Il finanziamento dello Stato per 5 miliardi a Intesa perché compri una banca ripulita dai crediti deteriorati e sospetti può pesare sulle generazioni future. Ecco come si è arrivati, errore dopo errore alla liquidazione ad hoc. Il bilancio politico dell’operazione, tuttavia, non è ancora scritto
Prima chiudere gli occhi sui problemi, poi mettere in piedi soluzioni che i problemi li rinviano soltanto, poi ritrovarsi con problemi ingigantiti. A voler essere brutali, così si può leggere il trattamento della crisi delle banche venete da parte delle autorità di vigilanza e degli ultimi governi. Banche che hanno potuto alzare il capitale sulle spalle della clientela, soluzioni illusorie come Atlante, conti saliti vertiginosamente di revisione in revisione e con la fuga dei depositi. Fino al pirotecnico finale partita, dove non è mancato nulla: dall’inversione a U della strategia seguita fino a quel momento al via libera strappato alla Commissione europea, passando per una legge riscritta in un giorno. E da una resa alle condizioni poste da Intesa Sanpaolo per arrivare a una soluzione, che almeno un punto fermo nel circolo vizioso in cui Veneto Banca e Popolare Vicenza dovrebbe metterlo. Ma che potrebbe costare carissimo ai contribuenti italiani, fino a 17 miliardi di euro, ovvero un punto di Pil, nella peggiore delle ipotesi.
Intanto di certo c’è che a un istituto privato, Intesa appunto, andranno 3,5 miliardi di euro per comperare due banche mantenendo inalterati i coefficienti patrimonali e i dividendi. Ci saranno 4mila esuberi volontari, pagati con altri 1,285 miliardi del pubblico (si tratterà di prepensionamenti, in maggioranza di lavoratori di Intesa) e 600 chiusure di filiali su 982. Condizione che si somma alla possibilità non solo di prendere solo i crediti in bonis delle due banche, ma anche di avere tre anni per fare selezione tra questi e di usare per quelli scartati la garanzia pubblica (ci saranno dei paletti, ha detti ieri Bankitalia). Rimangono intanto i dubbi sul destino dei creditori “in bonis” che saranno scartati, che potrebbero vedersi chiedere il ritorno dei prestiti. Ci sono poi le garanzie per i rischi legali (1,5 miliardi) e le imposte differite attive delle banche acquisite, che saranno pienamente usufruibili da Intesa Sanpaolo.
In cambio qualcosa di concreto c’è, per carità: arriva una banca con il marchio forte che potrà, si spera, riprendere a erogare i prestiti in Veneto (in un comunicato Intesa ha annunciato un plafond aggiuntivo di 5 miliardi di prestiti nel territorio). Si evita anche di toccare gli obbligazionisti senior e i numerosi – per ragioni ancora da comprendere appieno – correntisti che avevano depositi superiori ai 100mila euro, nonostante sia chiaro dalla fine del 2015 al più distratto dei risparmiatori che la direttiva sul bail-in non li avrebbe garantiti. Allo Stato vanno con la liquidazione vanno 5 miliardi di crediti deteriorati già svalutati, che potranno essere rivenduti senza la fretta che tipicamente ne abbatte il valore. Le opinioni divergono moltissimo sul fatto che la soluzione tecnica – e finanziaria – trovata da Pier Carlo Padoan e dai tecnici del Mef sia il male minore rispetto a una risoluzione con conversione di 1,2 miliardi di bond senior che avrebbe evitato di caricare il costo dell’intervento pubblico sulle spalle delle generazioni future. Per un bilancio vero bisognerà però capire quattro cose: quanto di quei 12 miliardi di garanzie pubbliche sarà realmente usato. Se, come ha ripetuto Padoan, una parte o tutti gli stessi 5 miliardi dati a Intesa saranno recuperati, perché «il totale degli asset che sono stati collocati nella bad bank è più grande della somma da recuperare» (tra questi asset ci sono le partecipazioni delle due banche, che non vanno a Intesa, come quella in Arca Sgr). Se questa soluzione “ad hoc” rappresenterà la fine della crisi bancaria italiana o se sarà un precedente per altre liquidazioni che ricadranno sui contribuenti. E se questa operazione casalinga, con esclusione della Brrd, faccia naufragare la garanzia comunitaria sui depositi, il tassello mancante della Banking Union: interpretazione ricorrente a Berlino e nella stampa anglossassone, ma anche a Madrid, a cui si contrappone la posizione di Fabio Panetta, vice direttore generale di Banca d’Italia e membro del Consiglio di Vigilanza Bce, secondo cui l’Unione bancaria uscirà addirittura rafforzata.
Ora che le bocce sono più ferme, in ogni caso, bisogna ripercorrere i passaggi che hanno portato a questo salasso di risorse pubbliche, perché non in questo vicolo cieco ci siamo ritrovati per un destino cinico e baro. Per farlo ci appoggiamo a quanto ben ricostruito da Fabio Bolognini nel suo blog Linkerbiz alla fine del mese di maggio (e a cui si rimanda per ulteriori dettagli). Si comincia con la folle corsa dei volumi dei prestiti concessi dalle due banche, senza prudenza, con mille favori agli imprenditori amici, con prezzi inferiori ai concorrenti. Tra il 2008 e il 2012, ricorda Bolognini, gli impieghi di Veneto Banca sono saliti del 64%, per Popolare di Vicenza del 35%. Era anche facile fare questi numeri, perché nel frattempo le altre banche si andavano ritirando. Luca Erzegovesi nel blog Pane e Finanza usa un’immagine militare: la corsa delle due venete era come quella di un tenentino che avanza con il suo plotone nella terra di nessuno senza incontrare resistenza. Quando si sarebbe trattato di tornare indietro sarebbe servito un generale e la disciplina di alcune brigate di alpini in ritirata dalla campagna di Russia. Nel caso delle due banche, se qualche generale è stato chiamato (da Atlante) non ha evitato uno schianto senza precedenti.
Probabilmente per un bilancio vero bisognerà capire che succederà su tre fronti: quanti miliardi pubblici saranno usati; se la crisi bancaria sarà risolta o incentivata; e che fine farà l’Unione bancaria europea
Andiamo con ordine. Questa crescita tumultuosa degli impieghi viene accompagnata da una politica di di accantonamento dei prestiti imprudente, con accantonamenti inferiori a quelli degli delle altre banche. «Anche in questo caso – nota Bolognini – i numeri erano sotto gli occhi di tutti», ossia delle autorità di vigilanza. Ma anche delle associazioni imprenditoriali, che si guardano bene dal denunciarle. Quando la crisi economica moltiplica i fallimenti delle imprese, il buco viene fuori e ci si accorge che le sofferenze sono troppe, alla banca viene concesso di raccogliere i fondi presso la clientela fuori da qualsiasi regola. È la tecnica che poi sarà nota come “prestiti baciati”: finanziamenti dati in cambio di sottoscrizione di azioni. È storia nota. Poi il buco si allarga e «sempre sotto gli occhi dell’intera comunità finanziaria» a entrambe le banche viene concesso di emettere nuove obbligazioni subordinate, «ancora una al circuito della clientela (a quel punto gli investitori avevano già capito e preso le distanze dai rischi)». È l’apice del “mis-selling”, la vendita di prodotti complessi e rischiosi a chi aveva profili Mifid palesamente inadeguati. Ora per chi le famiglie che hanno sottoscritto queste obbligazioni subordinate, prima del giugno 2014, si apre la strada del rimborso. Nel frattempo i valori delle azioni erano divenuti elevatissimi, ben oltre quelli delle banche quotate. Zonin nelle assemblee faceva di questo grande vanto, come ha ricordato su Linkiesta Piero Cecchinato. Gli azionisti avrebbero presto scoperto che, non essendo le due banche quotate in Borsa, liberarsi di quei titoli sarebbe stato quasi impossibile, se non per qualche privilegiato. Tutte questioni oggetto di inchieste penali e dell’azione di responsabilità ai danni degli ex vertici delle banche, a partire dai loro dominus per quasi 20 anni: Vincenzo Consoli di Veneto Banca e Gianni Zonin di Vicenza, quest’ultimo ufficialmente quasi nullatenente dopo essersi liberato delle proprietà a favore di figli e parenti.
Fin qui le responsabilità prima dello scoppio pubblico del caso, che esplode per Veneto Banca nel 2013 per un’ispezione di Banca d’Italia, mentre per Popolare di Vicenza bisognerà aspettare un’ispezione della Bce del 2015, che imporrà una drastica pulizia nei conti. Il capitolo giudiziario richiederebbe però una storia a sé, con il trattamento ben più duro (arresto) riservato dalla procura di Roma a Vincenzo Consoli rispetto a quello della procura di Vicenza verso Gianni Zonin. Così come un capitolo a parte sono le assunzioni in Popolare di Vicenza di ex funzionari di Bankitalia.
Si arriva dunque alla trasformazione delle due popolari in Spa (grazie a una riforma di cui va dato il merito al governo), mossa che dovrebbe portare a un aumento di capitale propedeutico alla quotazione in Borsa. È un fallimento, cosa che ex post risulterà un bene perché ha evitato che altri sottoscrittori ci lasciassero le penne. Gli istituti che si erano posti a capo dei consorzi di garanzia per l’aumento di capitale, Unicredit per Popolare di Vicenza e Intesa per Veneto Banca, si sfilano. È a quel punto che viene loro in soccorso il fondo Atlante, soluzione di sistema privata ma con regia pubblica e presenza della Cdp, creata appunto in quel frangente. Atlante sottoscrive le azioni a 10 centesimi, tutti gli altri sono azzerati (ci saranno un accordo transattivo e cause di chi non ha accettato; l’ultimo accordo tra governo e Intesa prevede peraltro una garanzia pubblica dei rischi legali per 1,5 miliardi). Le risorse di Atlante – 2,5 miliardi per i due istituti all’inizio, a cui aggiungerà quasi un miliardo nell’ottobre 2016 – non sono sufficienti per mettere le banche in sicurezza. Emergono nuovi crediti deteriorati, l’attività di intermediazione crolla del 35% (da 1 miliardo a 650 milioni) in un anno. Un anno dopo Atlante ha bruciato i capitali investiti. Altra mossa rivelatasi inutile è la fusione tra le due banche, perché i due istituti hanno problemi simili. Scrive poco prima della fusione Bolognini: «Unire due banche semi-paralizzate, che bruciano capitale, ancora esposte a ingenti indennizzi per le cause legali promosse dagli azionisti non appare a prima vista la migliore soluzione per creare un’unica banca competitiva e sostenibile». Le banche unite diventano zombie, la liquidità che le tiene in vita è quella della Bce.
A nulla è servito l’intervento di Atlante. Dopo 3,5 miliardi di euro immessi, le due banche sono rimaste degli zombie
Con la resa di Atlante 1, rimasto senza soldi per le venete, il governo tenta la carta della ricapitalizzazione precauzionale. Cerca di convincere la Commissione europea che le banche sono sistemiche, come Mps, e che quindi, al posto del bail-in, si possa giocare la carta dell’ingresso dello Stato come azionista. La Commissione accetta il principio ma chiede che le perdite certe o prevedibili, come dice la direttiva Brrd, non siano coperte dallo Stato. Servono quindi 1,2 miliardi di euro dai privati. Il governo li chiede al sistema bancario, che rifiuta. Dopo la scottatura di Atlante, con gli istituti che hanno già cominciato ad azzerare nei loro bilanci il valore delle loro quote, nessuno accetta l’invito.
Una seconda offerta coinvolge anche Unicredit, che dovrebbe muoversi in tandem con Intesa ma rifiuta una soluzione che non sia “di sistema”. Per l’esistenza di una terzo soggetto si è dovuto aspettare uno scoop della Reuters. Un’offerta da 1,6 miliardi di euro sarebbe arrivata da quattro fondi di investimento: Sound Point Capital, Cerberus, Attestor e Varde. Assieme avrebbero messo sul piatto 1,6 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi sarebbero stati destinati alla sottoscrizione di bond Tier1 e Tier2 e 300 milioni in azioni. Secondo Reuters i quattro puntavano ad avere il 15% della banca e prendere il controllo dell’istituto stesso. Secondo l’agenzia di stampa, il governo avrebbe discusso la proposta ma non avrebbe dato una risposta agli offerenti. Come ricordato dall’ex viceministro del Mef, Enrico Zanetti, il governo non ha ancora smentito la notizia. Sarebbe stata una proposta in grado di rilanciare le banche, permettendo di alleviare il peso per lo Stato? Non conoscendo i dettagli della proposta, non è possibile dare una risposta, ma più trasparenza sarebbe stata apprezzabile. Sul tema Fabio Panetta di Bankitalia ha detto lunedì 26 giugno che la proposta stata bocciata dalla Dg comp perché «mettevano troppo poco capitale».
In questa fase si pone il tema se andare avanti con la procedura del burden sharing o tentare un’altra carta. Con le offerte private auto-esclusesio escluse, In linea teorica per il burden sharing non sarebbe rimasto che pescare gli 1,2 miliardi dai possessori di bond senior. L’effetto sui conti pubblici, rispetto a quello che è emerso dopo, sarebbe stato inferiore (lo Stato avrebbe messo poco meno di 4 miliardi). L’effetto sul sistema bancario e sulla capacità da parte delle altre banche di emettere obbligazioni senior è dubbio: sarebbe stato limitato ad altre banche in condizioni mediocri, che avrebbero visto prezzare più realisticamente il proprio rischio, o avrebbe coinvolto in maniera più estesa gli altri istituti? Gli effetti politici, con le proteste degli obbligazionisti delle azioni più sicure – diverse in questo dalle subordinate – in piazza nei giorni delle amministrative, sarebbero invece stati certi. Altri (sempre Zanetti) invocano di procedere con la ricapitalizzazione da parte dello Stato, andando incontro consapevolmente a una procedura di infrazione. Strada però un’altra volta presa alla cieca, rispetto alle conseguenze politiche nel breve e nel medio politico nei rapporti con Bruxelles.
Per l’esistenza di una terzo soggetto che si è fatto avanti, alla fine di maggio, si è dovuto aspettare uno scoop della Reuters. Un’offerta da 1,6 miliardi di euro sarebbe arrivata da quattro fondi di investimento: Sound Point Capital, Cerberus, Attestor e Varde. Assieme avrebbero messo sul piatto 1,6 miliardi di euro. L’offerta è però stata ignorata
Il governo sceglie di fare un’inversione a U. Si abbandona la Brrd e si va verso la liquidazione coatta amministrativa (non c‘è ancora una legislazione europea sulle liquidazioni e quindi si usa la legge italiana). Che nella sua versione normale dovrebbe prevedere la messa all’asta degli asset, incluse le obbligazioni senior. Ma si andrà verso una versione modificata, con 37 deroghe (a fare presto il calcolo è stato Oscar Giannino), che prevedono anche la copertura dei bond senior (su questo punto Silvia Merler del centro studi Bruegel invita però ad attendere risposte esplicite). Così le banche, prima considerate recuperabili, vengono presentate dal governo a Bruxelles come in via di fallimento. La Bce e il Single Resolution Board danno il via libera e le dichiarano appunto “in fallimento o in probabile fallimento”.
Le banche che nel frattempo hanno avuto accesso alla data room predisposta dalla Banca Rothschild, advisor del Mef, sarebbero Intesa, Unicredit (forse), Bnp Paribas. Anche la holding in fieri Iccrea mostra interesse per una delle due banche, ma si ritira subito.
Intesa si ritrova di fatto a giocare una partita senza rivali, impone le sue condizioni e vede il governo sottoscriverle nel decreto. La banca fa il suo mestiere, tutela il valore degli azionisti, e ha imparato, attraverso l’esperienza di Atlante, che quando si scoperchiano i cassetti esce fuori di tutto. La stessa Ubi, a cui pure era stato imposto un aumento di capitale, dopo aver acquistato le 3 banche popolari a un euro aveva trovato molte più schifezze di quanto credeva. Di qui la richiesta di Intesa di tutelarsi per tre anni dai crediti in bonis considerati ad alto rischio, con copertura statale di ben 4 miliardi. Viene il dubbio, di fronte a questo dato, se in caso bail-in i bond senior sarebbero bastati (un calcolo del prof. Erzegovesi ha stimato in 7 miliardi i senior unsecured realmente aggredibili da bail-in) o fosse necessario allargare lo spettro ai conti correnti sopra i 100mila euro.
Il governo non si ritrova comunque nelle condizioni di trattare e ha come primo obiettivo far digerire la svolta alla DGComp europea, da cui alla fine arriva il disco verde. Il giorno dopo riaprono i mercati, lo spread scende e la Borsa sale. Ovviamente in testa c’è Intesa, che intanto si affretta a rifiutare il concetto di “regalo” perché «la parte sana degli attivi non è sufficiente a pareggiare i passivi», ha detto il presidente della banca, Gian Maria Gros-Pietro: «Intesa prende a suo carico depositi e obbligazioni senior delle due banche venete, parliamo di circa 20-30 miliardi», ha continuato. «I debiti che queste due banche hanno non vanno a carico dei contribuenti» (qui l’elenco del perimetro delle attività e passività rilevate). Gli analisti, da Intermonte a Credit Suisse, elogiano il fatto che non ci sia più rischio sistemico generato dalle banche venete, che sarebbe rimasto con operazioni che avessero coinvolto gli altri istituti, come con Atlante. Ma sottolineano anche come l’affare sia stato soprattutto per Intesa, con Mediobanca che parla di un aumento del 6% dell’utile per azione atteso per Ca’ de Sass. Aggiungiamo: con un conto che sarà pagato dalle generazioni future. Per capire se davvero, come fa Credit Suisse, sia il caso di parlare di “happy end” per le banche italiane, bisognerà aspettare i risultati, economici e politici. I confronti tra annunci e consuntivi sono ormai un genere letterario della finanza italiana.
Per capire se davvero sia il caso di parlare di “happy end” per le banche italiane, bisognerà aspettare i risultati, economici e politici. I confronti tra annunci e consuntivi sono ormai un genere letterario della finanza italiana
27 giugno 2017