Class action contro Uber. Un giudice della California ha dato il via libera a un’azione collettiva contro l’app per servizi di auto con conducente, in un caso che potrebbe cambiare il modello di business di tutte le società della cosiddetta ‘sharing economy’, l’economia della condivisione.
L’azione legale collettiva avviata ieri dovrà determinare se i 160.000 autisti di Uber in California devono essere trattati come dipendenti della società, come succede nei normali contratti di lavoro delle società di taxi tradizionali, e non come contractor. Se Uber sarà costretta a farsi carico dell’intero costo degli autisti, il modello di business di una delle start up tecnologiche più di valore al mondo potrebbe indebolirsi, creando un precedente per altre aziende che cercano di organizzarsi con lavoratori freelance.
«Il costo del lavoro per le società della sharing economy rischia di aumentare da un giorno all’altro di una percentuale stimata tra il 25 e il 40 per cento» dice Andrea Hagiu, professore alla Harvard Business School.
Ieri sera il giudice federale di San Francisco Edward Chen, ha stabilito, che il ricorso presentato da quattro autisti di driver contro Uber può essere considerato come un caso di class-action legale dove verrà rappresentato ogni autista che ha lavorato in California dal 2009. Uber si è detta «non sorpresa» dalla decesioni e ha fatto sapere che è pronta a ricorrere in appello. È l’ennesima tegola che cade sulla startup, e segue un pronunciamento della Commissione per il lavoro dello Stato della California.
Lo scorso 16 giugno, sempre in California, la Commissione per il lavoro aveva stabilito che gli autisti di Uber devono essere inquadrati come dipendenti, e non più come imprenditori terzi.
Oggi Uber agisce con modalità classiche di sharing economy, almeno sulla carta. E si pone fra la domanda dei clienti e l’offerta degli autisti. Questi ultimi possono essere di due categorie: Black e Pop. I primi sono autisti professionisti che dispongono di un’auto di fascia alta, come può essere un Suv o una limousine.
Per essere autisti di Uber Pop (servizio momentaneamente bloccato in Italia da una sentenza del tribunale di Milano del maggio scorso) basta, invece, rispondere a requisiti minimi: fedina penale immacolata, patente di guida da almeno 3 anni, non aver mai avuto sospensioni di patente, essere in possesso di un’auto intestata e immatricolata non più di 8 anni fa di dimensioni medie o grandi (con almeno 4 posti e in ottime condizioni), essere in possesso di una copertura assicurativa per i passeggeri.
Chi fa l’autista per Uber, comunque, è un prestatore d’opera. La Commissione californiana ha ribaltato tutto esigendo l’inquadramento dei lavoratori di Uber Pop come dipendenti. Ovviamente se la class-action dovesse concludersi con una condanna, Uber potrebbe vedersi costretta, ad esempio, a coprire alcune spese dei suoi autisti: dalle assicurazioni delle auto, alle riparazioni, fino al carburante. Insomma rischia di finire la convenienza del servizio.
La decisione della Commissione del lavoro californiana è nata da un’istanza ad opera di un’autista di Uber, Barbara Ann Berwick, presentata a inizio anno, culminata in una decisione ben più grande delle aspettative del singolo driver.
In Italia il 26 maggio scorso il tribunale di Milano ha sospeso in modo temporaneo il servizio UberPop, scatenando una eco mediatica fortissima e numerose polemiche fra favorevoli e contrari all’utilizzo della celebre App californiana. Il servizio è stato bloccato allo scadere del quindicesimo giorno (e cioè dal 10 giugno), come imposto dal giudice. Ma i legali di Uber hanno presentato un folto incartamento difensivo in vista del ricorso che è stato respinto e dello stop definitivo al servizio che trasformava chiunque in tassista.
Il tribunale di Milano non ha ritenuto valide le motivazioni difensive presentate da Uber, e ha chiuso la pratica affossando il servizio che, secondo i giudici ha almeno tre falle fondamentali: «Aumenta il traffico, non garantisce la sicurezza e approfitta della fiducia dei giovani».
Di Uber si è occupato qualche tempo fa anche il Nobel per l’economia Paul Krugman, in una lunga analisi, dove analizza i pro e i contro del servizio: «Uber – ha scritto l’ecconomista – sostanzialmente porta nel mercato dei taxi due temi. Uno è la rivoluzione degli smartphone: ora puoi battere qualche tasto sul display del telefonino per trovare un taxi, invece di startene in piedi sotto la pioggia ad agitare le braccia e maledire il tipo che schizza fuori a mezzo isolato di distanza e si prende il taxi che stavi cercando di far venire da te. L’altro tema è che i lavoratori di Uber in teoria sono liberi fornitori e non dipendenti, e questo consente all’azienda di non sottostare a gran parte della normativa pensata per tutelare gli interessi dei lavoratori dipendenti. Ed è questo secondo aspetto che suscita così tante polemiche politiche (…). È sicuramente possibile – auspica Krugman – separare le due questioni, cioè promuovere l’uso delle tecnologie senza pregiudicare gli interessi dei lavoratori».
2 settembre 2015