di Miriam Cuccu
Ucciso da Cosa nostra 25 anni fa. Oggi scenari ancora aperti sull’arma dell’agguato
Beppe Alfano non aveva neanche il tesserino da giornalista la sera in cui tre proiettili lo uccisero 25 anni fa, sulla sua Renault 9. L’Ordine lo conferì alla sua memoria solo nel 1998, a quel cronista di Barcellona Pozzo di Gotto che scriveva di intrecci tra mafia, massoneria e politica. Giornalista “rompicoglioni” per passione, già prima di collaborare per il quotidiano “La Sicilia” Alfano aveva iniziato a denunciare abusi, inadempienze, sprechi della pubblica amministrazione attraverso le antenne barcellonesi di Telenews, emittente tv rilevata nel ‘90 dall’amico d’infanzia Antonio Mazza. Qui Alfano si occupava di cronaca, dirigeva i servizi giornalistici. Ma aveva anche scoperto gli scandali di un’associazione di assistenza gestita “a quattro mani” da mafia e politica, e indagava sulle logge di Messina e Barcellona, considerata vero e proprio feudo del clan catanese dei Santapaola già dalla fine degli anni Settanta.
Barcellona Pozzo di Gotto, l’8 gennaio ’93, ha già trenta morti ammazzati negli ultimi dodici mesi, e Beppe Alfano è l’ottavo giornalista ucciso da Cosa nostra per aver scritto troppo. Prima ancora il grilletto era stato premuto per Mauro Rostagno e Peppino Impastato – che, come Alfano, il tesserino non l’avevano mai chiesto – Pippo Fava, Mario Francese, Giovanni Spampinato, Mauro De Mauro, Cosimo Cristina. Una scia di sangue, ma anche di domande senza risposta e indagini depistate, che ha inizio a cavallo degli anni ’60 e ’70. Non è da meno la vicenda di Alfano, per la quale sono stati condannati in via definitiva un mandante – il boss Giuseppe Gullotti – e un esecutore – Antonino Merlino. Fino a quando le dichiarazioni del pentito barcellonese Carmelo D’Amico non hanno dato la svolta: “Ad uccidere il giornalista non fu Antonino Merlino ma Stefano ‘Stefanino’ Genovese” ha dichiarato ai pm di Messina che hanno aperto una nuova inchiesta sull’omicidio, il sempre più evidente depistaggio, i mandanti esterni. È tornata in primo piano la questione della mancata cattura del boss Nitto Santapaola, che avrebbe trascorso l’ultima fase della sua latitanza proprio a Barcellona. Cosa di cui Alfano era a conoscenza e, secondo un filone dell’inchiesta, è per questo che la mafia avrebbe ordinato di assassinare il giornalista. Ne è convinta anche la figlia Sonia Alfano, secondo la quale il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Canali la presenza di Santapaola a Barcellona. Sempre la Alfano ha raccontato di documenti spariti riguardanti traffici di armi e uranio sui quali il padre stava indagando. Appunti, ha denunciato, “spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine”. Solo una parte di quel carteggio è stato poi riconsegnato ai familiari, e molto del materiale non è stato nemmeno verbalizzato.
Tra i buchi neri irrisolti, anche il mistero della Colt 22, l’arma usata per l’omicidio mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia del cronista. Venti giorni dopo il delitto Alfano – documenta un verbale del 28 gennaio ’93 – Olindo Canali, titolare dell’inchiesta, aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22, ma invece di sequestrare l’arma aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore andasse a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Otto giorni dopo il revolver era stato restituito al proprietario, senza che agli atti del processo risultasse alcuna perizia balistica. Solo diciassette anni dopo la Scientifica dimostrerà che quell’arma non è stata usata per l’uccisione di Alfano. Ma Imbesi, ha scoperto ancora l’avvocato Repici, possiede in realtà un’altra Colt 22, che sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nell’84 per essere coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine. Con lui viene arrestato anche Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) personaggio considerato anello di congiunzione tra Cosa nostra, massoneria e servizi segreti con un processo in corso per mafia.
Il legale della famiglia Alfano, secondo il quale la pista della Colt 22 è quanto mai centrale, aveva chiesto alla Procura di Messina di verificare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata l’8 gennaio ‘93. Ma si tratta di scenari aperti e piste da seguire, per capire i risvolti ancora nascosti sul delitto del giornalista che non ha mai smesso di indagare su mafia, massoneria e traffici illeciti, nemmeno dopo che qualcuno diede alle fiamme la sua auto. L’ultimo avvertimento prima che Cosa nostra passasse all’azione. Beppe Alfano continuava però a cercare e a scrivere sul suo Macintosh, seppure consapevole di avere i giorni contati: “Il 20 gennaio, non so se arrivo vivo al 20 gennaio” diceva. L’hanno ammazzato dodici giorni prima di quel sinistro pronostico, a poche centinaia di metri da casa.
08 Gennaio 2018