Le politiche liberiste europee, passivamente subite dall’Italia, hanno determinato lo scompaginamento del sistema bancario togliendo allo Stato la leva della politica monetaria e creditizia e ponendolo alle dipendenze della finanza.
di Ascanio Bernardeschi
Inizia con questo articolo un servizio sul sistema bancario italiano nel contesto della crisi economica.
Cominciamo con Marx. Nel caso del denaro dato a prestito, la forma della metamorfosi del capitale è D-D’ con D’ maggiore di D. Cioè viene messo in circolazione denaro e se ne ritrae di più di quello immesso. La valorizzazione avviene attraverso il puro movimento del denaro, senza che intervenga non solo la produzione, ma neppure la stessa circolazione delle merci. Si crea l’illusione che il denaro possa sgorgare da sé stesso e moltiplicarsi alla stregua dei pani e dei pesci di evangelica memoria. A chi si ferma a questa manifestazione fenomenica diviene invisibile la circostanza che il guadagno del capitalista finanziario è solo una quota del plusvalore complessivo, cioè lavoro non pagato, estratto nei settori produttivi e ripartito fra tutti i capitalisti, compresi quelli operanti nei settori non produttivi. Si raggiunge quindi con questa forma il culmine del feticismo del denaro.
La sezione finanziaria del capitale è anche quella che meglio di tutte rappresenta la pulsione del capitalista all’autoaccrescimento della ricchezza astratta, a prescindere dai modi con cui tale valorizzazione si realizza. Perciò non è sorprendente se nelle formazioni economiche in cui predomina il modo di produzione capitalistico, cioè nella maggior parte del globo, tutto si sacrifica agli interessi del capitale finanziario, compresi, il debito “sovrano”, che sovrano non è, trascinato fino ai limiti dell’ingovernabilità (e talvolta anche oltre), e le stesse istituzioni democratiche, regolarmente soggiogate alle sue esigenze.
Non va dimenticato però che le banche hanno oggettivamente un ruolo di primissimo piano nel sistema economico in virtù della loro capacità di determinare l’allocazione delle risorse finanziarie fra i vari rami economici e le varie imprese, attraverso le loro decisioni di finanziamento. Inoltre forniscono liquidità al sistema. Non a caso nella piattaforma del Manifesto di Marx ed Engels, è incluso l’ “accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo”. Anche Lenin, alle prese con la transizione al socialismo nella Russia post zarista, metteva al primo punto del suo Abbozzo di un programma di provvedimenti economici la nazionalizzazione delle banche. [1]
Il capitalismo non può funzionare senza il credito. Anche nell’ipotesi che i capitalisti dispongano di tutta la liquidità per avviare il processo di circolazione del capitale, D-M-D’ viene immessa in circolazione la quantità D di denaro, ma, per realizzare il plusvalore, deve ritornare dalla circolazione una quantità maggiore, D’. Dove trovare il denaro aggiuntivo? Per Marx, oltre che attraverso la coltivazione di nuove miniere d’oro, l’accumulazione può avvenire anche senza denaro, “attraverso il puro e semplice ammassamento di crediti”. [2]
A tal proposito, la scuola del circuito monetario sostiene che sono le banche che, concedendo credito, grazie al moltiplicatore bancario, creano moneta “dal nulla”. Di nuovo entrano in ballo i pani e i pesci! Quello che si crea è in realtà moneta di credito, cioè a fronte di questa liquidità sussiste un debito sulle spalle di qualcuno.
Un po’ di storia
Prima degli anni ’30 del secolo scorso il sistema bancario italiano era costituito da banche “miste” che potevano intervenire indifferentemente nel credito a breve, in quello a lungo termine e nella partecipazione al capitale delle imprese. Tuttavia, dal lato della raccolta prevalevano i depositi a breve dei risparmiatori, che potevano essere ritirati in qualsiasi momento. La divaricazione temporale fra raccolta, assai liquida, e impieghi, fortemente immobilizzati risaltò prepotentemente con il crack provocato dalla grande crisi del ’29-’39, di cui fece da amplificatore. Il legame inestricabile fra impresa e banca implicò che il fallimento dell’una trascinasse con sé il fallimento dell’altra.
Lo Stato dovette intervenire, sia per salvare le maggiori banche e socializzarne le perdite, attraverso la partecipazione statale al loro capitale, sia riorganizzando normativamente il sistema creditizio, introducendo un consistente ruolo dello Stato e regole idonee a prevenire nuovi guasti. Le partecipazioni statali nella grande industria, tramite l’Iri, finalizzate al salvataggio dell’apparato produttivo, sorsero a seguito di questa riforma.
Ne scaturì un sistema largamente pubblico in cui venivano distinte le varie tipologie di banche e per ciascuna di esse venivano definiti i limiti di intervento, separando il credito a breve da quello a medio e lungo termine e le banche commerciali da quelle d’affari, e stabilendo norme di tutela dei risparmiatori e di controllo pubblico delle banche stesse, ponendole anche al riparo da incursioni nel loro assetto proprietario. Il controllo del sistema bancario, a partire dall’Istituto di emissione, consentiva di gestire il debito pubblico e il relativo tasso di interesse senza dipendere dai “mercati”. L’indicazione della quota riserva obbligatoria sui depositi consentiva di determinare il moltiplicatore dei depositi e quindi di incidere profondamente sulla liquidità monetaria immessa nel sistema. L’intervento nei settori strategici e nei mercati finanziari riduceva lo spazio della borsa e permetteva di veicolare il risparmio verso le attività produttive. Nella sostanza si prendeva atto dei limiti del mercato e della necessità di un nuovo ruolo dello Stato a sostegno del capitalismo nella sua fase imperialistica.
Alcuni decenni fa, a seguito delle trasformazioni intervenute nel capitalismo a livello mondiale, è cambiato il contesto e il capitale ha attuato una feroce rivincita sulle conquiste dei lavoratori. Allo smantellamento dei diritti sociali si è unita la riconquista del sistema bancario che ha proceduto a passi spediti.
Riportiamo alcune pietre miliari di questa marcia.
– 1971. Nixon dispone la sospensione della convertibilità del dollaro. Il sistema monetario mondiale perde la connessione tangibile con l’oro. Ogni moneta ora si regge solo sulla fiducia di chi l’accetta in pagamento o sulla forza, anche militare, del Paese emittente.
– 1981. Il “divorzio” fra la Banca d’Italia e il Tesoro sottrae allo Stato la politica monetaria. Non è più possibile emettere moneta per finanziare la spesa pubblica, esponendo così i titoli di Stato alla speculazione finanziaria. I conseguenti elevati tassi concorrono all’ipertrofismo del debito pubblico.
– 1990. La legge Amato, in attuazione delle direttive dell’allora Comunità Europea, trasforma tutte le banche in Spa, facendo venire meno la garanzia dello Stato. Ne scaturisce la crisi di diversi istituti sottocapitalizzati, generalmente operanti nelle aree economicamente più deboli, ma anche di banche più solide che, a seguito di operazioni avventate, hanno rasentato il fallimento, richiedendo l’intervento dello Stato che si accolla quote azionarie maggioritarie (p. es. Monte dei Paschi di Siena). Tuttavia lo scopo di questi interventi non è quello di controllare il settore del credito, ma di salvare pezzi importanti del sistema bancario, pagando il costo di un ulteriore appesantimento del debito pubblico. Anche le Casse di risparmio spesso si sono fuse e trasformate in “globali”, perdendo largamente i legami con il tessuto di piccole e medie imprese del territorio. Le medesime direttive comunitarie indicano il superamento della distinzione fra banche commerciali e banche d’affari.
– Accordi di Basilea I, II e III. Al fine di porre rimedio ai guasti derivanti dall’eccessiva liberalizzazione, si stabiliscono i requisiti patrimoniali delle banche, sottoponendole alla valutazione del rating e a nuovi controlli sull’attività e sulla solvibilità dei rispettivi crediti. I requisiti patrimoniali pongono diversi istituti di fronte alla necessità di ricapitalizzarsi, o di essere assorbiti da banche più grandi. In altri casi devono liberarsi dei crediti di problematica esigibilità, svendendoli a società di recupero, con la conseguente svalutazione del proprio capitale e l’esigenza di ricostituirlo. Occorre considerare anche che le complesse e onerose metodologie previste per la valutazione dei rischi comportano la penalizzazione degli istituti minori, i quali, trovandole insostenibili, sono costretti a supplire con comportamenti molto più prudenziali, quindi, a parità di condizioni patrimoniali, a sviluppare meno la loro attività creditizia e perdere di competitività. Con ciò gli accordi di Basilea favoriscono oggettivamente le grosse concentrazioni bancarie e mettono fuori mercato i piccoli istituti, approfondendo il processo di centralizzazione del sistema bancario.
– 1992. Il Trattato di Maastricht, in previsione del passaggio all’euro, sottopone gli stati aderenti a vincoli finanziari pesanti, orientati esclusivamente al controllo dell’inflazione, e non all’occupazione e alla crescita economica. Infatti le teorie economiche dominanti che ispirano quel trattato affermano che la crescita economica possa scaturire spontaneamente dall’austerità e dal dumping sociale.
– Metà anni ”90 del ’900. Svendita delle partecipazioni statali Iri e delle banche di interesse nazionale.
– 2002. Introduzione dell’euro. Da questo momento la sovranità monetaria è perduta definitivamente, essendo Bce l’unica titolare della politica monetaria. La Banca d’Italia – che non è di proprietà dello Stato ma di banche e altri istituti finanziari e assicurativi – si è trasformata in un suo strumento.
Passo dopo passo lo Stato si è privato di ogni possibilità di governare il sistema bancario, eccettuati i salvataggi. Oltretutto l’assetto proprietario della Banca d’Italia, che è l’organo di controllo del sistema bancario, mette il controllore in posizione di controllato e non c’è da stupirsi quindi se la sorveglianza si è più volte dimostrata inadeguata.
La despecializzazione delle banche, e la possibilità di intervenire in vari contesti, compreso quello assicurativo, hanno determinato perfino ingerenze delle finanza nel sistema pensionistico e nello stesso servizio sanitario nazionale, nel frattempo resi permeabili dalle (contro)riforme che li ha investiti – orientate a un restringimento della funzione pubblica e a un ruolo crescente del mercato – senza trovare ostacolo nel sindacato confederale, che ha accettato, per esempio, in diversi contratti nazionali di lavoro, il welfare aziendale. La rivincita del capitale attuata negli ultimi decenni è passata quindi anche per la privatizzazione del sistema bancario.
Si sono capovolti i ruoli. La barra del potere, che era in capo allo Stato, per quanto al servizio del capitale, e che condizionava l’operato delle banche, passa ora a queste ultime, che tengono sotto pressione i poteri pubblici in virtù del crescente debito, la cui impennata è causata anche dai salvataggi bancari.
(Segue)
Note:
[1] V. Lenin, Abbozzo di un programma di provvedimenti economici, in Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di V. Giacché, il Saggiatore, 2017, p. 113.
[2] K. Marx, Il Capitale, Libro II, a cura di R. Panzieri, Ed. Riuniti, 1989, p. 364.
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27/09/2020