di Nicola Tranfaglia
Ricordo sempre, quando mi capita di scrivere articoli che parlano delle vicende che riguardano le nostre mafie (nostre, purtroppo, perché sono nate nel nostro Paese e qui sono prosperate, nella storia repubblicana con i governi di diverso colore che l’hanno percorsa in più di settan t’anni di storia come, del resto, era avvenuto nel periodo liberale e in quello fascista) di ricordare l’ultima pagina del libro-intervista che Giovanni Falcone scrisse con la giornalista francese Marcelle Padovani nel 1991 e che disse anche a me nell’unico incontro che ebbi la fortuna di avere con lui in una delle periodiche visite sempre fatte negli ultimi anni all’Archivio Centrale dello Stato per le mie numerose ricerche sulla difficile storia del nostro amato (anche da me) ma anche disgraziato Paese. Tra le tante ne ricordo poche ma importanti:” Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa Nostra – per un’evidente convergenza di interessi-nel tentativo di condizionare la nostra democrazia ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi.”
Poche frasi ma pesanti rispetto all’interpretazione complessiva della vicenda repubblicana da cui non sono mai riuscito a distaccarmi. E questo per non sottovalutare gli avvenimenti che ancora oggi riempiono le nostre cronache giornalistiche e influiscono fortemente sulle vite delle vittime e di quelle persone che si preoccupano istintivamente (e non perché hanno aspirazioni politiche personali) di quel che succede nella nostra storia.
Il 1992 fu segnato dalla morte di Falcone e Borsellino, come in precedenza lasciarono il segno gli omicidi di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Pier Santi Mattarella, il fratello maggiore del nostro attuale presidente della repubblica, Sergio. Nel 1993, senza dimenticare le bombe di Firenze e Roma, c’è una strage che oggi mi trovo a ricordare, la strage di via Palestro a Milano, in cui morirono l’agente di polizia [municipale – ndr] Alessandro Ferrari, i vigili del fuoco Carlo La Catena Sergio Pisotto e Stefano Picerno ma anche l’immigrato marocchino Moussafir Driss. Quell’attentato dece crollare il Padiglione di Arte Contemporanea della Mostra della vicina Galleria di Arte Moderna e colpisce per le modalità dell’attacco che dopo i fatti di Palermo si spostò sul Continente assalendo il patrimonio artistico nazionale. Ci sono voluti più di dieci anni e successive e molto lunghe indagini con nuove confessioni del pentito di Brancaccio Gaspare Spatuzza per avvicinarsi via via a una versione attendibile di quello che era accaduto. E di recente ha deposto sui fatti l’ex boss del quartiere Altofonte di Palermo, Francesco Di Carlo che rivela alcune interessanti novità sull’episodio. Racconta Di Carlo che agenti dei servizi segreti italiani fecero visita in carcere al boss mafioso mentre era detenuto in Inghilterra per il narcotraffico e gli chiesero se potevano avere un contatto a Palermo. Di Carlo, che dispone di buone entrature nei servizi segreti, ed è collaboratore di giustizia dal 1996, parla di strani incontri e di inquietanti richieste da parte dei servizi segreti italiani. Lo fa come testimone nel processo di Milano contro Filippo Marcello Tutino che avrebbe portato la Fiat Uno il 27 luglio 1993 davanti al Padiglione di Arte Contemporanea uccidendo le persone già indicate. Secondo Di Carlo, gli agenti comandati dal capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Il boss torna sulla stagione delle stragi nel ’92-93 e dice che allora l’associazione mafiosa era più equilibrata e che gli attentati a Falcone e a Borsellino vennero decisi da qualcuno che aveva l’ob biettivo di destabilizzare il sistema, mandare via Falcone da Palermo e contrastare il regime del ’41 bis. E del mafioso Antonino Gioè che partecipò alla strage di Capaci e si impiccò poco dopo in carcere, parla Paolo Bellini che ricorda di aver incontrato il maresciallo dei carabinieri Tempesta e allora chiese di potermi infiltrare in Cosa Nostra e, secondo lui, il via libera all’operazione arrivò da Mario Mori, imputato nel processo sulla trattativa tra mafia e Stato.
Siamo sempre di più davanti a tasselli che servono a ricomporre un puzzle complicato e ancora lontano dall’essere chiaro ed esauriente.
1° marzo 2015