di: Andrea Cinquegrani
Quando è lo Stato a depistare. Quando sono alte istituzioni a calpestare la verità. Quando alcuni magistrati fanno a pezzi quel poco che ormai resta della giustizia.
Succede in modo sempre più clamoroso in due vicende che hanno segnato il tragico destino del nostro Paese: la strage di via D’Amelio in cui sono stati trucidati Paolo Borsellino e la sua scorta; e l’assassinio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Tutto succede nel più totale silenzio da parte delle massime autorità, con il Capo dello Stato Sergio Mattarella fino ad oggi muto, spettatore assente. Nel tombale silenzio di tutte le forze politiche impegnate a spartirsi le poltrone di sottogoverno, mentre le opposizioni sono ormai in via di liquefazione. E nel più assordante silenzio mediatico.
Autentici muri di gomma.
A levarsi, solitarie, le voci di Luciana Riccardi, madre di Ilaria, e di Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo. Due donne coraggio nel deserto.
ROMA E PERUGIA, PROCURE CONTRO
Partiamo dalla freschissima, ennesima richiesta di archiviazione tombale ribadita l’8 giugno al tribunale di Roma dal pm Elisabetta Ceniccola e super avallata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone.
Il caso Alpi-Hrovatin, secondo loro, deve sparire per sempre nel dimenticatoio. Assassini e mandanti non esistono: di certo si è trattato di un suicidio provocato dalla calura somala.
Uscendo dai paradossi ed entrando nelle spirali della giustizia di casa nostra, la imperturbabile pm Ceniccola se ne frega delle ultime acquisizioni arrivate dalla procura di Firenze e relative alle intercettazioni di alcuni somali che nel 2012 parlavano di “quei due italiani ammazzati a Mogadiscio”. Inutili.
Se ne sbatte della montagna di documenti portata in giudizio dai legali di Luciana Riccardi, ossia Giovanni D’Amati, Giuseppe D’Amati e Carlo Palermo.
E soprattutto se ne fotte della sentenza cardine pronunciata dal tribunale di Perugia poco più di un anno fa, con la quale è stato scagionato il povero Hashi Omar Hassan (16 anni di galera da innocente) e soprattutto in cui è stato messo nero su bianco che la costruzione del teste taroccato a tavolino, Ahmed Ali Rage, al secolo Gelle, ha rappresentato un vero e proprio “Depistaggio di Stato”.
Raramente capita di leggere una sentenza tanto chiara, inequivocabile e densa di contenuti come quella scritta a Perugia. In cui viene ricostruito per filo e per segno il Grande Depistaggio, minuto per minuto, settimana per settimana, mese per mese. Con un Gelle nel motore, addestrato a puntino per mentire davanti ad un pm; per fuggire con l’aiuto della polizia di stato, per trovare un lavoro grazie alla stessa polizia che addirittura lo ha accompagnato in una officina meccanica romana per due mesi andandolo pure a prendere con l’auto di servizio; e infine agevolandone la fuga in Germania prima e in Inghilterra poi.
Ai confini della realtà.
Gelle non ha mai testimoniato in dibattimento, eppure – caso più unico che raro, il teste chiave che non ribadisce in aula le sue accuse – la vittima predestinata è stata condannata a 26 anni, di cui 16 scontati. Perchè un mostro andava comunque sbattuto in prima pagina e un colpevole a tutti i costi trovato.
Se ne sono altamente fregate, le autorità tutte, di andare a cercare Gelle. Che se la spassava libero come un fringuello a Londra. Dove non lo hanno trovato gli 007 di casa nostra né l’Fbi, ma l’inviata di “Chi l’ha visto” Chiara Cazzaniga, con i non eccelsi mezzi di cui può disporre un normale giornalista.
Le parole di Gelle sono state la chiave del processo di Perugia, dove le toghe non hanno avuto difficoltà a capire la trama, svelare le alte connection, comprendere fino in fondo il meccanismo del clamoroso “Depistaggio di Stato”.
Un perfetto assist per la procura di Roma. La quale non doveva fare altro che leggere e capire la sentenza, riaprire il caso, fare un po’ di indagini e scovare killer e mandanti. Impresa non titanica, visto che moltissimi elementi probatori erano contenuti proprio nella sentenza perugina.
Come mai Ceniccola e Pignatone non hanno pensato di interrogare quei poliziotti depistatori, di cui nella sentenza di Perugia vengono fatti nomi e cognomi? Perchè non hanno richiamato a verbalizzare l’allora ambasciatore italiano a Mogadiscio? Perchè non hanno ‘invitato’ a deporre i tanti che hanno chiuso gli occhi e voltato la sguardo dall’altra parte?
Niente, alla procura di Roma hanno pensato bene di incrociare le braccia. E ora mettono insieme quattro frasi: “Non c’è alcuna prova di presunti depistaggi legati alla gestione in Italia del teste Ali Rage”. Alcuna prova? Prove colossali che solo chi non vuol vedere non vede.
E aggiungono: “C’è improbabilità di raggiungere dei risultati, anche alla luce della complessa situazione politica dello Stato africano, della divisione in clan ostili tra loro, dell’inesistenza di forze di polizia che potessero dare affidamento e dell’assenza, ancor oggi, di relazioni diplomatiche”.
Capito? Tutta colpa dei somali!
E sulle ultime indagini fiorentine: “le nuove intercettazioni – viene sostenuto – sono sostanzialmente irrilevanti e non rappresentano uno spunto solido per avviare nuovi accertamenti. Non modificano di una virgola il quadro probatorio”.
E chissenefrega della sentenza di Perugia! Ai confini della realtà.
Oserà dire una qualcosa, adesso, il Csm? O come al solito resterà muto, sordo e cieco?
L’ultima parola, comunque, spetta al giudice Andrea Fanelli, che dovrà pronunciarsi in modo definitivo sulla richiesta di archiviazione firmata dal suo capo, Pignatone, e dalla pm Ceniccola. Staremo a vedere.
UN ALTRO PENTITO TAROCCATO E L’AGENDA DEI MISTERI
Da un depistaggio all’altro eccoci alla strage di via D’Amelio. Siamo arrivati al Borsellino quater, con un percorso processuale caratterizzato dal taroccamento del pentito di turno, Vincenzo Scarantino, che esattamente nello stesso modo di Gelle è stato addestrato di tutto punto dagli inquirenti.
Sandro Provvisionato, sulle colonne della Voce, negli scorsi anni ha ricostruito in modo perfetto quel depistaggio, con una serie di inchieste da far tremare le vene e i polsi. Facendo nomi e cognomi, anche stavolta, degli artefici della connection.
Contro i quali si è più volte scagliata Fiammetta Borsellino, la coraggiosa figlia del grande magistrato che alcune settimane fa ha incontrato in carcere i fratelli Graviano, e con i quali avrebbe voluto un secondo incontro, invece negato dai vertici della magistratura, sia locale che nazionale.
Ha appena ribadito le accuse in occasione del festival “Una marina di libri”. Ecco le sue accorate parole: “Oggi la ricerca della verità è ancora più difficile perchè è connessa alla ricerca delle ragioni della disonestà di chi questa verità doveva scoprirla. Io non smetto di chiederla. Il contributo di onestà non devono darlo solo i mafiosi, ma anche le persone delle istituzioni che sanno”. E non parlano.
A proposto del falso pentito Scarantino, la figlia di Borsellino chiama in causa non solo i poliziotti ma anche diversi magistrati che sin dalle prime battute avrebbero avallato le tante deviazioni. “Sono stati loro stessi autori di un processo caratterizzato da grossolane anomalie. Neanche il CSM ha saputo dare delle risposte”. Tanto per cambiare.
Continua il j’accuse di Fiammetta: “Mafia e politica si fanno guerra o si mettono d’accordo. In quei giorni evidentemente si misero d’accordo. Mentre tutti sussurravano a mio padre che il tritolo per lui era arrivato. Lo sapeva anche il procuratore Pietro Giammanco che però non lo avvertì. E nessuno ha mai sentito il bisogno di avvertirlo”.
Per la storia, pochi giorni prima della strage di via Capaci Giammanco partecipò ad una cena a casa di Paolo Borsellino. L’ultima cena. Erano presenti alcune toghe ‘amiche’, tra cui Anna Maria Palma.
Anna Maria Palma ha istruito i primi processi Borsellino, coadiuvata dall’icona antimafia (allora giovane virgulto fra le toghe siciliane) Nino Di Matteo: insieme hanno diretto “l’operazione Scarantino”. A rivelarlo, nel corso di un’udienza del Borsellino quater, lo stesso pentito taroccato. Che non ha mancato di ricordare come i ‘suggeritori’ gli fossero sempre vicino: anche nel corso delle stesse udienze. Quando non ricordava una ‘battuta’, chiedeva di andare in bagno, dove trovava chi (il poliziotto o lo 007 di turno) gli rammentava la parte.
La giornalista e scrittrice Roberta Ruscica, in occasione della presentazione a Napoli del suo libro “I Boss di Stato – I protagonisti, gli intrecci e gli interessi dietro la trattativa Stato-Mafia”, ha ricordato: “Ho conosciuto Anna Maria Palma e ho creduto anche io in quella pista che si è poi rivelata del tutto sbagliata. E ricordo un particolare che mi raccontò Palma: era entrata in possesso della famosa agenda rossa di Paolo Borsellino. L’aveva avuta nelle sue mani. Non mi ha detto a chi poi l’aveva consegnata o che fine avesse fatto”.
Una storia sulla quale nessuno, fino ad oggi, ha mai pensato di far luce.
Come mai? Un mistero tra i misteri.
9 giugno 2018