Vincenzo Imperatore
L’articolo 29 del Concordato equiparò, dal punto di vista tributario, gli enti ecclesiastici agli enti di beneficenza; l’art.20 rese le merci in entrata per la Santa Sede e i suoi uffici esenti da dazi. Ma, continuiamo. Il concordato subì delle modifiche nell’84, la Chiesa trattò sul carattere esclusivo della religione Cattolica per aumentare i privilegi: maggiori esenzioni fiscali e doganali.
La Chiesa ha il diritto di percepire ogni anno l’otto per mille (più di un miliardo di euro all’anno), è esente da Ires, Irap, Iva, imposte sui redditi dei propri fabbricati, esente da Imu. Potremmo andare avanti, lo faremo, ma facciamo una pausa per arrivare pronti al più grande ed indiretto privilegio per le banche.
Abbiamo bisogno di un intermezzo. Chiediamoci, ma quanto guadagna un uomo di Chiesa? Un prete semplice circa mille euro al mese, i parroci sui 1.200, i vescovi arrivano fino a 3.000, gli arcivescovi dai 3.000 ai 5.000, i cardinali in media 5.000.
Ecco, ora voglio soffermarmi su una vecchia inchiesta, andata in onda su Rai3 nel 2015, che, partendo dalla denuncia fatta dal sottoscritto nel libro Io vi accuso, portò alla ribalta un certo modo di fare, dei movimenti che gettavano ombre sulla reale ricchezza degli esponenti clericali.
Fu scoperchiato il pentolone di un portafoglio di un consulente bancario e, a titolo di esempio, analizzando il conto bancario di un prete semplice riscontrammo un’entrata fissa mensile di appunto circa mille euro. Sconvolgenti, invece, erano le uscite. Nell’arco di 30 giorni trovavamo: 50mila per sottoscrizione di titoli e fondi comuni + 20mila per acquisto titoli + un accredito di 50 mila, questa volta, per vendita titoli + un altro accredito di 29 mila, ancora per vendita titoli + un bonifico su conto estero di mille, regalo di compleanno ad un amico.
Vita finanziaria intensa per un modesto sacerdote di provincia, non trovate? Tutto ciò con soli mille euro di stipendio, notevole o forse no. Com’era possibile? Commercio illecito di donazioni dei fedeli? Evasione fiscale di ricche famiglie canalizzata sul conto del parente sacerdote per sfuggire ai controlli? Qualche domanda sorge opportuna.
Vi racconto un aneddoto. Ero capo-area della provincia di Napoli e alla nostra banca, dopo la fusione con un istituto di credito vicino al Vaticano, venne imposto che la gestione dei patrimoni delle arcidiocesi e dei principali esponenti del clero campano fosse affidata ad un nominativo indicato dalla stessa curia, un diacono a libro paga della banca ma che fungeva da personal banker della Curia. Non potevamo rifiutarci, per “non perdere clienti d’oro” e, ovviamente, “benefit e premi”. Lo avremmo fatto? In banca mica so’ fessi. Tutto questo in cambio di silenzio.
Ho visto conti correnti dell’arcidiocesi a sei cifre non giustificabili con le donazioni, ho visto bonifici di centinaia di migliaia di euro su conti di preti di provincia, mai segnalati. Ho visto sacerdoti fare trading. Tutto ciò, mi conferma un amico ancora in banca, succede tuttora mentre ve lo sto raccontando.
L’antiriciclaggio è una nota dolente per gli istituti di credito, le banche devono segnalare (per obbligo) tutte le operazioni sospette, se guadagno mille e faccio operazioni per 300mila devo essere segnalato. Se lo facesse un normale cittadino, al primo sospetto si troverebbe l’agente Peña (riferimento casuale al commissario della DEA che combatteva i Narcos) fuori la porta di casa, cani da droga e via di fuga bloccate. Nel caso dei preti, invece, nessun controllo. Conviene tacere e incassare. Il silenzio e d’oro per gli uni e per gli altri. L’antiriciclaggio se ne faccia una ragione.