Massimo Villone
Per le riforme si avvicina il momento della verità. La presidente Finocchiaro dichiara inammissibili gli emendamenti all’art. 2 volti a ripristinare l’elezione diretta dei senatori. Renzi comanda che il disegno di legge sia approvato entro il 15 ottobre e diffida Grasso a non mollare. Grasso stizzito rivendica a se stesso la decisione in Aula sugli emendamenti, senza in alcun modo anticiparla e lasciando quindi la porta aperta ai voleri renziani. La conferenza dei capigruppo rinvia tutto all’Aula a rotta di collo. Intanto, la minoranza Pd abbandona il tavolo della mediazione, finita su un “binario morto”.
Un copione in larga misura già scritto. In fondo, l’unico punto di ambiguità era dato proprio dalla scelta dei dissenzienti Pd di calarsi in una trattativa semi-segreta tutta interna al partito. Palesemente, non era nel loro interesse farsi ingabbiare. Al contrario, il loro interesse era ed è scendere in campo per una battaglia aperta e visibile in nome di una pubblica opinione largamente favorevole. I sondaggi ci dicono che per il 70% degli italiani i senatori dovrebbero essere eletti direttamente.
Qui la forza della minoranza Pd oggi, ed anche la speranza di sopravvivenza politica domani. Disperdere questa risorsa in una trattativa invisibile in oscure sedi partitiche è comunque sbagliato. Qualunque esito verrebbe letto come bassa cucina sorretta da futili se non abietti motivi. Non si può dire al popolo italiano che la Costituzione si scrive guardando agli interessi della ditta o, ancor peggio, a quelli personali.
Se la minoranza Pd abbia numeri sufficienti a bloccare la riforma si vedrà. Ma intanto la drammatizzazione dello scontro da essa provocato ha contribuito a richiamare sul tema l’attenzione della opinione pubblica, tanto da giustificare sondaggi che evidenziano un vasto dissenso popolare verso la proposta del governo. La questione non è banale, perché mostra il fallimento di una strategia di comunicazione fondata su argomenti in parte tecnicamente mendaci — ad esempio, che il senato non elettivo sia necessario per superare il bicameralismo paritario — e in parte risibili — come il risparmio di spesa, ridotto a spiccioli. Non sono bastati i tweet, gli attacchi ai gufi, le arroganti intemperanze verbali di Renzi. È stato colto invece il punto centrale: che in democrazia la scelta di chi ci rappresenta è un passaggio cruciale. Comitati e movimenti che già si organizzano nella prospettiva del referendum devono trarne la conferma che il campo di battaglia sarà la riduzione degli spazi di partecipazione democratica.
I sondaggi lasciano i favorevoli al senato dei nominati a circa il 30%. Più o meno quella che sarebbe oggi la forza parlamentare del Pd senza la gruccia del premio di maggioranza. Il che ancora una volta dimostra come sia stato e sia inaccettabile porre una riforma stravolgente nelle mani di un parlamento fondato sui numeri illegittimi di una legge elettorale incostituzionale proprio nel premio. E ribadisce altresì l’incultura costituzionale del premier, che vorrebbe dare agli italiani una Costituzione verso la quale il paese in larga maggioranza dissente in un punto fondativo. E per di più vuole darla con una maggioranza raccogliticcia, approfittando dell’acquiescenza di assemblee snervate da tre turni di Porcellum e affollate di anime morte, e per di più con il sostegno decisivo di voltagabbana e trasformisti. Una indecenza, per chi crede nella politica, nella Costituzione, nella Repubblica.
Qualcuno dirà che la riforma contiene anche altro. È vero. Ma della sorte del Cnel gli italiani felicemente non si curano. E nemmeno dei mal di pancia delle regioni, che non pochi considerano luoghi di nequizie e malaffare. Del resto, non è stato lo stesso Renzi a presentare il senato non elettivo come la madre di tutte le battaglie? Lo ha fatto non certo per una Costituzione migliore e per elevate considerazioni di filosofia istituzionale, ma per lucrare sull’argomento populistico dei tagli di spesa. Una scommessa sbagliata.
È importante che si vada a una battaglia aperta e visibile per l’opinione pubblica. Era ed è possibile aprire sulla ammissibilità di emendamenti all’art. 2, come abbiamo argomentato io e Besostri nella audizione presso la Commissione Affari costituzionali del Senato il 27 luglio. La Finocchiaro poteva, volendo, decidere diversamente. Così potrà fare Grasso, se vorrà. Che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Una lettura notarile di regole e prassi può condurre a conclusione diversa. Ma che porti a una Costituzione forte e duratura, nella quale il paese sì riconosca, si deve escludere. Né servono a tal fine le vie traverse volte a un senato un poco elettivo, ma senza esagerare, ad esempio lasciando al legislatore regionale il compito di assicurare in qualche forma la partecipazione degli elettori alla scelta dei senatori. Una proposta in tal senso viene da “ASTRID” (l’Associazione presieduta da Bassanini), con un documento sul quale mi sono trovato ad esprimere un dissenso solitario. Per me, eleggere un parlamentare significa scrivere un nome su una scheda da mettere nell’urna, senza se e senza ma. Un gesto elementare, ma fulcro della democrazia. Chi ne ha paura?
16.9.2015