di Gianni Barbacetto
Soldi Expo affidati senza gara. E non per lavori qualsiasi, ma per “rendere smart”, più efficiente e informatizzato, il Palazzo di giustizia di Milano. Dove lavorano i magistrati che hanno il compito di controllare la correttezza degli appalti Expo.
Pochi si sono accorti, finora, di questo cortocircuito sotterraneo, segnalato negli anni scorsi dal sito giustiziami.it e da pochi altri, tra cui il Fatto quotidiano. Ora siamo a una svolta. Per due giorni, l’8 e il 9 febbraio 2017, il nucleo anticorruzione della Guardia di finanza si è presentato a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, con la richiesta di portar via i documenti sui lavori per i servizi telematici e le infrastrutture informatiche del Tribunale di Milano. Appalti per 16 milioni di euro di fondi Expo gestiti dal ministero della Giustizia (e non da Expo spa allora guidata dall’attuale sindaco Giuseppe Sala) e assegnati attraverso il Comune di Milano. Senza gara, almeno per 10 dei 16 milioni. A mandare la Guardia di finanza a Palazzo Marino è l’Anac, l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone, che si è attivata dopo una segnalazione partita più di un anno fa dalla Procura generale, guidata allora dalla reggente Laura Bertolè Viale, e dalla Corte d’appello, allora presieduta da Giovanni Canzio. A fine estate 2016 all’Anac è arrivata anche la segnalazione dei nuovi capi, il procuratore generale Roberto Alfonso e il presidente vicario della Corte d’appello Marta Chiara Malacarne.
La vicenda s’avvia nell’estate 2014, dopo le prime segnalazioni di giustiziami.it, che mette online i documenti degli appalti assegnati senza gara, e del Fatto. Bertolè Viale e Canzio convocano una riunione del “Tavolo Giustizia della città di Milano”, l’organismo che riuniva i rappresentanti del ministero, del Comune e dei magistrati, e chiedono seccamente che s’interrompa il sistema degli affidamenti senza gara. Un sistema gestito negli anni precedenti dal Tribunale di Milano, presieduto allora da Livia Pomodoro, e dall’Ufficio innovazione del Palazzo di giustizia, di cui era responsabile il gip Claudio Castelli. Sostanzialmente esclusi dalle decisioni, fino all’estate 2014, la Procura generale, la Corte d’appello e la Procura della Repubblica, che pure aveva costituito un Ufficio distrettuale per l’informatica (Udi). Livia Pomodoro è poi diventata presidente del “Milan Center For Food Law and Policy”, il centro di documentazione e studio sulle norme e sulle politiche pubbliche in materia di alimentazione, nato nel 2014 per iniziativa di Expo spa, Comune di Milano, Regione Lombardia e Camera di commercio di Milano.
I soldi di “Expo per la giustizia” sono stati utilizzati per realizzare il sistema del Pct (Processo civile telematico) e alcune infrastrutture informatiche. Senza grandi risultati: il Pct ha a lungo sofferto di malfunzionamenti e i 200 monitor Samsung installati in ogni angolo del Palazzo di giustizia ancora oggi non funzionano. Da tre anni diffondono un titolo: “Udienza facile”, che promette di aiutare i cittadini a orientarsi nel labirinto del Palazzaccio, segnalando in quali aule si tengono i processi. Invece niente: il sistema ancora non funziona e bisogna continuare a orientarsi con i foglietti appiccicati con il nastro adesivo sulle porte delle aule. Eppure quei monitor sono parte di un appalto con fondi Expo per 2 milioni di euro.
Altri fondi sono stati incassati da Elsag Datamat (1,4 milioni) e Net Service (1,8 milioni), società del gruppo Finmeccanica. Nelle prossime settimane l’Anac farà i suoi accertamenti amministrativi e poi, se ravviserà profili penali, segnalerà tutto alla Procura. “Aspettiamo gli esiti dei controlli”, ha commentato Cantone.
Il Fatto quotidiano, 10 febbraio 2017