Il Gruppo Intesa Sanpaolo aveva promesso di uscire completamente dal business armamenti. Oggi è la seconda “banca armata” con una crescita del 485% rispetto all’anno precedente. Dalla Relazione governativa emerge un calo complessivo di vendite di armi nel 2018, ma un aumento rilevante delle licenze con importi minori. Il 72% finisce a stati non Ue o Nato, come la Libia. Pubblichiamo un’anticipazione dell’articolo che uscirà su Nigrizia di giugno, disponibile tra qualche giorno.
di Gianni Ballarini
Quel 31 maggio 2007 aveva ingrassato le speranze di molti. Nella piazzetta dell’Altra Economia, uno spazio nell’ambito del Festival dell’Economia di Trento, Valter Serrentino, responsabile Csr (Responsabilità sociale d’impresa) del gruppo Intesa Sanpaolo, annunciava: «Entro poche settimane un nuovo ordine di servizio stabilirà che si esce dall’operatività legata all’export di armi».
Erano gli anni in cui le banche si mostravano fameliche di un abacadabra, qualunque esso fosse, che le facesse uscire indenni da una campagna che lesionava la loro immagine. Intesa Sanpaolo, nel 2006, era stata la prima “banca armata” con oltre 400 milioni di euro di operatività in appoggio alle esportazioni italiane di armi. «Come possiamo scegliere di non finanziare un progetto per il rischio creditizio, così possiamo scegliere di non partecipare a un certo business a causa del rischio di reputazione» giustificò, Serrentino, l’uscita dal business.
Qualche settimana dopo, a metà luglio, il gruppo emise un comunicato nel quale confermava la decisione di sospendere definitivamente «la partecipazione a operazioni finanziarie che riguardano il commercio e la produzione di armi, pur consentiti dalla legge 185/90». Una scelta coerente «con i valori e i principi espressi nel Codice Etico».
I vertici di Intesa Sanpaolo motivarono quella scelta con l’adesione «allo spirito dei principi della Costituzione italiana, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», e come una risposta alla «richiesta espressa da ampi e diversificati settori dell’opinione pubblica che fanno riferimento a istanze etiche».
Tuttavia, la retorica pacifista in bocca a un banchiere si stiracchia facilmente in menzogna. Dentro le stanze del gruppo, l’indignazione svaporò ben presto e ricominciarono i giorni del “ma”; l’annuncio del 31 maggio 2007 si trasformò in un banale rito gratuito. Oggi Intesa Sanpaolo non solo è presente nella lista “Banche armate”, inclusa dalla Relazione governativa 2019, riferita ai dati 2018; ma si colloca al 2° posto, con una crescita del 485% rispetto alle operazioni di un anno prima. Oltre un miliardo di euro (1,1) l’ammontare delle transazioni bancarie legate alle sole esportazioni definitive, pari a quasi il 16% del totale. Dai conti correnti di Intesa Sanpaolo e del Gruppo Unicredit – al 1° posto anche quest’anno, con oltre 3,3 miliardi di euro, pari al 44,68% – transita oltre il 60% del denaro che le grandi aziende armate incassano vendendo i loro prodotti all’estero.
Il refrain
La formula magica, adottata nel 2016, dai vertici di Intesa Sanpaolo per giustificare il cambio di rotta è un refrain adottato da molti istituti in questi anni: «Consapevole della necessità di sostenere la difesa nazionale ed europea unitamente ai paesi alleati nella Nato, il Gruppo Intesa Sanpaolo non supporta operazioni che riguardino la produzione e/o la commercializzazione di materiali di armamento, seppure consentite dalle leggi vigenti, in paesi che non appartengono all’Ue e/o alla Nato», si legge nella nuova policy. Quindi è lecito il supporto alla vendita di armi, ad esempio, alla Turchia, paese Nato, dove la tutela dei diritti è un optional? Oppure in quale voce del tariffario etico si collocano i sostegni ai progetti del fatidico Joint Strike Fighter-F35 (2,8 milioni di euro) o delle fregate Fremm (9,7 milioni)?
Le scelte del gruppo lombardo-piemontese fotografano cambiamenti già in atto da anni nel mondo finanziario italiano, allergico a ideologie che non producano denaro e utili. Per le banche rimane strategico mungere la munifica industria bellica. La stessa lombarda Ubi banca, nonostante un nuovo codice etico, ha registrato nel 2018 una crescita nelle operazioni a sostegno delle esportazioni di armi del 302% rispetto ai dati del 2017.
Complessivamente, dalla Relazione del ministero dell’economia e delle finanze (Mef) risultano, nel 2018, 16.101 segnalazioni (+8,14% rispetto al 2017) dagli operatori bancari per transazioni di poco superiori ai 4 miliardi di euro di “importi segnalati” e di 3,3 miliardi per “importi accessori segnalati”. Il volume complessivo supera, tuttavia, i 9 miliardi di euro.
Cala l’export
Per quanto riguarda, invece, le autorizzazioni ad aziende a esportare armi, la Relazione registra un brusco calo rispetto al boom degli anni precedenti. Il valore nel 2018 è stato di 5,2 miliardi di euro di cui 4,7 per autorizzazioni individuali (- 49% rispetto ai 9,5 miliardi di euro del 2017 e – 67% rispetto ai 14,6 del 2016). Si tratta, come rileva l’Osservatorio dei diritti, di un calo fisiologico dovuto ai consistenti ordinativi di armamenti assunti negli anni scorsi, la cui produzione sta impegnando le aziende militari per diversi anni. Ma l’assenza di mega commesse evidenzia, altresì, che il totale dell’export è stato prodotto da un ampio numero di licenze con importi minori. E ciò, come osserva la Rete italiana per il disarmo, «è ancora più preoccupante».
Sono stati 84 i paesi destinatari delle licenze (85 nel 2017) e solo il Qatar ha superato la soglia del miliardo di euro (1,9) di valore di armi ricevute. Dopo troviamo il Pakistan (682,9 milioni), la Turchia (362,3) e gli Emirati Arabi Uniti (220,3). Tutti paesi extra Ue. E questo evidenzia l’altro dato preoccupante: considerando le licenze singole, il 72% delle autorizzazioni è rivolto a paesi non appartenenti alla Ue o alla Nato. Spesso stati belligeranti o dispotici. Un record storico. Tra le aziende esportatrici, la parte del leone la fa il gruppo Leonardo (ex Finmeccanica) che pesa il 66,24% sul totale del valore esportato.
L’offensiva commerciale in Africa ha rallentato rispetto al 2017, anno, quest’ultimo, che aveva registrato il valore più alto degli ultimi 10 anni, oltre 440 milioni di euro. Tuttavia, alcuni dati meritano attenzione. Dei 153 milioni del 2018, ben 69 sono licenze riguardanti l’Egitto: il picco degli ultimi 5 anni. E Il Cairo non è terra dei diritti. Ma sorprende anche un altro dato, apparentemente irrilevante: nel 2018 abbiamo venduto 4 milioni di euro di armi alla Libia. Vendita mai avvenuta nei 4 anni precedenti, proprio per la situazione di conflitto che vive quel paese. Fonti militari giustificano questa scelta con un formalismo portato all’eccesso: avendo la Libia un governo (quello di Tripoli) riconosciuto dall’Onu e dalla maggior parte della comunità internazionale e non essendo in conflitto con nessun altro paese la sua richiesta di armamenti appare legittima e supportata dall’Onu. Ogni commento è superfluo.
27 maggio 2019