di Aaron Pettinari
Beppe Alfano è morto a quarantotto anni, l’8 gennaio 1993. Da allora sono passati ventitré anni e quattro processi che tuttavia non hanno fatto piena luce sulla sua morte. Il 2016 che è appena iniziato, però, porta con sé una nuova speranza. Oltre al valore della memoria per il sacrificio di un uomo che è stato ucciso solamente perché aveva deciso di compiere il proprio dovere di giornalista, un barlume di verità su tanti buchi neri che hanno investito questa vicenda negli anni si è aperto grazie alle recenti rivelazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto. E’ così che si sono aperti nuovi scenari su un caso, quello dell’omicidio del corrispondente de La Sicilia, che per anni sembrava avere delle certezze, almeno sul piano del rinvenimento degli esecutori materiali dell’attentato. “Ad uccidere il giornalista non fu Antonino Merlino ma Stefano ‘Stefanino’ Genovese” ha dichiarato ai pm di Messina che hanno aperto una nuova inchiesta sull’omicidio, sui mandanti esterni e sul depistaggio che, a questo punto, appare sempre più evidente. Beppe Alfano si era fatto conoscere già prima del suo incarico a La Sicilia attraverso le antenne barcellonesi di Telenews, l’emittente televisiva rilevata nel ’90 dall’amico d’infanzia Antonio Mazza. Alfano era direttore dei servizi giornalistici, si occupava della cronaca mentre Mazza cura gli editoriali. Insieme denunciavano abusi, inadempienze, sprechi della pubblica amministrazione negli anni in cui il senatore andreottiano Carmelo Santalco dominava la scena politica di Barcellona. Alfano aveva anche scoperto gli scandali di un’associazione di assistenza dove avevano messo le mani insieme politici e mafiosi e stava indagando sulla potente massoneria coperta operante nelle città di Barcellona Pozzo di Gotto e Messina. Non solo.
Alfano stesso intuì, racconta ancora Mirone, che avrebbe pagato a caro prezzo per la sua attività: “Ormai è soltanto questione di giorni. Non mi hanno ucciso a dicembre, lo faranno prima della festa di San Sebastiano” (il 20 gennaio), disse ai suoi familiari alla fine del 1992. Qualche giorno dopo, la sera dell’8 gennaio 1993, intorno alle 22.30, dopo aver accompagnato la moglie a casa, risalì in macchina. Pochi minuti dopo si fermò accostando al marciapiede. Qualche secondo e venne colpito in testa da tre spari di pistola.
Il processo
All’inizio si diffuse la voce che fosse stato ucciso per questioni di gioco, o forse passionali. Il processo per la morte del giornalista iniziò nel 1995: imputati erano Antonino Mostaccio, ex presidente dell’Aias, e il boss Giuseppe Gullotti, presunti mandanti. Insieme a loro Antonino Merlino, accusato di aver eseguito il delitto. Quest’ultimo fu condannato a ventun anni e sei mesi di reclusione, mentre i primi due vennero assolti. Al processo d’Appello la condanna a Merlino venne confermata, ma a questa si aggiunse quella a Gullotti (a trent’anni) con la matrice mafiosa dell’omicidio che venne comunque riconosciuta. Adesso però, con le dichiarazioni di D’Amico, il caso si riapre con nuovi indagati, mentre sullo sfondo restano molteplici ombre.
Verità mancante
La figlia, Sonia Alfano, nel chiedere che sia fatta piena luce sui mandanti del delitto ha raccontato che il padre stava indagando sui traffici di armi e uranio. Documenti che sarebbero poi spariti. “Quegli appunti – ha ricordato – sono spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine. Alle 22.45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate”. Ma non ci sono solo questi aspetti che andrebbero chiariti. Tra i buchi neri ancora irrisolti, vi è il mistero della Colt 22, l’arma usata per l’omicidio, mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano Olindo Canali, titolare dell’inchiesta, aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare, con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente.
E’ sempre l’avvocato Repici a scoprire però l’esistenza di un’altra Colt 22 nelle disponibilità di Imbesi. Quest’altra arma sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nel 1984 in quanto coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine. Insieme a Mariani, viene arrestato anche Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e considerato anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti), accusato dal pm di Barcellona Francesco Di Maggio (ex vice capo del Dap, ritenuto tra i personaggi chiave della trattativa e uno dei principali artefici, nel ‘93, della revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi) affiancato da Olindo Canali, al tempo uditore e che diventerà in seguito pubblico ministero al processo Alfano. Canali, dopo aver restituito la prima pistola a Imbesi, si recò a Roma per incontrare Di Maggio. La sua partecipazione ad incontri sul delitto Alfano, quando ancora ricopriva l’incarico di funzionario Onu a Vienna, sarebbe stata giustificata dall’aver svolto indagini che coinvolgevano “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”. Secondo la ricostruzione di Repici, che insiste proprio sulla centralità della pista della Colt 22, questa descrizione calzerebbe perfettamente al profilo di Cattafi e nei mesi scorsi lo stesso legale ha chiesto alla Procura di Messina di appurare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata per l’attentato al giornalista. Resta poi aperto quel filone d’inchiesta sull’omicidio Alfano che riguarda la latitanza nel barcellonese del boss catanese Nitto Santapaola. Secondo l’ipotesi investigativa Alfano sarebbe venuto a conoscenza della presenza del capomafia in quei luoghi. La stessa figlia del giornalista, Sonia Alfano, è sempre stata convinta che il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Canali della presenza di Santapaola a Barcellona. Infine, dopo le rivelazioni di D’Amico che di fatto smentirebbero le dichiarazioni di un altro pentito, Maurizio Bonaceto (primo accusatore del killer Antonino Merlino, condannato definitivamente per il delitto, ndr), qualora fossero riscontrate, andrebbe accertato il perché quest’ultimo abbia accusato del delitto un presunto innocente.
08 Gennaio 2016