirette negli scenari di guerra dal Mediterraneo all’Afghanistan, risponde candidamente: la base fa lavorare 500 persone, dobbiamo tenerla per l’economia della zona. Pochi mesi dopo le elezioni, (nessun consigliere per la lista) il movimento contro l’inceneritore ottiene la sua vittoria, l’inceneritore non verrà più costruito a Pisa. In realtà, sarà costruito a Montale, in provincia di Pistoia, dove il PRC governa in una giunta di centro-sinistra. Per il movimento pisano, il problema è risolto, invece per una forza politica nazionale, quale in teoria il PRC dovrebbe essere, il problema si è semplicemente spostato di 40 km. Infatti, il PRC a Pistoia controlla che non ci siano grossi ostacoli alla costruzione dell’inceneritore, che viene puntualmente costruito e il risultato è che il PRC sparisce da Pistoia in termini di voti. In questo modo si è balcanizzato il partito, da Bolzano a Siracusa, il PRC ha avuto tante posizioni diverse sulle singole questioni, tante quante erano le varie collocazioni del partito rispetto alle coalizioni di centro-sinistra e alla capacità di far pesare i propri voti per entrare in giunte, che avrebbero costruito inceneritori, privatizzato il privatizzabile e regalato territori alla speculazione. Questa balcanizzazione era anche costruita da feudi in cui i quadri intermedi, di fronte ad un partito liquido e impalpabile, potevano gestire accordi e alleanza in modo del tutto autonomo rispetto alla casa madre romana, che in genere sottobanco le favoriva. Se il partito avesse voluto imporre una linea organica e coerente da Bolzano a Siracusa, avrebbe avuto non poca resistenza dei vari feudi locali non eventualmente allineati. Dopo Bertinotti, Ferrero avrebbe avuto enorme difficoltà a tenere unito il partito se si fosse voluto dare continuità alle promesse congressuali del 2008.
Questa vicenda ci introduce a una serie di riflessioni. Innanzitutto i movimenti esprimono una forte vertenzialità su singole questioni su cui sono molto avanzati e invece sono molto arretrati su altre, come dall’esempio precedente, abbiamo un movimento molto avanzato sul ciclo dei rifiuti, ma molto arretrato sulla questione della guerra e dell’imperialismo. Gli unici che in teoria dovrebbero essere avanzati in tutte le direzioni a 360 gradi sono i comunisti, che dovrebbero avere uno strumento di analisi e di lotta altamente sofisticato e una visione organica dei processi di produzione e dei rapporti forza tra le classi.
I movimenti hanno rappresentato, e tuttora rappresentano, la residuale opposizione alle politiche del capitale. Opposizione spesso occasionale e ovviamente inefficace, proprio perché i movimenti sono rappresentati da una soggettività dove i ruoli interni non sono definiti e nel quale le relazioni sociali sono per lo più a carattere cooperativo e dotate di forte carica emotiva. Solitamente il movimento focalizza l’attenzione su un determinato obiettivo e si mobilita per conseguirlo. Inoltre, quando va bene, i movimenti utilizzano uno strumento di lavoro di tipo assembleare, dove predomina chi è capace di parlare e di buona eloquenza, anche se dice cose del tutto inutili. In questo, i movimenti, limitati dalla visione episodica della realtà, collocabili in genere localmente ed egemonizzati da piccoli leader, assomigliano molto a cosa è diventata Rifondazione sotto Bertinotti. Per cui, lo stesso ha avuto grande capacità di egemonizzazione dei movimenti stessi da Genova 2001 al 2005, prima dell’ingresso nel secondo Governo Prodi.
In sintesi, Bertinotti si è mosso all’interno del quadro istituzionale ragionando in modo elettoralistico maggioritario. Questa è stata la tattica sistematicamente seguita, che rappresenta una strategia disastrosa. Essa si colloca tutta al livello dei ceti politici, lavorando sugli spazi elettorali. La visione politica di Bertinotti è quella di ambire a muovere le masse dall’alto di una leadership illuminata, ignorando la necessità dei corpi intermedi, cioè dei militanti. I cambiamenti sociali però li fanno i militanti e le strutture radicate nella società. Le leadership, senza che abbiano dietro nessuno, diventano presto ostaggi di chi dietro ha gente e soldi. E i danni strategici di questa tattica per ora vittoriosa e indubbiamente intelligente, si possono già vedere. La sparizione della sponda politica Prc ha potentemente contribuito a demotivare i movimenti, specie quello contro la guerra, e li ha disorientati. Mancando un Prc che smarcasse a sinistra, le burocrazie di verdi, PdCi, e sinistra Ds non hanno potuto certo scavalcare a sinistra Bertinotti. Il risultato concreto è stato che, coloro che hanno perso le elezioni del 2001, dopo tre anni burrascosi di contestazioni alla loro leadership, si sono saldamente posizionati in sella al comando, e Fassino ottiene nel 2004 una percentuale bulgara al congresso Ds.
Infatti, se in campo non ci sono movimenti e militanti, ma solo uno spazio elettorale desiderante, Bertinotti non avrà alcuna arma “vera” da giocare per spostare a sinistra i DS, e così è stato infatti in modo quasi scientifico.
3) L’autocritica come strumento politico per le sfide prossime
In questo breve documento si è cercato di analizzare attraverso le distorsioni più macroscopiche del PRC e del PDCI negli ultimi venti anni quale progetto è stato perseguito: la distruzione del blocco sociale ereditato dall’esperienza del PCI. Una critica attenta di cosa sono stati questi partiti auto-definitesi comunisti è oggi fondamentale per ripresentare un nuovo soggetto politico che si richiami alla tradizione comunista in Italia. Una rottura netta con i metodi del recente passato sono necessari per riproporsi con una strategia, una capacità politica ed una capacità di ritessere un tessuto sociale tra i militanti nel nostro blocco sociale di riferimento.
L’autocritica come strumento politico si basa sul fatto che l’esperienza comunista nel novecento rappresenta un grande banco di prova per valutare cosa di positivo è stato fatto, quali processi hanno rappresentato un salto nell’emancipazione della classe lavoratrice e quali gli aspetti negativi (e soprattutto perchè) senza sconti politici se non vogliamo ripetere errori la cui oggettiva valutazione richiede molto spesso molti anni se non decenni per inquadrarli nella giusta cornice storica.
L’autocritica non può e non deve essere patrimonio dei singoli, ma analisi collettiva della storia recente e meno recente dei processi che hanno modificato così negativamente i rapporti di forza tra le classi. Vediamo sinteticamente quali strumenti devono incernierare lo sviluppo di un nuovo partito oggi che si voglia riproporre nelle condizioni attuali sia a livello strategico, sia sociale e politico.
Coerenza.
Occorre seguire una coerenza tra la teoria e la prassi, volgarmente tra ciò che si dice e ciò che si fa. Essendo una forza di critica del sistema capitalistico, non solo nella sua forma attuale, ma alla capacità di riproduzione del capitale, non ci sono possibili mediazioni con forze borghesi, accordi anche tattici, o politiche frontiste: i marxisti-leninisti hanno un progetto politico non mediabile con altre forze che comunque si muovono nello spazio di manovra del capitale, i comunisti sono soli, o si accollano questo compito o non ha senso riproporre una soggettività politica.
Radicalità e Rigore.
Che cosa contrapporre alla balcanizzazione dei movimenti, radicati in territori minuscoli, e isolati, incapaci di costruire una reale alternativa. Occorre contrapporre la capacità dei marxisti-leninisti che hanno una visione organica della società che deriva dall’esatta collocazione dei rapporti di forza tra le classi. Le varie contraddizioni sono tutte collocabili all’interno dei rapporti di produzione e solo una visione radicale (nel senso che si vada alla radice) dei processi e di tutte le contraddizioni che si sviluppano in seno alla società borghese, e una rigorosa politica che ne consegue può oggi richiamare alla mente dei lavoratori e associare alla parola partito comunista una politica forte e coerente contro la società borghese. Altrimenti i comunisti saranno quelli che, oggi sono contro la guerra imperialista, e domani la finanzieranno in un governo, dove hanno qualche ministro senza portafoglio, oppure quelli che, a Pisa sono contro gli inceneritori, mentre a Pistoia deliberano allegramente di costruirne uno bello grande.
Abbandono del leadirismo in tutte le sue forme.
Il leader, in quanto persona in carne ed ossa è facilmente corruttibile e quindi etero diretto, altro che culto della personalità. Tutte le strutture gerarchiche sono facilmente gestibili dall’esterno, basta controllarne il vertice, questa eterodirezione è prassi comune nelle formazioni segrete (servizi, massoneria, organizzazioni terroristiche o mafiose, che, infatti, possono convergere tra di loro facilmente in termini di operatività e obiettivi). Il lavoro politico all’interno del partito deve essere teso ad una capillare diffusione degli strumenti di analisi e lotta politica. Maggiormente diffuso è il patrimonio di analisi e di lotta nel corpo militante, maggiore la capacità di radicamento territoriale. Il corpo militante deve essere non solo capace di far crescere il partito in ogni sua attività, ma deve essere capace di entrare nelle lotte portate avanti dai movimenti e mostrare come le singole vertenze (il soggetto contro cui lotta il movimento) sono espressione organica di una società basata sul profitto e caratterizzata da processi di accumulazione capitalistici (sovrapproduzione di capitale e caduta tendenziale del saggio di profitto, e quindi disoccupazione, indebitamento pubblico, guerre). Entrare nelle lotte e nei movimenti significa mettersene alla guida indirizzandole verso il giusto e corretto sviluppo all’interno del corpo sociale. Occorre in pratica una nuova e totale alfabetizzazione politica dei militanti, che a sua volta ricade anche nelle soggettività con le quali si interagisce.
Insieme all’abbandono del leaderismo, un altro strumento da adottare è l’abbandono delle carriere politiche individuali e l’allargamento alla base delle responsabilità istituzionali. Le istituzioni borghesi fanno gli interessi della borghesia, perché da essa controllate, e dentro queste, i processi di ricatto individuali sono fortissimi.
La strada è sicuramente complicata e difficile, ma non ci sono altre scelte, almeno per chi lotta per il superamento dello stato presente di cose.
Pisa, 10 Gennaio 2014.